Diari di campo: Terre di Siena

di Umberto Pellecchia

Svoltando a destra, a un certo punto della SS Cassia in direzione Sud, si entra nelle colline. Siamo a una ventina di chilometri da Siena, paesaggi incredibili nelle terre degli Etruschi ospitano campi incolti, radi greggi di pecore e casali per la maggior parte abbandonati o in via di abbandono. Qualche orto, pochi ulivi, e una lenta ma inesorabile superstrada in via di costruzione che si infila cementizia tra i pendii per snellire il traffico della statale. È terra di passaggio, quella, tra le crete e un bosco mediterraneo che fa intuire la direzione verso il mare. In quella terra di Siena si sviluppa la tenuta di Suvignano: 700 ettari che hanno una storia, una storia che fa parte della storia dell’Italia contemporanea. Proprietà della mafia fino al 1996, poi espropriata nel 2007, ora in amministrazione giudiziaria, in attesa di decisioni che piovono dall’alto – nel rischio di una compravendita bizzarra decisa dal passato Governo che potrebbe riportare quel patrimonio di ettari nelle mani di acquirenti privati di dubbia legalità.

Intanto, nell’incertezza di cosa sarà, Suvignano galleggia con strenui tentativi di turismo agrituristico e faticose produzioni di prodotti agricoli. E con l’affitto di qualcuno dei casali ancora rimasti in piedi, dopo gli ultimi restauri di metà ’800 e qualche rattoppo contemporaneo per tirare a campare. Tra gli affittuari degli ultimi anni: una coppia di inglesi col mito toscano in tasca; famigliole di operai agricoli in regime post-mezzadrile e otto studenti della Facoltà di Lettere dell’Università di Siena. Recentemente, senza oneri d’affitto, questi ultimi otto sono stati sostituiti in uno dei casali da altrettanti cittadini dell’Africa sub-sahariana, designati a seconda di chi li nomina talvolta “immigrati”, se va meglio “profughi”, se va peggio “i ragazzi” o “i neri”, quando proprio è grassa “i rifugiati”. Sì, perché Suvignano, sparuto borgo nel comune di Monteroni d’Arbia, a venti chilometri da Siena, a cinque dal primo centro urbano, si è trasformata in struttura di accoglienza per richiedenti asilo. Una storia, che fa parte della storia dell’Italia contemporanea.

La condanna dell’accoglienza

Sembra che l’evento ormai definito “emergenza profughi dalla Libia” abbia messo per molti versi in crisi il già labile sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati di cui era attrezzato il nostro Paese. O, mutatis mutandis, l’emergenza profughi mostra, come molti altri fenomeni correlati, quella che già da qualche anno a questa parte è la direzione che ha preso il rapporto tra le istituzioni pubbliche nazionali e accoglienza degli asilanti. Un rapporto che sempre più si organizza attraverso logiche di disuguaglianza e di esclusione. Ultimamente, infatti, i cittadini provenienti dall’Africa e dall’Asia con richieste di asilo politico o di protezione umanitaria e in attesa di giudizio da parte delle Commissioni Territoriali, hanno trovato poche possibilità di accesso ai percorsi di accoglienza strutturati e previsti dagli enti locali (gli SPRAR, ad esempio). Essi sono stati inseriti o ospitati in strutture per così dire informali (in genere alberghi, case di accoglienza, abitazioni) e gestiti da associazioni o enti che poco hanno a che fare – e poco mostrano di sapere – sulle delicate questioni legali e sociali riguardanti i richiedenti asilo. Ciò ha prodotto da un lato un sospetto interesse economico da parte di chi queste strutture informali gestisce normalmente per alti usi e dall’altro un disastroso effetto negativo sui servizi che l’accoglienza dei richiedenti dovrebbe offrire. Una combinazione di fattori che ha portato isolamento e sconforto nei richiedenti asilo; confusione nella comprensione delle già di per sè poco chiare norme giuridiche; impacciati percorsi di consapevolezza da parte dei richiedenti dei caratteri socio-culturali e politici società italiana ospitante. A ciò si aggiunga la farraginosa macchina burocratica delle Commissioni Territoriali, la cui tempistica dei colloqui è assai lenta.

