Architettura della crisi: ripensare le città per il futuro

Cambia il clima, perché non cambiano le città? 

La gestione dello spazio urbano e del suolo viene spesso tralasciata nei dibattiti contemporanei sul cambiamento climatico; tuttavia, se si pensa che si dovrà garantire l’accesso alimentare e idrico a milioni di persone, incluse rifugiate e in fuga da cataclismi climatici e guerre, ci si rende conto di come sia un problema centrale che va affrontato il prima possibile.

Non solo, si tenga presente la quantità di problematiche che nascono già ora dalla gestione di milioni di persone per quanto riguarda salute, trasporti, istruzione e benessere psicofisico. È chiaro che la partita più importante nella gestione della crisi si giocherà nelle città, non soltanto perché ad oggi le grandi metropoli producono circa il 75% delle emissioni globali di gas climalteranti, ma perché si calcola che nel 2050 due terzi della popolazione globale saranno inurbati.

Il suolo come problematica

Paolo Pileri, in un breve testo raccolto nel libro Coltiviamo il nostro giardino, si sofferma sulla necessità per lo stile di vita urbano di cambiare in fretta. Uno dei concetti chiave su cui è necessario riflettere è proprio quello di suolo: l’urbanista del Capitalocene non può più permettersi di considerarlo come una superficie neutra e priva di vitalità su cui costruire, bensì deve pensarla come uno spessore da cui dipende la vita dell’umanità, in grado di separarla da gas climalteranti ben più pericolosi del diossido di carbonio; un vero e proprio ecosistema non rinnovabile e fondamentale nel garantire alimenti, acqua e biodiversità.

Tralasciando le considerazioni più note sul consumo di suolo e sulla cementificazione in Italia, i cui dati sono facilmente reperibili, conviene approfondire questa idea di suolo “non neutro”. Questo significa considerare il suolo non come superficie a completa disposizione dell’umanità, perché la possibilità di ripensare gli ambienti urbani in vista di cosa ci aspetta deve partire letteralmente dalla condivisione delle superfici; in altre parole, è necessario cedere spazio.

Giardino di permacultura
Un giardino realizzato con la tecnica della permacultura.

Ciò non vuol dire perderlo, né non averne accesso, ma significa liberare dal controllo esclusivo degli umani porzioni di suolo per permettere lo sviluppo di soggettività in grado di progettare ambienti in sinergia con tutti gli abitanti, umani e non. La permacultura, una pratica locale che parte dal basso, è un esempio calzante di questo concetto: per un certo periodo di tempo ho collaborato con un centro sociale torinese che possiede un orto coltivato con questa tecnica e aperto al quartiere.

Una delle filosofie che mi ha colpito in questo tipo di coltivazione è stata l’idea che meno l’essere umano interviene meglio è per l’orto. Certamente è stato necessario (e lo è tutt’ora) procedere nell’eliminazione di specie parassite, nella semina di alcune piante non in grado di riprodursi efficacemente da sole nell’ambiente cittadino e nella raccolta di frutta e verdura. Tuttavia si cede spazio all’autorganizzazione dei vegetali, dopo aver dato loro una spinta iniziale.

Per quanto la filosofia della permacultura prevedesse, inizialmente, una semina lasciata al caso, con diverse specie di sementi lasciate germogliare senza un ordine preciso, si può scegliere con cura quali piante far crescere in sinergia, per far sì che colture consociate, cioè in grado di scacciare le une i parassiti delle altre, prosperino in simbiosi. Libertà di organizzazione totale o parziale alle piante dunque, le quali, finito il ciclo produttivo, non vengono estirpate completamente ma tagliate senza toccare le radici, in modo tale che possano ricrescere l’anno seguente.

Inoltre una parte dei prodotti non viene raccolta, affinché le piante si possano riprodurre senza necessità di semina da parte degli umani. Questo è un esempio concreto di come il “lasciar spazio” possa favorire la biodiversità urbana e allo stesso tempo provvedere a parte del fabbisogno alimentare senza dover utilizzare pesticidi chimici o coltivazioni intensive e industriali.

Orti e giardini al popolo. Una strategia del genere tuttavia sarebbe potuta valere qualche decennio fa. Oggi siamo certi che siccità, trombe d’aria e alluvioni sempre più frequenti renderanno quasi impossibile che questo tipo di coltivazione possa resistere ed espandersi il necessario per sfamare un numero consistente di persone. Nella pratica bisogna scegliere una liberazione del suolo e una trasformazione dell’ambiente urbano più radicale.

