Appropriazione o creolizzazione?

Le Indie galanti di Cogitore all’Operà di Parigi.

Foto: E. Bauer. (Fonte: Opéra de Paris)

Si è svolta in piena settimana della moda, all’Operà National de Paris, la prima della messa in scena di Clément Cogitore delle Indes Galantes (Le Indie galanti) di Jean-Philippe Rameau. Un’opera-balletto, tipologia di spettacolo d’invenzione e gusto tutto francese, che segna uno dei vertici nella pratica compositiva polifonica e più in generale nella storia musicale d’oltralpe e non solo. Al recitativo a una o più voci, cui è dato largo spazio – caratteristica propria dell’opera lirica alla francese rispetto al bel canto nostrano –, si alternano momenti coreografici di sola danza, che l’amore per il ballo di Luigi XIV (ballerino lui stesso) aveva elevato al livello della cultura alta e quindi di potere. Ed è proprio l’ampiezza data al movimento e alla danza, oltre la sua necessità storica, a meritare attenzione.

Composta, per le prime due éntrées (equiparabili agli atti) e per il prologo, nel 1735 – alle quali ne seguiranno l’anno successivo altre due – quest’opera rientra a pieno titolo nel gusto e nella fascinazione per l’alterità e l’esotico dell’epoca. L’Europa centro del mondo (e centro ancora oggi dei nostri planisferi) cercava divertissement, sollazzi e erotiche distrazioni geograficamente alla sua destra e alla sua sinistra. Un’attrazione sensuale – nel senso anche del sensualismo del pensiero settecentesco europeo – che assegnava e ricercava nell’altro da sé quello spazio di possibilità che fino a quel momento ero concesso e attribuito all’universo mitologico classico.

Come detto già da Jean Racine, alla fine del Seicento, l’esotico poteva nobilitare allo stesso modo della storia antica, in un passaggio estetico che dal meraviglioso passa allo straordinario, naturalizzando però l’altro nello spazio dello stravagante. Anche il proibito passava dal corpo di Venere a quello della schiava turca, nel tentativo di ritrovare uno stato di natura – irrazionale – sul quale lo sguardo paternalista e civilizzato potesse posarsi con curiosità e diletto. In questo contesto, il librettista Louis Fuzelier immagina quattro scene: il ritrovamento fortuito di due innamorati con tanto di naufragio in Turchia (I éntrée, Il turco generoso); un intrigo di desiderio tra gli Inca e i conquistadores (II éntrée, Gli Inca del Peru); l’amore di due aristocratici persiani e le rispettive schiave (III éntrée, I fiori, festa persiana); la scelta della nativa Zima di un sodale sconfitto piuttosto che di due colonizzatori (IV éntrée, I selvaggi).

Foto: LittleShao (Fonte: Opéra de Paris)

La messa in scena di Cogitore, artista e cineasta francese pluripremiato – dal 2006 a oggi ha ricevuto più di un premio l’anno – si basa su un’idea apparentemente scontata: attualizzare e trasporre nella nostra contemporaneità la fascinazione seicentesca e settecentesca per l’altro e il diverso. Non è necessario di cercarli in un paese lontano perché, straniero e selvaggio, sono qui a due passi, in un hangar o in un parcheggio di banlieue dove sfila la moda underground o si svolgono competizioni di voguing, hip hop e break dance. Idea che, grazie al lavoro della coreografa Bintou Dembélé – e al folto gruppo di ballerini e performer che dirige (compagnia Rualité) –, funziona perfettamente.   

Il progetto non è nuovo. Per quella che la maison parigina chiama 3e scène – sorta di terza sala virtuale (affiancando quelle reali di Bastille e Garnier) che propone progetti e contenuti on line – Cogitore ha già realizzato nel 2017 una clip sulle note di Rameau, dando al futuro spettatore un’idea della sua lettura dell’opera in questione. Qui, un gruppo di krumper – il Krump è la danza dei ghetti di Los Angeles nata in reazione alla repressione brutale e reiterata da parte della polizia (emblematico il pestaggio di Rodney King) – si muovono concitati sulle note di un estratto del quarto atto. I corpi e le presenze formano quello spazio circolare e spettacolare tipico delle battles in cui il confronto fisico è reso nei movimenti corporei senza una reale volontà di ferire l’altro ma emulando, e quindi disattivando quasi ironicamente, quelli veri della violenza subita. L’aggressività percepita resta però come impronta sui corpi. Come una memoria fisica, le espressioni dure dei volti – nonostante il fine pacifico dell’atto di danzare – evocano ed evacuano la violenza del quotidiano.

