L’archivio partecipativo: cinema e interattività

Intervista a Natalie Bookchin.

Natalie Bookchin è un’artista che lavora in una zona di confine, non ancora propriamente identificabile, tra l’arte visiva, la video arte e il cinema. A partire dal 2007 Bookchin comincia a lavorare sui “reperti” di questa inedita forma di partecipazione e condivisione, e in particolare sui video di YouTube prodotti dagli utenti. Prima con Mass Ornament (2009), poi con Testament (2009/2016) e infine con e Now he’s out in public and everyone can see (2012). Bookchin riconosce nel grande archivio di YouTube un luogo attraverso cui leggere la società, e in particolar modo la società americana. Nei video degli utenti, infatti, in quelle forme di estrema esposizione ed esternalizzazione del sé, si concentra la modalità principale attraverso cui si dà un processo di individuazione che è contemporaneamente singolo e collettivo, ovvero si configura un’identità che è allo stesso tempo assolutamente pubblica e assolutamente privata.

Bookchin accetta l’onere, come artista-utente, di ricostruire e far emergere un senso da alcuni di quei frammenti di sé-esposto in formato audiovisivo che popolano la rete. E nel fare ciò, adotta un montaggio che è completamente integrato nella lingua per immagini che in quanto utenti della rete comunemente parliamo; un montaggio che, come in una partitura musicale, permette di riconoscere dei temi fissi (la povertà, la malattia, la razza, il genere, ecc.), che “vengono montati” in una sorta di sinergia verticale, attraverso cui risuonano quegli armonici che non sono contenuti esplicitamente nella partitura stessa. Nella singolarità delle esperienze raccolte attraverso parole chiave (tipica regola della partecipazione online) risuona qualcosa che va al di là dei singoli e che disegna un sentire che accomuna non soltanto le persone intervistate ma tutti noi, utenti-spettatori. Un “noi” che ha il compito, proprio come fa Bookchin, di ridisegnare e appropriarsi ogni volta di questo senso comune, che, nella forma più estrema di condivisione, risulta frammentato e quindi bisognoso di un gesto creativo capace di ricostruirlo ed offrilo nuovamente alla collettività.

Angela Maiello: Nei tuoi lavori più recenti hai lavorato sulle immagini del web, e in particolare su alcuni video YouTube. Cosa ti ha portato a questo tipo di lavoro? Perché hai deciso di “mettere le mani” su un archivio così vasto, il cui statuto resta ancora molto incerto? Quali sfide e quali criticità presentavano queste immagini?

Natalie Bookchin: Ho cominciato a occuparmi di questi video fin dal 2007. Nel 2008 ho cominciato a lavorare sui video-autoritratti. Volevo trovare un modo per raccontare come le emozioni e le prestazioni del sé fluiscono attraverso la rete raccogliendo una forza, come se fossero delle formazioni semi-amorfe composte da sentimenti e attitudini collettive. In altre parole volevo rendere tattile la decentralizzazione dell’identità, prodotta da numerosi individui, che prende forma come un’enorme massa psichica che attraversa spazio e tempo. Volevo anche mostrare i modi in cui le nuove forme di tecnologie e di comunicazione creano delle linee sempre più indistinte e confuse tra il singolo e il collettivo.

A. M.: Mass Ornament, il tuo primo lavoro, si concentra sul tema del corpo: che idea ti sei fatta del rapporto tra dispositivi e corpi, dell’impulso a un’esternalizzazione del sé così estrema?

N. B.: Da un lato il lavoro prende in considerazione il modo in cui le persone usano il proprio corpo per eliminare lo spazio in cui sono confinate o costrette dai dispositivi. Teniamo presente che in quel periodo, siamo nel 2008-2009, molte persone ancora registravano se stesse attraverso delle videocamere incorporate nei computer. Nel mio lavoro guardo ai movimenti attraverso cui i corpi sembrano tracciare dei confini nello spazio domestico – se non, addirittura, spostare tali confini – i muri, il pavimento, gli archi delle porte che trasformano camere da letto, bagni e cucine in palcoscenici pubblici. Il video coglie l’eco di una cornice architettonica che delimita il corpo.

A. M.: In Testament, sembra che tu lavori sulla risignificazione delle parole. Qual è il rapporto tra parola e immagine nell’era dei tag e degli algoritmi?

N. B.: In quel lavoro di editing, cerco di mantenere l’integrità dei documenti che uso. Più precisamente cerco di restituire verità a ciò che ascolto e all’essenza di ciò che viene comunicato, intervenendo sulle parole e le frasi nel tentativo di rivelare non soltanto il testo ma anche il sotto-testo. Il tag, inserito dal singolo utente, è un’aspirazione o una descrizione, o magari entrambi, e di solito ha come obiettivo quello di attrarre un pubblico particolare. Parlavo l’altro giorno con una persona che sta facendo una ricerca sui video twerking presenti su YouTube e mi ha detto che molti video di ragazze bianche contengono il tag “black girls”, proprio con la speranza di raggiungere maggiori visualizzazioni. I tag vengono usati per rendere visibile una pagina video su YouTube. Mi pare che prima YouTube permettesse di selezionare un tag per cercare video simili. Questo accadeva nel 2012. Da quando Google è diventato più aggressivo nel controllare e monetizzare i contenuti, hanno eliminato questa funzione e i tag vengono nascosti nel codice. Puoi ancora trovare dei tag, ma sono necessari più passaggi e più ricerca.