La metropoli-giardino come possibile soluzione

Una soluzione alternativa alla permacultura potrebbe essere la cosiddetta metropoli-giardino? Jean-Noël Consalès, sempre nella raccolta Coltiviamo il nostro giardino, propone la riabilitazione di questo progetto (già sviluppato cinquant’anni fa), seguendo dieci principi generali:

1) Pensare e agire oltre la natura e la cultura, emancipandosi dall’antropocentrismo e stabilendo un’etica del mondo vivente, come dei giardinieri urbani;
2) Confrontarsi con la storia e la geografia del territorio, rendendo il paesaggio il fondamento della metropoli-giardino per poter vivere in simbiosi con il proprio ambiente;
3) Articolare le dimensioni e i giardini metropolitani, trattando con la stessa cura i vuoti e i pieni della metropoli, ovvero gli spazi non costruiti e gli spazi costruiti, per creare una connessione sul piano ecologico e una collaborazione dal punto di vista paesaggistico;
4) Conoscere e riconoscere il valore ecologico del territorio urbano, ovvero riconoscere all’interno della metropoli-giardino il valore della natura dal punto di vista ecologico, in funzione per esempio dello spostamento della fauna e della flora, e non solamente come un ornamento;
5) Conoscere e riconoscere il valore agronomico del territorio metropolitano, incentivando e sviluppando nuovi metodi di agricoltura urbana e di protezione del suolo ma anche ripensando la filiera della grande distribuzione alimentare;
6) Sviluppare approcci interdisciplinari rispetto alla natura all’interno della metropoli-giardino, per creare competenze diverse in grado di affrontare le complessità del progetto (e delle diverse soggettività naturali in generale);
7) Accentuare il dialogo tra pianificazione e progetto, poiché soltanto attraverso la complementarietà dei due ambiti sarà possibile far partecipare ogni elemento della metropoli, artificiale o naturale, al funzionamento ecologico e paesaggistico della città;
8) Far emergere, attraverso il progetto, nuove forme urbane sulla base dell’ibridazione città-natura, ovvero non sacrificare più spazi e specie in nome di uno sviluppo sostenibile ma al contrario porre nuovi paradigmi di crescita e anche urbanizzazione che portino alla simbiosi e ibridazione delle diverse specie coinvolte;
9) Sviluppare una metropoli di giardinieri e permettere un’appropriazione sociale della natura, dunque tutti gli attori potranno metaforicamente, simbolicamente o letteralmente prendersi cura della città-giardino, permettendo un coinvolgimento e un’appropriazione dei nuovi spazi più ampia possibile;
10) Affermare la metropoli-giardino come progetto sociale e politico, in grado di riappacificare e superare il contrasto natura-cultura a livello territoriale e porre come fondamento l’abitabilità della città-giardino dal numero più ampio possibile di soggettività, umane e non.

Tuttavia, di nuovo, tutto questo potrebbe non essere sufficiente. È necessario forse introdurre un ulteriore elemento di emergenza per capire come riorganizzare completamente il concetto di abitare una città durante la crisi climatica: abbiamo bisogno degli zombie.

ZombieCity e la riprogettazione urbana durante la catastrofe

Gli zombie sono stati usati in un esperimento accademico avviato nel 2013; l’obiettivo era trovare nuove idee su come si potrebbe riorganizzare lo spazio urbano per far fronte al cambiamento climatico. A un gruppo di studenti e studentesse di architettura è stato sottoposto il compito di organizzare una città alle prese con una crisi sociale e sanitaria di proporzioni immani, in cui le persone contagiate si trasformano in zombie e cercano di attaccarne altre. I risultati di questo studio sono raccolti nel libro Lezioni dalla fine del mondo. Strategie urbane di sopravvivenza agli zombie e alla crisi climatica (riedito recentemente e in uscita a fine giugno con il titolo ZombieCity) di Alessandro Melis, docente di Sustainable Design all’università di Auckland e responsabile del progetto, ed Emmanuele Jonathan Pilia.

Perché è stato necessario immaginarsi quella che si chiama ZombieCity? Le motivazioni sono innumerevoli, ma uno dei pregi di questo progetto è stato quello di mettere in chiaro subito le problematiche a cui bisogna porre rimedio: sicurezza, cibo, acqua, salute non solo fisica ma anche psicologica (si consideri che gli abitanti di ZombieCity saranno immersi in una situazione traumatica) e produzione energetica. Non sono ammessi errori, non si può sbagliare in una situazione di crisi generale e potenzialmente letale, con gli zombie in grado di individuare le fonti di calore emesse dagli esseri umani.

