Verso un’antropologia integrata? Note critiche a “Di Stato si muore?”

Alcune settimane fa abbiamo pubblicato un breve estratto di un saggio firmato dall’antropologo Fabio Dei. "Di Stato si muore? Per una critica dell'antropologia critica" apre un volume curato dallo stesso autore che ospita riflessioni e saggi etnografici che si confrontano con le concezioni dello stato diffuse nel dibattito antropologico contemporaneo. Questo articolo è il primo di una serie di contributi a firma di autori diversamente stimolati dalla lettura del saggio di Dei.

Alcune settimane fa abbiamo pubblicato un breve estratto di un saggio firmato dall’antropologo Fabio Dei. Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica apre un volume curato dallo stesso autore che ospita riflessioni e saggi etnografici che si confrontano con le concezioni dello Stato diffuse nel dibattito antropologico contemporaneo.

Questo articolo è il primo di una serie di contributi a firma di autori diversamente stimolati dalla lettura del saggio di Dei.

Le mie reazioni istintive e accorate alla lettura dell’estratto pubblicato – frutto del lavoro di uno dei più autorevoli antropologi italiani – mi sono valse il gradito invito a estendere le mie argomentazioni e la mia critica. Andrò dunque direttamente al nocciolo della questione, chiarendo che nel quadro culturale italiano il saggio programmatico di Dei riporta le lancette dell’orologio indietro di una ventina d’anni, quando il contesto delle scienze sociali appariva refrattario a un impegno politico di segno critico e favoriva la cooperazione coi centri di potere, rendendosi cieco, ad esempio, rispetto ai sommovimenti che stravolgevano il mercato del lavoro e l’organizzazione sociale in genere.

Quello di Dei è un lungo scritto che, in ordine, sembra avere come bersaglio un’entità mitica definita Theory, l’antropologia “critica” e i movimenti radicali della sinistra. Uno scritto, inoltre, che ha a volte destinatari ben precisi – tra gli altri, Agamben, Asad, Spivak, Said e gli studi postcoloniali in genere – ma, più spesso, una massa indistinta, composta forse da autori nazionali, ma mai citati direttamente: accomunati, però, a giudizio dell’autore, da un posizionamento critico che li induce a vedere nello Stato “un nemico”.

Per esempio, avvalendosi di uno scritto di Barbara Carnevali – esso stesso un lungo peana contro la “critica” – Dei ci informa che:

Carnevali ha qui il coraggio di indicare e mettere allo scoperto un disagio che molti provano ma che difficilmente emerge in modo esplicito – poiché le basi della Theory sono incastonate ormai profondamente nell’accademia e nel suo principio di autorità […] Quello che l’autrice chiama Theory è un linguaggio gergale, criptico e autoreferenziale che non si preoccupa più neppure di confrontarsi col linguaggio comune e con il buon senso (p. 10).

In generale l’operazione di Dei ricorda un po’ quella, di segno opposto, tentata da Clifford e Marcus con Scrivere le culture. Anche quello era infatti un atto di accusa nei confronti dell’establishment antropologico precedente, che avrebbe determinato una sorta di piccola rivoluzione nelle scienze umane. Di riflesso, quello di Dei sembra un tentativo, che prende avvio dal cuore dalla provincia, di reagire contro l’assetto emerso da quella rivoluzione e da altre simili succedutesi nei decenni a seguire. Mi appare insomma, come una piccola Vandea contro i maître à penser di quell’impegno diretto a “svelare” il potere, le tecnologie di governo e l’afflato disciplinare che, secondo l’autore, costituisce il paradigma dominante della cultura contemporanea.

