Arrivederci Paolo Fabbri

Stefano Jacoviello ricorda la figura intellettuale di Paolo Fabbri scomparso il 2 giugno.

Foto di Roberto Testi

“Siamo uomini o caporali?”

Anche di fronte al verdetto tremendo di una malattia implacabile che avrebbe fiaccato senza pietà persino il più inguaribile ottimista, Paolo Fabbri era in grado di sfoderare la solita arguzia e citare Totò, col piacere di smontare e rimontarne la metafora con un’ironia talmente devastante da lasciare a terra senza parole l’amico che all’altro capo del telefono stava già cominciando a elaborare il lutto della sua perdita. Citazione, traduzione, codifica, erano solo alcuni dei processi di cui Fabbri continuava incessantemente a indagare i meccanismi retorici e grammaticali, con l’idea di una semiotica che prima di tutto è sfida intellettuale, contro tutto ciò che sembra imposto, scontato, o semplicemente preso per buono per pigrizia o convenienze di politica accademica.

Appena superati gli ottant’anni, aveva deciso di adottare felicemente per sé la qualifica di “vegliardo”, nel senso di qualcuno che nonostante l’avanzare degli anni resta sveglio a controllare attentamente quel che succede e, sfruttando il rispetto che si deve agli anziani, può finalmente sentirsi autorizzato ad esprimere pareri, soprattutto su ciò che non gli piace, senza che gli accusati lo costringano a ingaggiare l’ennesima discussione. Senza nemmeno però togliersi il gusto di invitarli a farlo.

«Iconico e icastico», come recita il titolo dell’ultima raccolta di suoi saggi sull’arte uscita recentemente per Mimesis (2020), Paolo Fabbri lo è stato anche di persona. Non solo per lo stile tagliente di ogni suo intervento, sempre chiaramente articolato per punti e scandito con il ritmo affascinante di una sonata di Scarlatti, ma anche per la capacità di incarnare la figura dell’intellettuale tipica dell’ambiente culturale in cui si era formato e che oggi l’accademia tende a rifiutare, quando non fa addirittura di tutto per dimenticarla. È quella dello studioso senza appartenenze disciplinari e birignao cattedratici, sempre intento a rivendicare il valore di un metodo che permette di affrontare ogni repertorio di oggetti per capire come “fanno senso”, garanzia della loro esistenza ancor prima di ogni determinazione materiale, storica, causale. Guidato da curiosità onnivora che spaziava dalla sintassi della rappresentazione nella pittura vascolare greca alla matematica di René Thom, Fabbri partiva sempre dal mettere in discussione i giudizi espressi da qualcuno sugli oggetti senza aver prima fatto i conti con le loro articolazioni interne. Così avrebbero voluto i principi di un’attitudine alla ricerca fiorita nella grande comunità del pensiero strutturale, dove dialogavano le teorie di Saussure, Jakobson, Hjelmslev, Benveniste, Barthes, Lévi-Strauss, Greimas, insieme agli sviluppi successivi dei tanti che con lui hanno dato a quel pensiero una seconda generazione.

“Il semiologo condotto”: era la figura professionale inventata a cui spesso amava richiamarsi, come il medico che, senza aridi specialismi e tristi tecnologie diagnostiche senza oggetto, considera il corpo sofferente come un sistema di segni da decifrare per supporre l’origine di una malattia e applicare una terapia che, se non riesce a curare il paziente, almeno pone l’obbligo di accompagnarlo con umanità nel percorso del dolore, fino al momento dell’addio.

Sempre pronto a esaltare la provvisorietà di ogni conclusione raggiunta con un metodo a vocazione scientifica, come vuole e deve avere la semiotica, programmaticamente Fabbri non ha mai scritto trattati. Le tracce del suo pensiero sono sparse in un gran numero di scritti spesso legati all’urgenza di progetti di ricerca, convegni, conferenze, attività editoriale e pubblicistica, o anche semplicemente indotti da riflessioni con cui amava contagiare tutti quelli con cui aveva il piacere di confrontarsi. Per questo Umberto Eco, in quella grande allegoria che è Il Nome della Rosa, aveva disegnato su di lui il personaggio di Paolo da Rimini, “Abbas Agraphicus”. E per lo stesso motivo, con Omar Calabrese, abbiamo sorriso insieme più volte accostandolo ad un altro grande riminese “acquisito”, Gemisto Pletone, faro dell’umanesimo rinascimentale che dedicava la maggior parte dei suoi sforzi alla conversazione con i suoi allievi, lasciando solo pochi frammenti scritti su cui non resta che arrovellarsi per ricostruirne a posteriori il pensiero.

Ma per Paolo Fabbri «il problema non è l’insegnamento, o l’apprendimento, in sé, ma il contesto specifico in cui accade, intellettuale o meno. Insegnare (o apprendere) che cosa? grazie a quali opportunità, strumenti, interessi generali, circostanze culturali?» Come riporta Gianfranco Marrone in una bellissima conversazione pubblicata su Doppiozero sul senso dell’essere maestri, per Fabbri «il vero maestro è quello che indica i libri da non leggere: non dà le dritte giuste sulle cose da consultare, ma sul tempo da non buttar via leggendo cose inutili. Per me Greimas aveva soprattutto questo ruolo. Io ogni tanto mi perdevo in testi di filosofia, di psicanalisi, di sociologia, e lui mi ripeteva sempre: ‘a che ci servono queste cose?’». Proprio con Marrone, Fabbri ha lavorato a raccogliere in diversi volumi antologici l’insieme di strumenti essenziali a far partire la ricerca semiotica, senza mai avere l’idea di fissare un canone. L’importante è acquisire un savoir faire con cui lanciarsi nella sfida, non un blasone bibliografico da mostrare per farsi identificare, disciplinato, in un settore scientifico.

Anche la sua Svolta semiotica (1998), nodo di importanza teorica fondamentale per lo sviluppo teorico della disciplina, che spostava definitivamente il fuoco della prospettiva analitica sulle strutture del discorso sottese ad ogni forma di espressione testuale, finiva per consentire al semiologo di riprendersi attivamente il ruolo di critico della cultura, momentaneamente reso vulnerabile da un pullulare di applicazioni semiotiche un po’ disorientate. Ma questo impegno intellettuale va esercitato con eleganza e nonchalance, senza bisogno di strombazzare atteggiamenti da trincea pur stando comodamente seduti in cattedra. Anche a rischio di apparire distaccati. Ogni sua implacabile tirata esordiva con «È simpatico», «È divertente».

Paolo Fabbri restava se stesso anche quando su Raitre lo vedevi camminare in giubbotto di pelle per i corridoi del Link di Bologna. Eppure non si è mai potuto dire che non fosse animato da una passione travolgente, in ogni cosa che faceva. In ogni situazione lo sentivi ripetere “Allora, mettiamoci al lavoro”.

La parola addio segna una distanza incolmabile, una rottura dolorosa. Porta il senso della perdita, della solitudine e dell’abbandono in cui sono piombati tutti coloro che hanno condiviso con lui una battuta, il tempo di un corso, il percorso di formazione, una parte del proprio cammino.

La semiotica e l’intero mondo della cultura perdono una delle intelligenze più vivaci e inarrestabili. Un pensiero sempre lucido, capace di segnare una direzione, rompere i confini fra i saperi, raccogliere le sfide, animare dibattiti, centri culturali, riviste, collane. Un sorriso dolce e instancabile. Un maestro, un amico.

Arrivederci

Foto di Roberto Testi

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