Questa idea è sviluppata da Cogitore nello spettacolo andato in scena nel corso delle ultime settimane. Nello spazio vuoto e quadrangolare del palco, il regista inscrive un cerchio dal quale emergono protagonisti, effetti ed elementi scenici, e dal quale un braccio meccanico che cala dall’alto – deus ex machina e macchina barocca allo stesso tempo – attinge di volta in volta. Nel susseguirsi delle scene, quel cerchio diventa un falò, un vulcano, una prigione, un palco per scontri di danza urbana. Da quello stesso cerchio – dopo una scena da shooting-sfilata di moda con tanto di vestiti neobarocchi e caduta ritmata di modelli pronti per la passerella – viene estratto un relitto di barcone. Il braccio meccanico lo solleva, lo pone al centro della sala, dando così un segno esplicito del messaggio che andrà avanti fino alla fine dello spettacolo.

Foto dell’autore

Dalla moda underground ai migranti che, soccorsi da individui in tute bianche, possono non solo “rodeare” con le coperte isotermiche ma deporle una a una sui resti dell’imbarcazione, ricoprendoli come foglie d’oro in una rituale d’offerta buddista. Ecco allora come lo scontro tra le due realtà – quella eurocentrica che va alla scoperta dell’altra, lontana ed esotica – diventa scontro in strada tra polizia e abitanti marginalizzati delle periferie, sfociando in veri e propri arresti. I corpi inginocchiati dei ballerini sono illuminati e si contorcono sotto la sola luce artificiale che li illumina. Gli schiavi della narrazione musicale del passato riemergono negli schiavi di oggi: quelli che tentato la traversata del mediterraneo (il barcone), quelli emarginati dal sistema sociale  (gli scontri urbani), fino a quelli costretti a prostituirsi (nel terzo quadro sono presenti delle vetrine a luci rosse simili a quelle di Amsterdam).

Eppure di fronte a questo incontro o scontro tra realtà così diverse e tra linguaggi, che potremmo definire “bassi” e “alti” con una stanca categoria culturale, ci si chiede se non si tratti di un’ennesima appropriazione della cultura dominante (bianca, privilegiata e fondamentalmente razzista) dell’alterità e della sua storia. Un furto per dirlo con l’antropologo britannico Jack Goody, e il suo celebre The Theft of History (2006), per il quale l’eurocentrismo è smascherato nella sua forma costituita di etnocentrismo. L’Europa e i suoi derivati rivendicherebbero per sé non solo l’invenzione della “modernità” ma anche quella dell’“amore”, di cui è materia l’opera di Rameau. 

Del resto, questo altro è da considerare tale solamente pensando il corpo sociale come un mobile a più ripiani – ben separati tra loro – nel quale non solo non c’è comunicazione tra i ripiani, ma quello più alto, dominante e visibile, caratterizza la morfologia dell’intera mobilia. Siamo oggi alla seconda generazione europea cresciuta – non solo musicalmente e artisticamente – in questa street culture, cosciente della sua specificità rivendicata come fondamentale per la propria identità, tanto comunitaria quanto individuale. Si tratta di un movimento di forze espressive e idee che circolano e migrano da un angolo all’altro del pianeta, senza frontiere né passaporti da dichiarare.

La narrazione in musica barocca, col suo tema di curiosità e divertimento sensuale, dà il ritmo a questo incontro tra un passato autorevole, e autoritario, e il nuovo ritmo da strada – nuovo, sia detto quindi, per un pubblico quasi esclusivamente bianco e socialmente privilegiato. Krump, Voguing, Popping, Flexing, Waacking, Glyding, Bboying… sono stili corporei eredi di quelle culture sincretiche a loro volta originate durante e dopo la tratta schiavista, nella celebre e ben triste triangolazione Africa, Americhe e Europa, durata almeno due secoli. Pratiche che sono parte della cultura e dell’immaginario urbano europeo, tanto da essere strumento di rivendicazione politica.

All’inizio dell’estate, due mostre temporanee si svolgevano l’una difronte all’altra sulle due rive opposte della Senna. La prima, Le modèle noir. De Géricault à Matisse (al Museo d’Orsay), ha avuto il grande merito di aver ridato volti, nomi e storie a soggetti razzializati, quindi dimenticati, in una delle stagioni più significative della cultura visiva occidentale alla quale avevano partecipato. Ma soprattutto, ha avuto il merito di rettificare quel linguaggio che, come nei cartellini delle opere esposte nella seconda – quella sulla riva destra, dedicata a una scelta della collezione di disegni “Piere Jean Mariette” (al Louvre) – presenta ancora didascalie come Testa di giovane nero di Paolo Veronese.