Il punto, però, è che gli autori che Dei cita – e che andrebbero a comporre questa entità che lui e Barbara Carnevali chiamano Theory – sembrerebbero spesso ignorarsi l’un altro, omettendo per esempio di citarsi. Si tratta di studiosi, inoltre, che frequentano terreni di ricerca assai differenti, o non ne frequentano alcuno, prediligendo il campo dell’analisi storica o culturale. Sono per di più studiosi del “post-coloniale”, della questione urbana, oltre che filosofi ed etnografi. Sono per giunta pensatori che hanno differenti relazioni con i terreni di cui parlano, essendo alcuni nativi e altri “alieni”. Hanno spesso età diverse. Sono noti in misura diversa a platee differenti di ricercatori: alcuni rappresentano effettivamente letture obbligate o semi-tali (Bourdieu, Foucault, Agamben); altri, per così dire, risuonano presso vaste platee, ma costituiscono essenzialmente la lettura di “specialisti” (Said, Asad, Spivak, Derrida); altri ancora, infine, sono studiosi noti solo all’interno di campi d’indagine estremamente ristretti (Sluka o Zulaika). I nomi evocati da Dei sono in realtà molti di più di quelli qui riportati, ma ciò che conta è che nessuno di questi autori si presenta al lettore mediamente erudito come appartenente a un “blocco”, come potrebbero per esempio farlo, a torto o a ragione, Romano Alquati, Toni Negri e Mario Tronti nella prospettiva di un (post)operaista. Ciò che nell’ottica di Dei sembra dunque accomunare tutti questi autori sarebbe essenzialmente una postura “anti-statale” e critica verso l’“Occidente”. Francamente un po’ poco per parlare di essi come di una specie di scuola o di partito in seno alle scienze sociali.

Dei parla inoltre di questa “scuola critica” posta al centro della sua critica – la Theory, per l’appunto – come di un esercito di bricoleur (p. 11), i cui membri più popolari vedrebbero “il potere un po’ come l’Impero Galattico di Star Wars, la parte dei ‘cattivi’ che opprimono e reprimono i poveri e gli inermi (e sono a loro volta contrastati solo da pochi intellettuali-Jedi, gli unici in grado di sottrarsi all’accecamento ideologico che le forze del Male suscitano nelle loro stesse vittime)” (p. 12). Questa sintesi ingenerosa, che richiama un certo criticismo ormai diffuso, relativo per esempio al lavoro di Foucault, suggerisce che al cuore della critica di Dei vi stia non già l’epistemologia degli autori, di cui in fondo non si dice nulla, ma la “politica”. Non è insomma ciò che scrive questo blocco male assemblato di studiosi a disturbare l’antropologo, ma, come dice egli stesso, il fatto che «il cardine dell’antropologia critica è l’impegno militante che la generazione post-strutturalista ha assunto come base della propria postura conoscitiva» (p. 11). In questa cornice, sostiene Dei:

l’antropologo sta dalla parte dei dannati della terra e dei gruppi che vivono in una qualche condizione di subalternità, come il dominio coloniale e neocoloniale, l’oppressione di classe e di genere, la discriminazione etnica e quella di orientamento sessuale. Ha bisogno quindi di una teoria critica del sistema di dominio di cui essi (i colonizzati, i migranti, i proletari, le donne, i neri, le persone Lgbt) sono vittime: un sistema identificato da etichette come “neoliberismo globale”, “capitalismo finanziario”, “impero” e analoghe (p. 12).   

Se al fine di esercitare una critica a una postura di cui si vogliono cogliere i limiti non sembra utile mettere insieme un calderone in cui galleggiano nomi ed esperienze tra loro distantissimi, a volte accostabili solo con qualche sforzo, ma racchiusi ciò nondimeno sotto la comune etichetta fantasma di Theory, ciò che colpisce è anche che l’autore definisca questo insieme di visioni, a suo dire dominante nel mondo delle scienze sociali, un “paradigma accademico”. Lì ove, se si uscisse dalla provincia dell’antropologia o da quello di settori risicati delle scienze sociali, per abbracciare invece il campo della cultura in generale e quello dei suoi raccordi con la politica, si noterebbe probabilmente che figure come i tecnici delle banche d’affari, gli economisti ordoliberali, i giuristi di Harvard assoldati per giustificare la tortura e immaginare nuovi modi per violare le convenzioni internazionali, oppure i tecnocrati impegnati a escogitare criteri di valutazione e auditing sempre più punitivi e forieri di disuguaglianze, costituiscono un ben più rilevante, oggettivo e influente mainstream su cui concentrarsi.

A ogni modo, tutto questo dovrebbe probabilmente essere messo in connessione con il fatto che un ulteriore bersaglio di Dei è il politically correct, visto qui come “negazione della critica” (p. 43) e conformismo a visioni antistoriche dello Stato. Lì ove tali visioni consisterebbero nell’enfasi della “scuola critica” sulle funzioni predatorie e “di rapina” dello Stato, dimentiche del fatto che quest’ultima “entità metafisica” è anche quella che ha garantito i diritti, oltre che le medesime cornici ideologiche che rendono possibili la critica radicale e l’aspirazione a un mondo più giusto. Se l’osservazione è corretta, Dei sorvola sul fatto che questa possibilità non è il frutto di una predisposizione implicita dello Stato, ma la risultanza di una serie di lotte intraprese da blocchi sociali impegnati a contrastare progetti di classe generalmente volti a limitare, se non impedire, la ridistribuzione. E che, dunque, lo Stato sociale non è stato tanto il frutto di una filosofia propria dello Stato liberale, ma di un processo storico persino sanguinario che, minacciando la stabilità e l’ordine, ha costretto la borghesia a venire a patti. E che queste stesse conquiste possono essere rapidamente abbandonate – nei fatti, se non formalmente – non appena la presa rivendicativa si allenta. Ecco dunque che il conflitto risulta il grande espunto dall’analisi di Dei.

