Alla ricerca della minorità nel progetto urbanistico ed architettonico.
Pubblichiamo l’introduzione del nuovo volume di Camillo Boano, “Progetto Minore. Alla ricerca della minorità nel progetto urbanistico ed architettonico”. LetteraVentidue, 2020.
Queste pagine raccolgono pensieri sparsi non perché disordinati nello spazio e nel tempo, ma perché – come dice Matteo Meschiari1 – vogliono visualizzare le dinamiche di un pensiero complesso e mediare tra visione e speculazione, tra paesaggio e pensiero, tra spazio ed espressione e tra luogo e parola. Pensieri che vedono un modo di accadere del progetto in una “vischiosità variabile”. Pensieri con al centro una domanda: esiste un progetto minore? E se esiste, come è fatto?
Interrogandosi su una possibile esistenza di un progetto minore nel sapere e nella pratica urbanistica ed architettonica questo testo pone al centro l’importanza della “minorità” come possibile statuto del progetto. Progetto minore trasla riflessioni fatte intorno alle pratiche ed al pensiero progettuale, richiamando riferimenti e tradizioni che vanno dalla filosofia agli studi culturali, dall’antropologia alla tradizione femminista, offrendo un doppio livello di indagine. Da un lato sviluppo una riflessione sullo statuto di crisi del progetto e delle sue discipline nella relazione con la teoria. Dall’altro indago una etica affermativa richiamando la necessita della critica e situandola nell’orizzonte più ampio di una necessaria “decolonizzazione” dell’urbanistica e dell’architettura capace di riappropriarsi di un pensé autrement del territorio nelle pieghe della sua materialità, discorsi e pratiche.
Il progetto minore si sostanzia non come una rinuncia, una ritirata in altre discipline, modelli, pratiche, o in un doloroso nichilismo di impotenza, ma al contrario, come una tonalità di potenza, una etica che ricodifica, rielabora e sovverte le categorie chiave del progetto (interno/esterno, pubblico/privato, funzione/uso, ignoranza/conoscenza, presente/futuro, reale/possibile) rendendole interminate, senza svuotarle o appiattirle ma creando uno scisma, una cesura nelle ecologie delle pratiche che costituiscono l’urbano in modo da liberarne le potenzialità, alternarne le valenze, ricentrare le reazioni con la diversità, con l’indistinto, con il complesso, con il meticcio. Esplorare le divergenze e aprire alle dissonanze.
Progetto minore intende aprire una riflessione mancante e, a mio avviso, necessaria: suggerire una postura decoloniale del progetto urbanistico mettendone in gioco i limiti, le violenze epistemiche e i pensieri spaziali; facendo emergere la minorità come una forma di solidarietà e nel contempo resistenza al progetto moderno, funzionalista determinista e neo-tecno-ecologico; affermando nuovi abitare, nuove grammatiche spaziali riflettendo il progetto tra le parole di autori come Escobar, Mignolo, Lugones e i loro pluriversi di alterità spaziali che hanno sfidato il silenzio imposto dalla matrice modernità/colonialità2.
Progetto minore non è una riflessione finita, conclusa, completa, né tanto meno precisa. Si colloca in quelle che Catherine Walsh3 chiama griete, fessure, rotture, ferite, margini, soglie, non intesi come un semplice elogio di una posizione, ma come spazio della crisi e nel contempo come luogo dove “passa la luce”. Incerto, sfuggevole perché fatto di attraversamenti in discipline diverse: la filosofia e l’architettura. Uno spazio incerto non solo perché attraversato da conflitti, tensioni, dialoghi irrisolti e incomprensioni, ma anche perché critico, resistente alla globalità di un pensiero universale sicuro, dominante, e pertanto offerto a ulteriori elaborazioni. Situato insomma in un campo aperto sul quale l’architettura e l’urbanistica si devono confrontare ibridandosi, scontrandosi, arricchendosi con saperi diversi. Un luogo sollecitato “da altri saperi attraverso diffrazioni”4.