A. M.: Per Long Story Short hai creato un vero e proprio archivio, perché?

N. B.: La risposta più semplice è che non riuscivo a trovare online quello che stavo cercando. Volevo fare un film da un archivio di testimonianze di persone che, vivendo negli Stati Uniti in condizioni fortemente precarie e svantaggiate, riflettessero sulla propria esperienza di precarietà – come si sentivano, cosa ritenevano mancasse o fosse sbagliato nei racconti dei media dominanti, e cosa ritenevano che le persone al di fuori dalla loro condizione (la classe media, i ricchi e i politici) dovessero sapere. Volevo ascoltare le persone che sono solitamente invisibili o inascoltati dalla società e permettere loro di definire la propria situazione, piuttosto che chiedere ad altri di farlo, come molto spesso accade.

[…]

A. M.: Come descriveresti il lavoro di editing fatto su queste immagini? Come definiresti la tua pratica di montaggio?

Quando ho lavorato con immagini d’archivio, ho utilizzato YouTube come un enorme deposito di materiale grezzo. Per prima cosa ho collezionato le immagini da YouTube, grazie a un lavoro di ricerca e indagine del materiale a partire da un tema particolare. Diciamo che ho lasciato che il contenuto e la forma dei video che ho trovato mi guidassero. Dopo questa prima fase ho cominciato ad affinare la ricerca, dal momento che ero arrivata a elaborare la forma del progetto. Questo lavoro implica in parte l’organizzazione del materiale in base a similarità, variazioni e differenze, prestando attenzione al tono e ai gesti, a come le persone si muovono o si posizionano di fronte alla telecamera e la trattano, e alla mise-en-scene. Ho lavorato sia sulla simultaneità che sulla sequenzialità in modo che parole, frasi o movimenti simili apparissero allo stesso momento o che frammenti multipli si susseguissero in una sequenza fino a produrre un movimento o un pensiero completo. L’unico modo per rendere la simultaneità visibile sullo schermo è quello di spazializzare il montaggio – di mostrare sullo schermo più fotogrammi nello stesso momento. Nel caso di Now he’s out in Public and Everyone Can See e per alcune installazioni di Testament, ho fatto sì che il montaggio si estendesse attraverso uno spazio fisico – una stanza ad esempio – in cui gli spettatori attraverso il proprio movimento ambulatorio giocassero un ruolo importante nel produrre o completare il montaggio.

Lev Manovich tratta del montaggio spaziale nel suo saggio del 1996, Che cos’è il cinema digitale? In quel saggio parla di uno dei miei primi lavori, Databank of the Everyday (di cui era stato operatore video) come degli albori del montaggio spaziale digitale. Manovich sostiene che questa forma di montaggio è alternativa a quella cinematografica: mentre il montaggio cinematografico produce una registrazione della percezione, quello spaziale è una registrazione della memoria – registra ciò che viene prima e ciò che viene dopo. Ciò tuttavia non è precisamente quello che accade nei miei lavori, dove il tempo viene spazializzato nel presente, lavorando in modo concomitante con la sequenza e la simultaneità.

Nel primo caso, un movimento completo, un pensiero o un’idea vengono realizzati attraverso molteplici gesti incompleti o parole pronunciate da persone diverse in spazi differenti, ognuno dei quali è visibile sullo schermo nello stesso momento. Un video su uno schermo dipende da un altro perché si produca un pensiero o un movimento completo. Concettualmente è questa la chiave: l’assoluta interdipendenza dei singoli sé, i quali richiedono l’un l’altro per poter presentare un gesto o un’idea. Le persone restano isolate in celle separate, proprio come attraverso i social media veniamo atomizzati e sollecitati all’autopromozione e a gareggiare per ottenere attenzione e visibilità. Ciò rispecchia la nostra vita nell’era del neoliberismo, in cui siamo chiamati a provvedere da soli a noi stessi, a essere pienamente responsabili per noi stessi senza dipendere dagli altri. Ma nel mio montaggio, nel riprodurre l’immagine di un soggetto isolato nella propria cornice, rivelo anche la fondamentale interdipendenza e connessione reciproca, per cui uno non può esistere al di fuori dell’altro.

In Long Story Short creo dei montaggi in cui una o più persone restano sullo schermo, mentre altri parlano, come testimoni silenziosi, ascoltando insieme a noi. Gli spettatori sanno che ciò non è realmente possibile dal momento che si trovavano in stanze separate, e ciò implica una verità simbolica piuttosto che una verità letterale. Nel creare questa realtà immaginaria, creo una tensione tra la descrizione dell’isolamento – l’isolamento della povertà, della violenza del neoliberalismo – e la possibilità di visualizzare un corpo collettivo, che nasce dalla sovrapposizione delle soggettività e da alleanze potenziali. Ciò offre una risposta all’ideologia dominante del neoliberalismo, secondo cui, come notoriamente ha sostenuto Margaret Thatcher, «La società non esiste: esistono individui, uomini, donne e famiglie».

A. M.: Il tuo lavoro ha una forte valenza etica. Cos’è per te un’etica delle immagini?

N. B.: Il mio lavoro descrive una parte di quel prezzo emotivo che dobbiamo pagare a causa della violenza dal nostro regime politico ed economico. Io cerco di aprire degli spazi, per pensare, sentire, considerare ciò che davvero è in gioco nelle condizioni in cui viviamo, in particolare in relazione all’identità, alla persona e alla società.

L’articolo completo è contenuto nell’ebook Dentro/Fuori. Il lavoro dell’immaginazione e le forme del montaggio. L’ebook, disponibile in diversi formati (epub, mobi e pdf), può essere scaricato gratuitamente  o attraverso una donazione alla campagna di supporto #sostienilavoroculturale.

Il 12 novembre alle ore 17, l’ebook sarà presentato presso la Nomas Foundation di Roma (Via Somalia 33). Qui l’evento su Facebook. 

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