L’autore, peraltro, rende conto delle ambivalenze dello Stato – non fa cioè tabula rasa del capitolo coloniale o di altri simili in età contemporanea – ma sembra, per così dire, invitarci a riconciliarci con esso e le sue visioni. Non senza però avvisarci prima – e rischiando così di fare risuonare alla lontana talune argomentazioni proprie del nuovo pensiero reazionario – che lo sforzo delle teorie anticoloniali – in particolare di autori come Talal Asad – attiverebbero una sorta di pregiudizio al contrario, essenzializzando lo “Stato occidentale moderno”, di cui si «fa un’unica grande entità il cui fondamentale contenuto è quello della violenza» (p. 40). A ben guardare, l’insistenza sul punto è in effetti consonante con l’idea diffusa secondo la quale le componenti sociali precedentemente egemoniche in Europa e Stati Uniti sarebbero oggetto di una discriminazione al contrario che, concentrandosi su singoli aspetti delle storie nazionali, starebbero relegando in un angolo queste stesse componenti sociali.1  

In aggiunta a tutto questo, Dei ci dice anche che le critiche alle definizioni di terrorismo perseguite dallo Stato oppure quelle alla cooperazione sono sostanzialmente infondate e frutto di un pregiudizio radicale, che avrebbe tra i propri responsabili Edward Said: l’iniziatore, cioè, di una specie di teodicea che preclude all’“Occidente” la possibilità di essere umano. Tutto, insomma, verrebbe erroneamente interpretato come “doppio” da questo pensatore radicale e dai suoi seguaci: l’umanesimo delle Ong verrebbe per esempio visto “come quel braccio sinistro che restituisce un po’ di ciò che l’arto destro ha levato poco prima”; i diritti umani verrebbero declassati a “lato soft dell’impero”. Allo stesso modo, ci dice Dei allargando il campo, la medicina è solo la medicina, ed è perciò lungi dall’essere quell’oggetto “degno di una rivista di New Age” che ci suggerirebbe la lettura di autrici come per esempio Scheper-Hughes, intrise di “spiriti” e, a suo dire, ridicole risignificazioni politiche del rapporto medico-paziente. Analogamente, sulla scorta di questa avvertenza, viene da chiedersi se non sia allora possibile considerare i giudici alla stregua di semplici amministratori della giustizia o i poliziotti come neutrali custodi della sicurezza, facendo dunque piazza pulita di una  classica letteratura storica, antropologica e sociologica che nulla ha a che vedere con quella di segno critico di cui parla Dei e che, ciò nonostante, si rifiuta di vedere la medicina e le altre istituzioni chiave dell’organizzazione sociale come un semplice e neutro fatto di amministrazione. 

Dall’analisi di Dei deriva dunque un quadro che risulta tutt’altro che ingenuo e un posizionamento ideologico altrettanto rigido e “militante” di quello messo da egli stesso sotto accusa. Una visione che potremmo forse definire “integrata”, che ha dei corrispondenti fuori dall’accademia ed è compatibile con un sentire “anti-antagonista” molto diffuso nella società italiana e in quel senso comune al centro dell’attenzione dell’antropologo: quello degli “anti-antifascisti”. Naturalmente non si intende con questo tacciare Dei di essere anti-antifascista, ma di osservare come la sua analisi possa ricalcare i termini attraverso cui  questo blocco sociale radicato nella storia italiana avversa le manifestazioni culturali di una sinistra accademica e non soltanto tale, giudicata distante dai problemi reali della “gente”, oltre che “radical-chic” e “da salotto”. Per essere più chiari, gli anti-antifascisti sono tanto i neofascisti quanto quella estesa parte di società che, con Orsina, potremmo definire “ipopolitica” e allergica alle forme plateali di conflitto imputate alla sinistra e all’antagonismo.