Questa diffrazione, questo stare ai margini, è decentralità certamente ma non resa a saperi, metodi, strumenti propri. È un linguaggio altro che rinuncia all’arroganza sterile per abbracciare una minorità fertile. Minore è un aggettivo che qualifica un’azione, una tonalità. Ma, come ricorda Ronchi, maggiore e minore sono dei comparativi, tra loro «la differenza è di grado nell’orizzonte di un genere comune» […] Il minore è meno relativamente a quello stesso di cui il maggiore è di più»5. Il minore, quando riflesso dalla filosofia e dalla teoria critica, viene evidenziato non come una minoranza, una riduzione, quanto una differenza di statuto, di riconoscimento, di misura, di posizione: una intensità.
Ed è proprio questa intensità che vuole caratterizzare il progetto. Far riemergere la minorità come statuto ha quindi l’obiettivo – scavando in alcune specifiche letterature – di focalizzarsi sulla immanenza e di riportare la discussione non su una possibile rilevanza costruita sulle tematiche della dominazione, diffusione, mercificazione e comunicazione proprie dell’architettura e dell’urbanistica, quanto su una diversa pratica di pensiero e di azione «avanzando una pretesa speculativa che agli occhi della maggioranza non poteva che apparire “ingenua”»6.
Progetto minore, nella sua ingenuità, non è un progetto inferiore, incapace di agire o di stare nella crisi e di farsi concreto; ma neanche marginale, esterno, depotenziato. Semplicemente è un’intensità di progetto differente. Un progetto che non si fa ontologia di un potere disciplinare, geografico, metodologico ma destituente, cioè capace di offrire e far emergere una “potenza di non”7. Resistente ed al contempo immanente. Resistente alla richiesta di abbandonare il pensiero, critico teorico per gettarsi in un fare concreto, ma anche immanente nel restituire una flessione propositiva e non solamente distruttiva. Di farsi proposta, visione ed “immaginazione non proiettante” 8 direbbe Glissant.
Questo essere minoritario non si configura come una rassegnazione né una gesture pacificatoria ma richiede un divenire sensibile «il cui compito non è quello di restituire l’intero di un pensiero, sanando le ferite e dando l’illusione di una completezza che non esiste, quanto piuttosto quello di guardare nella direzione della presunta contraddizione formale»9.
L’allargarsi del fronte culturale nel campo aperto delle crisi globali e nella certezza quasi ineluttabile del fatto che il progetto e la sua produzione non sono da intendersi come categorie parallele e indipendenti ma imbrigliate nelle maglie del politico, nella complessità dell’incertezza e della violenza della realtà sociale, fanno sì che progetto minore non sia un rifugiarsi nella teoria ma al contrario, incoraggiare il progetto a tenersi caro – e quindi rimettere al centro – il pensiero critico del margine e dal margine; e anche un situarsi fuori dal mondo conosciuto dell’architettura e dell’urbanistica per riprovare e ritrovare un orizzonte di senso del progetto stesso.
Già lo avevano detto Jane Rendell, Barbara Penner e Iain Borden, introducendo Gender Space Architecture10 che l’architettura e l’urbanistica devono essere compresi in context ovvero nel contesto della loro produzione sociale, economica, politica e culturale ma anche quello del proprio consumo della rappresentazione, dell’interpretazione pertanto alla luce di quelle crisi ambientali, sanitarie, razziali e di disuguaglianza che incidono sul fare progettuale. Richiamare la centralità del progetto è riformulare la sua contemporaneità. Non è una banale chiamata alle armi, una richiesta di azione e di uno sporcarsi le mani in una nuova funzionale operatività.
Al contrario è la proposta “destituente”11 di un nuovo pensiero minore per pensare il progetto ed il suo farsi nelle crisi, che si sostanzia come inversione del proprio significato. Una sorta di critical architetture nella versione di Hays12 “resistente all’operazione conciliante ed auto-confermante di una cultura dominante e tuttavia irriducibile a una struttura puramente formale distaccata dalle contingenze del proprio luogo e del suo tempo”13.