Con questi tratti si sta disegnando anche la cosiddetta “emergenza profughi dalla Libia”. Tralasciando la critica politico-epistemica, oramai acquisita, che mostra come l’emergenza diventi un paradigma di controllo e sovranità su eventi che emergenziali non sono o che comunque perdono il loro carattere di eccezionalità, si tratta ora molto più concretamente di mettere a scrutinio le pratiche quotidiane dell’accoglienza dei cittadini africani che l’anno scorso sono arrivati in Italia dopo il conflitto libico. Esse esemplificano, a mio parere, la logica di potere che sottostà alla gestione giuridico-sociale del rifugiato, tanto quanto gli iter burocratici o le tecniche poliziesche di selezione delle Commissioni Territoriali. In poche parole: nel caso dei “profughi dalla Libia” il sistema di accoglienza italiano è diventato parte di quel meccanismo di selezione dell’umanità avente diritti e dispositivo di assoggettamento. L’accoglienza dovrebbe essere in teoria lo spazio dialettico tra l’acquisizione di quelle competenze – linguistiche, giuridiche, sociali – necessarie all’asilante per entrare in percorsi inclusione da un lato, ed il patrimonio soggettivo, storico e socio-culturale che egli porta incorporato nella sua storia di richiedente, dall’altro. Nella pratica, invece, l’accoglienza risulta essere una condanna ex ante dell’istruttoria delle Commissioni che, in via purtroppo definitiva in molti casi, consacra in punta di diritto (!) la persona all’esclusione.

 

Terre di Siena

In questo panorama, Suvignano è un caso esemplare. Ma si potrebbero citare molti altri esempi come questo e non solo nelle terre di Siena ma anche in quelle fiorentine, aretine, grossetne e via discorrendo. Il Governatore toscano Rossi, quando tempo fa sfoggiava il sistema capillare dell’accoglienza toscana come un fiore all’occhiello elettorale non credeva, o forse non lasciava credere, che in realtà “l’accoglienza diffusa” se formalmente è una buona idea, nella pratica si poteva rilevare un disastro. E in effetti questo sembra accadere.

Le terre di Siena sono esemplari per un fattore non indifferente: il tessuto associativo pure molto fitto e attivo in tutta la provincia se ha risposto all’accoglienza positivamente (anche perché, di fatto, imposta dagli enti pubblici via Protezione Civile) ospitando chi più, chi meno, qualche manciata di “ragazzi”, parallelamente non ha provveduto ad una reale messa in pratica di quei diritti che pure nelle convenzioni sono ben delineati e neppure ha colto l’occasione dell’arrivo degli “ospiti” per dibattere pubblicamente sulle dinamiche dell’integrazione a Siena. Chi chiedesse ad un abitante di Monteroni d’Arbia o di Murlo – i comuni limitrofi a Suvignano – dei richiedenti asilo ospitati nella struttura si troverebbe di fronte un’espressione interrogativa, distratta, o al massimo (per quelli più informati) piccata, in quanto «quelli lì mangiano e abitano a spese dello stato quando noi non ci s’ha le case popolari».