Quella di Dei può forse essere considerata, come dicevo, un’antropologia integrata, che tenta di realizzare una peculiare connessione gramsciana col sentimento popolare. L’autore, infatti, fa esplicito riferimento a una relazione e un rapporto proficui tra il senso comune dei piccolo-borghesi, anche di quelli impauriti e “forcaioli”, che non a caso invita a prendere sul serio nelle pagine finali del suo testo, e le scienze sociali. Dice infatti che «non si vede perché oggetto dell’attenzione etnografica debbano essere solo i soggetti “marginali” e non invece i ceti medi o la “piccola borghesia”: non vivono anch’essi in una specifica economia morale, che non può essere liquidata (come tende a fare la teoria critica) in termini di irrazionali ansie securitarie indotte da uno Stato-poliziotto?» (p. 45). Dinanzi a questo passaggio non si può ribattere all’autore altro che ha torto e ragione insieme. Tale attenzione infatti è senz’altro opportuna e, difatti, esistono molti testi che prendono sul serio questa fetta di umanità, riflettendo sulle sue ansie: da ultimi quelli di Arlie Hochschild, Nancy Isenberg, James David Vance o Justin Gest, pubblicati tutti in anni recentissimi; ma si tratta solo di alcuni volumi di una lunga serie che dovrebbe includere quantomeno La miseria del mondo di Bourdieu (1993). Inoltre si potrebbe osservare che mentre non vi sarebbe nulla di male nel realizzare questa connessione, posta peraltro alla base di una nozione gramsciana di “egemonia” richiamata solo rapidamente all’inizio del saggio, l’invito dell’autore, se visto in serie con le osservazioni pregresse, rischia di apparire come teso non tanto a predisporre gli strumenti necessari a un intervento politico che faccia breccia nella società, quanto a declinare la ricerca in un modo che rischia di ridurre l’antropologia o le scienze sociali al livello di quel senso comune che vede nell’ordine pubblico e nell’immigrazione le cause dei problemi del presente. Al contrario di ciò che egli afferma, infatti, la postura critica e militante non coincide con una sordità rispetto alle istanze complessive della società, ma con la comprensione e, insieme, destrutturazione delle fondamenta di queste percezioni, a partire dall’idea che comprensione degli immaginari e “fatti” non si equivalgono. Non si tratta, naturalmente, di abbracciare tesi neopositiviste; ma di conciliare le istanze socio-antropologiche di comprensione e rappresentazione con quella funzione di diramazione delle nebbie eventualmente presenti nel senso comune che dovrebbe essere propria della scienza sociale, oltre che ciò che storicamente ne giustifica l’esistenza e l’inglobamento in seno a quello Stato così centrale per l’analisi dello stesso Dei. Comprendere e dire per esempio che “la gente” ha paura significa tanto prendere atto di queste paure e delle motivazioni che vi soggiacciono quanto poter affermare che quelle ragioni non hanno fondamenta oggettive, qualora sia questo il caso. E farlo diventa tanto più urgente ed eticamente necessario allorché la paura cessa di essere un semplice sentimento e si trasforma nel motore di nuovi autoritarismi e processi di esclusione.   

Vista in quest’ottica appare in qualche modo sospetta anche la proposta epistemologica dell’autore di riporre la cultura al centro dell’antropologia (p. 27 e sgg.). Sospetta innanzitutto perché la cultura non è mai scomparsa dalle scienze sociali contemporanee e tutte le etnografie continuano, difatti, a essere studi sulla cultura di uno o più gruppi. È difficile, cioè, rispecchiarsi nella sintesi prodotta dall’autore, secondo la quale il “discorso critico” avrebbe come

tratto caratterizzante […] l’attribuzione allo Stato di una funzione puramente repressiva, senza considerarne gli aspetti costitutivi. Come si trattasse cioè di un’agenzia opprimente esterna alle “persone”, che senza di esso sarebbero più libere e felici, e non di un’istituzione che ha accompagnato la storia (almeno quella moderna e contemporanea), costruendo nel male e nel bene quello che siamo oggi (p. 28).