Inoltre si tratta di un progetto a lungo termine: ZombieCity è divisa in diciannove distretti separati nell’area metropolitana di Auckland, ognuno dei quali dovrà ospitare trecento persone per una cinquantina di anni come minimo. L’unica alternativa è puntare su sistemi autopoietici, completamente indipendenti.

Partendo da questi presupposti, risulta chiaro che solo attraverso il rifiuto della dispersione urbana e di un eccessivo consumo di suolo ZombieCity possa essere difesa in maniera efficace di fronte a un possibile attacco degli zombie. Una città meno estesa, in grado di mutare velocemente le proprie caratteristiche per resistere a diversi tipi di minaccia, viene controllata meglio dai suoi difensori e offre più possibilità di sopravvivenza. Questo porta come conseguenza la necessità di immaginare uno spazio cittadino in grado di offrire una buona qualità di vita utilizzando la minor superficie possibile (per soddisfare tutte queste necessità i progetti hanno cercato di ridurre il più possibile le superfici utili coperte, arrivando ad occupare intorno ai 10.000 m2, ovvero circa 33 m2 pro-capite).

Per questo motivo, rientrando tra le caratteristiche del progetto anche la necessità di produzione energetica e alimentare in uno spazio ridotto, si sono adottate e, in alcuni casi, adattate all’ambiente cittadino alcune tecniche già conosciute, come le caratteristiche passive e gli strumenti attivi dei cosiddetti Energy Plus Building (combinati con l’uso sostenibile delle risorse ambientali in funzione del conseguimento di 4 kW pro-capite/anno) o la coltivazione idroponica e aeroponica, che hanno sostituito l’agricoltura tradizionale nella maggioranza dei progetti poiché occupano una minor superficie, pur mantenendo lo stesso apporto calorico necessario ad ogni abitante (2000/2500 calorie giornaliere pro-capite).

Il dato principale che è emerso nei progetti selezionati è stato la capacità di ogni struttura di mutare ed evolversi in un periodo di tempo breve, immediato nel caso di un attacco degli zombie. Tutti gli schemi classici dell’architettura contemporanea sono stati infranti nello slancio creativo nato dalla necessità di resistere alla catastrofe. Il progetto forse più mutevole e per questo motivo interessante è ZombieCity Freescape di Dominic Wilson, dove la nuova città è continuamente in evoluzione e trasformazione: “cannibalizzando l’esistente” e modificando continuamente la sua struttura, che tuttavia poggia sulle fondamenta della vecchia città per non perdere le sue radici, cambia completamente il suo significato e la sua struttura in base alle esigenze di ogni individuo che la abita. In questo progetto viene eliminata l’idea di un’autorità centrale in grado di gestire il crescere e svilupparsi di una città, lasciando libertà a ogni soggetto di connettersi e crescere in sinergia sia con gli spazi propri, sia con quelli altrui e comuni.

La città del futuro tra distopia e rifugio

Certamente il problema della riprogettazione della vita in nuovi spazi autopoietici, autonomi e indipendenti pone una serie di problematiche importanti non soltanto dal punto di vista organizzativo, ma anche di vivibilità dello spazio. La distopia raccontata da J. G. Ballard nel suo libro Il condominio ne è un esempio: un moderno grattacielo londinese, a prima vista perfetto, che riproduce al suo interno tutte le funzionalità e i servizi di una città, si trasforma nel teatro delle più terribili violenze e lotte tribali, sfociando infine in una follia omicida di massa. La riprogettazione delle città dovrà dunque seguire in linea di massima un’attenta redistribuzione di spazi, eliminando qualsiasi tipo di barriera sociale e pratica discriminatoria, come i ghetti o i processi di gentrificazione.

Potrà un progetto di ambiente cittadino più inclusivo e attento a tutte le soggettività risolvere il problema della catastrofe climatica e mitigare gli effetti del Capitalocene? Forse non basterà, se non si agirà anche sulla catena produttiva e su tutti gli altri aspetti culturali, economici e politici che caratterizzano quello che viene definito ormai “capitalismo estrattivo”. Tuttavia ripartire dalle città per creare i rifugi necessari a sopravvivere alle catastrofi potrebbe essere un inizio di riconversione planetaria per prepararsi al cataclisma climatico e passarci attraverso nel migliore dei modi possibili.

Bibliografia

J. G. Ballard, Il condominio, Feltrinelli, Milano 2018.
(a cura di) F. Ferran, C. Mattogno, A. Metta, Coltiviamo il nostro giardino, Derive e Approdi, Roma 2019.
A. Melis, E. J. Pilia, Lezioni dalla fine del mondo, D Editore, Roma 2014.

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