Armare il pugno contro l’austerità: intervista a Roberto Ciccarelli 2/2

Nell’ultima parte dell’intervista, Roberto Ciccarelli affronta il tema della valutazione degli studenti (le prove INVALSI) e fa un bilancio della vittoria al referendum bolognese del 26 maggio scorso sui finanziamenti pubblici alla scuola dell’infanzia primaria.

Exam hall with tables and chairs. Original public domain image from Flickr

Marco Ambra: Veniamo adesso alla valutazione. In questo ambito l’INVALSI promuove forme di standardizzazione delle prove volte a fornire dati statisticamente significativi, in barba alla molteplicità delle intelligenze e alla situazione emotivo-affettiva di chi affronta quelle prove. Su questo blog abbiamo discusso anche la prospettiva di chi ritiene la valutazione un aspetto fondamentale, se non necessario della scuola del futuro. Non ti nascondo che anch’io vedo in una qualche forma di valutazione uno strumento utile per leggere una parte della realtà scolastica, se non altro per poter metter costantemente in discussione i propri metodi di insegnamento. Credo anche che la scuola pubblica di un paese democratico debba dar vita a delle forme partecipate e critiche di autovalutazione. Cosa pensi della valutazione scolastica all’italiana? Perché non siamo in grado di organizzare un sistema di autovalutazione?

Roberto Ciccarelli: Ti confesso che non mi è chiaro questo concetto di “auto-valutazione”. Che cos’è: una chiamata alla responsabilità del docente e del collegio dei docenti? Una seduta di autocoscienza, con i presidi e gli ispettori dell’INVALSI, per riflettere sui moduli di insegnamenti? Un programma partecipato per definire se l’italiano deve comprendere Claudio Magris all’ultimo anno delle superiori, o se Judith Butler può essere l’oggetto di una scheda nel manuale di filosofia ad uso dei classici? Il valutare è un atto che esclude la responsabilità che non a caso è un concetto incarnato nella facoltà di giudizio. Nella valutazione, il giudizio è sempre comparativo rispetto ad una tabella di redditività, di efficacia performativa, ad uno schema preformato determinato da esperti. Si valuta in base ad un parametro esistente, stabilito magari anche su base sperimentale, empirica. Il giudizio è l’opposto: si esercita in base ad un’idea trascendentale, teoricamente infinita, senza modelli preformati che non sia proprio questa idea di trascendentale.

Ora, per me che lavoro sul pensiero dell’immanenza questo è chiaramente un problema perché bisognerebbe fare a meno del giudizio, come diceva Deleuze, in quanto il giudizio è l’esplicitazione del trascendentale in quanto tale, senza corpo, un puro esercizio di razionalità giudiziaria, proprio come quella che usano giudici e avvocati in un tribunale. Al di là di questi elementi per me determinanti nell’uso di concetti come valutazione o giudizio, è chiaro che il dispositivo dell’istruzione moderna, quella pubblico-statale di cui qui stiamo discutendo, auspica una parziale liberazione del giudizio basato sull’infinitezza della trasformazione del soggetto. Questa parzialità è contraddetta dalla burocrazia della scuola, dal fatto che i programmi vengono decisi dallo Stato e i docenti e gli studenti devono seguirli. Ieri la certificazione avveniva in base alle regole stabilite dall’alto, dai burocrati di stato.

Oggi, da quando la scuola si è trasformata in un’azienda che funziona come un’impresa postfordista o un assessorato alla cultura che organizza un festival, sfruttando lavoro precario e commesse contingentate, la certificazione viene fatta da esperti ai quali i vecchi burocrati si affidano. In entrambi i casi, è lo Stato che certifica l’oggettività di saperi e competenze rispetto al mercato. In entrambi i casi, il giudizio si trova sempre estraneo, spaesato ma mantiene una funzione per così dire biunivoca. Non esiste se non viene esercitato dal docente e dal discente, insieme. Non può che essere libero, costruirsi nel suo movimento, nell’atto del confronto e nella critica di una disciplina, o di una norma. Il giudizio è l’oggetto stesso dell’attività vitale del soggetto. È un esercizio interminabile di adeguazione della cosa al soggetto e non l’opposto: del soggetto alla cosa, ad un numero, ad un’idea di rendimento.

Al limite, ma qui entrerei in una discussione sull’immanenza, il giudizio per essere tale deve smettere di esprimere un giudizio, smettere cioè la veste cortigiana o tribunalizia della sentenza definitiva sulle cose e dedicarsi al suo movimento più immanente. Cioè all’intrattenimento che rappresenta il suo infinito esprimersi tanto nell’oggetto quanto nel soggetto, nella cosa e nella sua rappresentazione, tra una regola e un principio. L’obiettivo è sempre quello di innovare creando nuove norme. Ma tutta questa attività è sovversiva per la scuola, come per l’università. Non c’è tempo, bisogna fare i programmi, non perdere il tempo con il giudizio e con la perdita di giudizio.