In risposta, è difficile astenersi dal notare che, in realtà, gran parte delle ricerche antropologiche o sociologiche che capita di leggere sono esattamente riflessioni sulla natura costitutiva del potere. E lo sono, peraltro, anche perché uno dei “fari critici” del presente – Michel Foucault – ha insegnato proprio questo. In secondo luogo perché l’attacco ha per oggetto l’antropologia politica (peraltro all’interno di un paragrafo polemicamente e programmaticamente intitolato “Tutta l’antropologia è antropologia politica?”). Sembra dunque fare capolino ancora una volta quella ritirata dalla politica che è tipica della struttura di sentimento di una parte rilevante di quella società “normale” sempre presente nel farsi dell’argomentazione di Dei. In terzo luogo, perché “cultura” è una delle parole chiave dei nuovi identitarismi. Così, se questa non è mai veramente scomparsa dalle scienze sociali contemporanee, rimetterla al centro del discorso rischia ancora una volta di apparire curiosamente consonante con talune tendenze reazionarie presenti nella società. Oltre che con una certa tendenza all’individualizzazione (e, insieme, etnicizzazione) delle responsabilità e, dunque, alla rarefazione delle analisi sulla struttura economica (un oggetto, non  a caso, marginale nell’analisi di Dei) – che è stata tipica del discorso imposto a livello globale da maître à penser del calibro di Reagan e Thatcher, e, successivamente, di molti emuli di minor fama di importanza prevalentemente nazionale (dai “choosy” della Ministra Fornero agli “sfigati” del sottosegretario Martone, passando per i “bamboccioni” del Ministro Padoa Schioppa. Ma la lista non è esaustiva). In termini ancora più espliciti, insomma, nessuno potrebbe convenientemente spiegare le performance economiche del Mezzogiorno, oppure lo stato dell’arte del conflitto arabo-israeliano, appellandosi alla cultura. Per quanto naturalmente nessuno nega che questa esista e partecipi a spiegare la prossimità o gli attriti tra gruppi, seppur diluita e condivisa da unità molto più piccole che lo Stato-Nazione o la “società”.   

Infine su un piano forse differente – se si vuole, maggiormente interno al campo della pratica antropologica – viene da chiedersi quanto la visione qui espressa sia, oltre che l’espressione di una disposizione ideologica, anche l’espressione di un’assenza. Quanto, cioè, quello espresso qui sia il punto di vista di un ricercatore che non ha mai praticato etnografia in terreni “complicati”. In uno di quei terreni, sarebbe a dirsi, che stravolgono il modo di un ricercatore di vedere la realtà, costringendolo ad avvertire sulla propria pelle la sostanza di cui è fatta la ragion di stato (e il pensiero va qui obbligatoriamente a Giulio Regeni). Si tratta non di una illazione polemica, ma di una serena constatazione relativa all’impegno antropologico di un autore che ha condotto ricerca in terreni sì sensibili, ma certamente non esposti alle medesime tensioni di quelli dove si consuma la guerra a bassa intensità tra lo “Stato” e la cittadinanza.

Quella di Dei, insomma, sembra la weltanschauung di chi, giusto per fare gli esempi più banali e a portata di mano, lo sgombero di un centro sociale o di un campo rom non l’ha testimoniato dalla posizione di chi prende le manganellate sulla propria testa. Oppure quella di chi ha scritto egregiamente di terrorismo senza avere però fatto un soggiorno etnografico in Palestina, Giordania o in Siria. È infatti difficile ritenere che certi terreni non lascino una traccia e l’accordo che Dei sembrerebbe intravedere tra studiosi tra loro molto differenti – quel mainstream contro cui si scaglia, insomma – è probabilmente il frutto di esperienze diversificate che però trovano un terreno d’incontro proprio nella funzione repressiva delle agenzie statali. Un po’, insomma, come accadde per quegli indizi astronomici, raccolti da autori differenti in luoghi diversi, che suggerivano che la Terra  fosse rotonda e non piatta. 

In conclusione, trovo che vi siano alcuni rischi nella proposta di Dei. Fondamentalmente attinenti a una voglia di riconnessione con il senso comune e la “normalità” che è eccessivamente simile al sentire medio di questi anni e che, non a caso, ne riflette le istanze: la sostanziale abdicazione da un ruolo pubblico attivo, il ripudio del “radicalismo”, la rivendicazione della “civiltà” e della “cultura”. Una serie di coincidenze che rendono il programma di fatto esposto in queste pagine non meno ideologico di quello della “controparte” designata. E poco importa che non esista una vera e unica controparte, ma una pluralità di voci globali che convergono sulla base di ciò che i terreni suggeriscono. Insomma, tutto questo pone un problema poiché rende la potenzialmente interessante sfida di Dei poco utile, oltre che di segno decisamente opposto a quello che presumibilmente ricercava.

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Note

  1. Si veda: Pierre-André Taguieff, La Force du préjugé, Paris, La Découverte, 1988.
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