Al contempo, perché nei margini, aperta come nella versione che ne dà Jane Rendell nella piega tra pratica critica del progetto di architettura e critica dell’architettura (architectural criticim) e nella tensione interdisciplinare e plurale considerando diverse modalità del farsi della critica. Una critical practices14, pratiche che si fanno critiche permettendo di rinegoziare continuamente la relazione tra critica e progetto. Un ripiegarsi in una critica affermativa ed immanente fatta non di grandi narrazioni e potenti immaginari, ma di frammenti, accenni, makeshift direbbe Simone15. Quindi una critica più vicina a quella che Meschiari chiama “epistemologia delle intermittenze”16 fatta da addensamenti sporadici, snodi luminosi, non immagini nè pratiche precise, non soluzioni, né tantomeno forme.
Un critica non generica, che rinuncia a consegnare senso, ma indeterminata e al tempo stesso opaca, come direbbe Glissant17. Tre sono le declinazioni che ho intravisto nel progetto alla ricerca della minorità: inoperativa, istituente e decoloniale. Queste tre intensità servono per pensare al progetto minore e di fatto costituiscono l’articolazione di questo breve testo. Ognuna di esse, vuole essere una “immagine ombra”, una illuminazione politica, per dirlo ancora con Meschiari, in quanto operatrice di critica e di resistenza rispetto ad un orizzonte totalitario, maggiore, dominante. Fedele all’incompletezza e rispettoso dello spazio di queste pagine, a queste tre declinazioni – accompagnate dalle diverse traiettorie della filosofia della teoria critica – ho anteposto una riflessione fondante per il ragionamento, che passa inevitabilmente attraverso Gilles Deleuze, alla piega che ne dà Elizabeth Grosz, e dalla possibile attualità di una minor theory che Cindy Katz suggerisce a partire dalla geografia.
Note
- Meschiari Matteo, Neogeografia. Per un Nuovo Immaginario Terrestre, Milieu
Edizioni, Milano, 2019. - Mignolo Walter, The dark Side of Western Modernity. Global futures, decolonial
options, Duke University Press, Durham, 2011. - Walsh Catherine, Pedagogias decoloniales. Practicas insurgentes de resistir, (re)
existir, y (re)vivir, Editorial Universitaria Abya-Yala, Quito, 2019. - Amirante Roberta, Introduzione. Insegnare Teorie della ricerca Architettonica
contemporanea, in Alessandra Capuano con Benedetta di Donato, Alessandro Lanzetta (a cura di), Cinque temi del moderno contemporaneo. Memoria, Natura, Energia, Comunicazione, Catastrofe, Quodlibet, Macerata, 2020, p. 12. - Ronchi Rocco, Il Canone Minore. Verso una Filosofia della Natura, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 11.
- Ibidem
- Agamben Giorgio, L’Uso dei Corpi, Neri Pozza, Verona, p. 349.
- Glissant Édouard, Poetica della Relazione. Poetica III, Quodlibet, Macerata, 2019, p. 53.
- Ronchi Rocco, Il Canone Minore, op.cit., pp. 13-14.
- Rendell Jane, Penner Barbara, Borden Iain, Gender Space Architecture. An interdisciplinary introduction, Routledge, London and New York, 2000.
- Agamben Giorgio, L’Uso dei Corpi, Neri Pozza, Verona, 2014; Agamben Giorgio, What is a Destituent Power?, in “Environment and Planning D: Society and Space”, 32.1, 2014, pp. 65-74.
- Hays K. Michael, Critical Architecture: Between Culture and Form, in “Perspecta”, 21, 1984, pp. 14-29.
- Ivi, p. 15.
- Rendell Jane, Art and Architecture: A Place Between, IB Tauris, New York, 2006.
- Simone Abdoumaliq, City Life from Jakarta to Dakar, Routledge, London and New York, 2010.
- Meschiari Matteo, Disabitare. Antropologie dello spazio domestico, Meltemi, Milano, p. 25.
- Glissant Édouard, Poetics of Relation. Translated by Betsy Wing and Ann Arbor, Michigan University Press, Michigan, 2006.