Questa è l’anomalia che nasce in ogni convivenza, soprattutto quando si sta a scuola, si impara, si scopre l’erotismo implicito di questo movimento, un erotismo che non è solo sessuale, ma è un dare forma sensuale ad una passione, saperla indirizzarla e poi perdersi, ritrovandosi all’infinito. Quella in atto nelle istituzioni pubblico-statali della conoscenza è una reazione furibonda, un vero e proprio odio, contro questa eccedenza del giudizio su se stesso, contro l’aspirazione del soggetto a liberarsi da se stesso, cioè dall’innata corteccia statale-capitalistica in cui la sua vita è incapsulata. Per questo la valutazione è entrata nella semantica usata nella scuola, dai presidi che fanno i manager e dai ministri che sono ingegneri, rettori, avvocati del nulla spinto del neoliberismo applicato tanto alle banche quanto all’istruzione.

Valutare è anche un atteggiamento oggettivante e sessista: si valuta se questa donna mi assomiglia, mi conviene, mi piace. Il consumatore valuta una merce in base ad un prezzo. Valuto se conviene andare in vacanza o sposarmi. Si valuta se questo bambino è conforme alla regola stabilita dagli esperti. Insomma, la valutazione appartiene alla sfera economica o all’autorità, il giudizio e il farla finita con il giudizio, appartiene alla sfera dell’esperienza, dell’erotismo, della conoscenza, in una parola della vita.

Vorrei infine notare che dietro questa idea di valutazione, e quindi dell’Invalsi per la scuola o dell’Anvur per l’università e la ricerca, esiste forse l’ultimo ambito in cui lo Stato resiste. È lo Stato ad assumere i consulenti che formulano i quiz Invalsi, che pagano piuttosto bene i valutatori dell’Anvur per giudicare la “scientificità” di una ricerca. La valutazione è sempre un sapere di Stato, quel sapere che ormai lo Stato non riesce ad esercitare più sul capitale o sulla società.

M. A. : Per concludere, una battuta sul referendum bolognese del 26 maggio scorso. Se le pressioni che vengono dall’OCSE, dal ministero e da una parte della società italiana sulla necessità della valutazione dei risultati scolastici è funzionale all’incentivazione e al potenziamento dell’istruzione privata, cosa ci dice invece il risultato delle urne bolognesi?

R. C. : Quella bolognese è stata una bella battaglia, è stata vinta e mi auguro fortemente che la sinistra e i movimenti, la società civile, tutti i laici, e le famiglie responsabili, riescano a creare cento, mille referendum come questi in tutte le città italiane.

Mi auguro che un giorno si trovi anche uno strumento per rendere vincolante quello che realmente pensa la cittadinanza italiana sulla scuola. Così non è stato a Bologna, purtroppo, perché il referendum era solo consultivo e il sindaco Merola e la sua maggioranza troveranno il modo per farlo dimenticare. È stato però un momento altissimo della politica della conoscenza in Italia: i trecento spartani con le loro fionde hanno abbattuto l’esercito di Serse composto da confindustria, la chiesa, il Pd, i commercianti, come ha detto Wu Ming. Si direbbe un’impresa epica, anche perché ha rivelato il grado di compromissione e organicità del Pd e del centro-sinistra all’ideologia neo-liberale che va a braccetto con la scuola confessionale e l’idea dell’impresa capitalistica che le scuole private rappresentano.

La scuola paritaria è un’aberrazione del capitalismo familistico italiano, della compromissione che lo Stato repubblicano intrattiene con la Chiesa cattolica da decenni. Uno Stato non deve dare soldi alla Chiesa, deve requisire i beni di pubblica utilità e tassarne le rendite, senza discriminazioni ma con assoluta determinazione. Non c’è mediazione possibile con i preti e con la loro religione opportunistica in nome di un Cristo che li disprezzerebbe. Rompere tutti i patti che legano questa chiesa al futuro culturale, spirituale, emotivo e politico delle generazioni che verranno. Un’impresa disperata si direbbe in Italia, d’accordo, lo sappiamo.

Ma il referendum bolognese ci ha fatto capire che il Pd è penetrabile, lo si può sconfiggere in base a questi presupposti e che, nonostante il boicottaggio organizzato dai suoi servi, la cittadinanza è sensibile all’idea della redistribuzione delle risorse sequestrate dai suoi accordi con la chiesa, con il capitale, con le burocrazie che amministra. Bisogna attaccare il centrosinistra, per raggiungere questo obiettivo. Non esistono ancora le forze, sono vent’anni che riscontriamo anzi la debolezza estrema di ipotesi alternative, del resto sono state affondate dal fallimento della “sinistra” in Italia. E tuttavia abbiamo intuito il sentiero da percorrere. È già qualcosa.

Secondo me è questo uno dei problemi politici che fondano l’austerità oggi. Non sono del tutto convinto che il neoliberismo abbia la capacità di incentivare più di altri l’istruzione privata, e non credo che nemmeno l’Ocse si straccerebbe le vesti per un obiettivo simile. Viceversa, si sono giocati l’anima affinché lo Stato, e quindi la scuola, fossero gestiti come un’impresa privata, secondo le regole del new public management. Questo però è un discorso completamente diverso da quello sulla “privatizzazione” che è troppo dispendiosa, soprattutto in tempi come questi. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno è di armare il pugno che spacchi il fronte politico, e culturale, che regge l’austerità. Dobbiamo accumulare le nostre forze, questa è la sfida più difficile oggi.

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