La maggior parte delle organizzazioni e strutture che stanno ospitanto i richiedenti asilo in Provincia di Siena non hanno predisposto adeguati programmi di insegnamento dell’italiano utilizzando volenterosi volontari (gratis) anziché insegnanti specializzati che pure da queste parti abbondano disoccupati. L’assistenza legale, l’informazione riguardo i diritti internazionali e nazionali di asilo politico è, nei casi da me osservati praticamente assente. Cito il caso di una coppia di nigeriani ospitati a Chianciano che solo poche settimane fa, dopo dieci mesi dall’arrivo, hanno ricevuto l’opuscolo informativo multilingue sulla protezione internazionale. Le strutture di accoglienza, poi, sono molto lontane dai centri urbani e scarsamente servite di mezzi pubblici di trasporto: ciò impedisce di fatto un livello minimo di socializzazione. Infine, per quanto attiene un lavoro culturale, la raccolta delle storie di vita dei richiedenti – momento fondamentale del percorso di accoglienza – è stata sottovalutata e/o considerata un’attività secondaria: ciò che il richiedente ha da dire è «se ha paura o no di tornarsene a casa e perché» e questo viene considerato come qualcosa che può essere anche raccolto da un qualsiasi operatore sociale, che magari si è in precedenza occupato solo di disabili, di anziani o di marce della pace. La complessità dell’incontro con il richiedente, della raccolta della sua storia, dell’inquadramento politico del suo paese e, infine, dei differenti codici transculturali di espressione del sè, tutto questo è superfluo, scarto, chiacchiericcio. Se non addirittura rischioso, perché forse permetterebbe di oltrepassare il livello dell’utenza – nel quale di fatto il richiedente è inserito – a quello della persona. Per questo, temo, non viene fatto.

Suvignano, nelle terre di Siena, vince il punteggio massimo in tutte le criticità appena elencate. Nelle belle colline etrusche, il casale dove stanno ormai da maggio 2011 i “ragazzi” (espressione usata, va detto ora, da operatori, politici, poliziotti) cade letteralmente a pezzi. Non solo i pavimenti sono traballanti e pericolanti e gli infissi sfarinati dagli agenti atmosferici; anche il mobilio, gli utensili da cucina, i minimi elettrodomestici necessari, sono di terza o quarta mano. Gli ospiti della “struttura” hanno a disposizione poche decine di euro al mese per le loro necessità, che si esauriscono nel giro di qualche telefonata a casa. Nel corso degli undici mesi trascorsi dal loro arrivo pochissime sono state le occasioni di socialità e praticamente inesistenti le attività di preparazione alle Commissioni. Per non parlare poi del lavoro: secondo le norme, passati sei mesi dalla data del primo permesso di soggiorno, i richiedenti possono lavorare. A nessuno di loro è stata concessa la possibilità di sentirsi valorizzati come meccanici, allevatori, coltivatori, giardinieri, mestieri del loro recente passato che avrebbero potuto diventare qualifiche del loro presente in terra di Siena.

Risulta difficile non esprimere interrogativi circa la gestione economica della struttura e perplessità sulla scelta geografica di un luogo così lontano – senza dubbio invidiabile per un turista o uno studente fricchettone, ma claustrofobico per altri. I “ragazzi” di Suvignano hanno visto per la prima volta nella loro vita la neve lo scorso gennaio, poi per fortuna è ritornato il sole e hanno ripreso la loro unica attività quotidiana: fumare al sole nel terrazzino della porta di ingresso, osservando il deserto di fronte a loro, con «tanti pensieri, tanti», come dicono spesso. In attesa di una Commissione che, incomprensibilmente lenta, dovrebbe decidere della loro vita.

Ma fuori da ogni sconforto occorre rilevare una sottile, quanto vigorosa, capacità di azione che a tratti libera dai tentativi di condanne e istruttorie imposte. I “ragazzi” stanno conoscendo altri “ragazzi” di altre località senesi; con essi si relazionano e scambiano idee; creano reti; si formano opinioni; stabiliscono le basi per comunità informali. Tutto fuori dall’accoglienza sbandierata dagli enti locali e dalle associazioni di solidarietà: autonomamente da questi, i “ragazzi” si stanno dimostrano persone. Strategie, diranno alcuni, forme di resistenza, mi permetto di suggerire… Di certo dimostrazioni pratiche del fatto che le terre di Siena non hanno bisogno delle istituzioni o degli istituìti per diventare luoghi di possibilità sociali e culturali alternative. Basta autorganizzarsi. Sempre che non intervenga un giudice a dire che non si aveva sufficientemente paura per rimanere in Italia.

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