In questo contesto, dove i gilets gialli esprimono adesso su larga scala quel malessere sociale che investiva mediaticamente, fino a poco tempo, fa solo le banlieues, dare spazio a forme espressive della marginalità costituisce di per sé un evento. Eppure quando un gruppo di dj e ballerini voguing – tra cui Kiddy Smile (con la maglietta “figlio di immigrati, nero e frocio”) e due membri della truppa di Cogitore, Vincent Loboko e Giselle Palmer – sono stati invitati ad animare una serata ufficiale all’Elysée (edificio contemporaneo a Rameau), ci sono state voci contrastanti proprio venute dalla comunità dei performers che, improvvisamente, è diventata visibile al grande pubblico.   

Esibirsi davanti e per quel potere politico che esclude, emargina e a volte perseguita la comunità LGBTQI+ (in questo caso specifico) è visto come una forma di connivenza e assimilazione con quel potere che, al meglio, vuole normativizzare l’alterità. Madonna ha dato sì visibilità al Voguing con il suo pezzo Vogue, ma ha pure dato luogo a una appropriazione, guadagnandoci in notorietà e denaro. Il problema è dunque sostanziale: quel gioco di forze in movimento tra margini e centro, basso e alto, tra la norma e i suoi interstizi abitabili e sovversivi.

Resta il fatto (e non è di poco conto) che siamo davanti a un’operazione teatrale riuscita e a uno spettacolo da vedere. Non si può negare che la forza di questa messa in scena deve il suo successo all’innesto vivificante di un presente ai margini sul vecchio tronco di una cultura ufficiale. Rameau si è dovuto piegare alla forza di queste performance. Al di là delle esigenze della sala (2830 posti), che richiede una presenza strumentale importante – l’orchestra barocca è stata praticamente raddoppiata –, la parte coreografata ha richiesto l’aggiunta di percussioni per seguirne il ritmo Krump.

La musica sembra allora perdere ogni temporalità propria e animarsi davvero di contemporaneità. A tratti ci si dimentica della sua origine e se ne coglie solo l’originalità. È il binomio Rameau-street dance che riceve ogni sera una standing ovation. Gli ultimi minuti musicali sono perfino ignorati dagli applausi del pubblico, desacralizzati nel non rispetto del silenzio.  Le voci di alcuni dei migliori interpreti (tutti bianchi) del canto lirico francese – Sabine Devieilhe, Julie Fuchs per esempio – si confondono o si arrendono alla forza espressiva di performer e ballerini come Mariana Benenge Laurenco Cardoso, Guillaume Chan Ton, Wilfried Ble, Nadia Gabrieli Kalati, Aston Bonaparte, Ingrid Estarque, Moïse Kitoko Saday, Martin Mbock, Adrien Goulinet, Edwin Saco, Alexandre Moreau, Salomon Mpondo-Dicka, Féroz Sahoulamide, Jihène Slimani, Ablaye Diop… Anche nei momenti più lirici, dove il virtuosismo della voce solista dovrebbe sovrastare l’accessorio della danza, la poesia è tutta nell’incontro tra la musica e il flexing virtuoso di Calvin Hunt ad esempio, rendendo il canto virtuoso un piano di fondo sul quale esprimersi. 

Il lavoro tra corpo vivente e musica – inscritti entrambi nella loro rispettiva storia – di Bintou Bembélé è una forma di ri-scrittura dell’improvvisazione. La coreografia – che proprio nel Settecento assume l’idea disciplinare odierna – presuppone una riduzione a norma (annotazione) del gesto corporeo non deciso a priori e che segue la vitalità del corpo in movimento sul ritmo musicale. Bembélé è riuscita a saldare, ai limiti della norma barocca, le forme di espressività eredi del marronage, ovvero della resistenza organizzata degli schiavi per la libertà in primis del loro corpo, a quella stessa norma a cui si opponevano, senza costringerle nuovamente in catene – seppur metaforiche. Il colonialismo settecentesco e la sua raffinata musica – antenati diretti del potere di oggi – sono, nella versione di Rameau firmata Cogitore, la norma-scrittura coreografica che contiene e codifica la forza espressiva della libertà corporea. Eppure questa forza liberatrice, quando si è seduti in sala, sembra piegare la disciplina coreografica con le sue esigenze di scena.

Forse l’appropriazione è invertita, in questo dissolvimento del teatro musicale barocco, in forme espressive apparentemente lontane dalla cultura “dominante”. O, piuttosto, l’incontro e la creazione, in questa messa in scena de Le Indie galanti, sono la stessa cosa: un elogio del sincretismo, un Éloge de la créolité, difficile da scindere nelle parti che lo compongono. La forza creatrice rivendicata dalle culture creole, pur servendosi delle forme ricevute – la lingua, la metrica, la musica europee – e imposte, mantiene una forza vitale e creativa in divenire, che si definisce e non si lascia certo definire. 

Foto: LittleShao (Fonte: Opéra de Paris)

[Foto di copertina: Little Shao. Fonte: Opéra de Paris]

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