L’antropologia dello sport tra i banchi di scuola

 La ricerca descritta agli studenti del Liceo Gambara di Brescia.

antropologia sport scuola

La rubrica “Fare Ricerca” ritorna sul nostro blog con il racconto di “Fare Ricerca per le scuole”, un progetto sulla divulgazione della ricerca condotta attraverso gli strumenti delle scienze umane e sociali negli istituti scolastici.  

Questo articolo nasce da un mio intervento nell’ambito del progetto Fare Ricerca per le Scuole, sviluppato grazie alla collaborazione tra l’Associazione Fare Ricerca e le comunità scolastiche, in questo caso il Liceo Veronica Gambara di Brescia. L’idea di partenza, semplice quanto virtuosa, è quella di offrire agli studenti una testimonianza diretta delle esperienze e delle criticità di chi la ricerca nelle scienze umane la fa concretamente, così da arricchire con agganci empirici i termini concettuali con cui si esprime la manualistica scolastica. Lo scopo è quello di far capire, concretamente, cosa fa e cosa può fare un ricercatore sul campo, e in che direzione si orientano i suoi sforzi.

Ho avuto l’occasione di raccontare le mie esperienze di ricerca alle classi III, IV e V del Liceo bresciano. Cercando di adattare i contenuti a ogni classe e facendo riferimento alla mia ricerca sulla lotta bretone e a quella in corso sul surf sulla Gold Coast australiana, in tre interventi ho provato a spiegare perché abbia senso occuparsi di pratiche fisiche e sportive da un punto di vista antropologico. Infatti, benché la rilevanza degli studi sul gioco, sul genere, sui consumi, sul corpo e sulle sue “tecniche” sia unanimemente riconosciuta all’interno della disciplina, l’analisi delle pratiche sportive, che questi aspetti li racchiude tutti, fa fatica a ritagliarsi uno spazio di autonomia nell’antropologia contemporanea, legata ad altri, più consolidati temi. I resoconti etnografici sullo sport, almeno in Italia, non sono ancora riusciti a superare un pregiudizio intellettuale nei confronti dello studio delle attività fisiche, dei loro praticanti e dei loro seguaci, e non hanno avuto modo di organizzarsi attorno a un corpus di studi sistematico e coerente, a discapito della loro qualità e, in tempi recenti, della loro quantità.1

Una tecnica di lotta bretone al Festival Interceltique di Lorient (2012)

Nelle scienze umane lo sport è stato spesso visto da una parte come un’attività futile, attinente al massimo al benessere psico-fisico e al sapere medico; dall’altra come elemento disciplinare e strumento di costruzione del consenso. In effetti, per il ruolo che ha avuto nella costruzione dell’identità nazionale in certi Stati, o per il suo carattere di pratica prevalentemente occidentale, ha senso pensarlo anche in questi termini. I pugni alzati di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi del 1968, il rifiuto di Mohammed Alì di imbracciare le armi contro chi non lo aveva mai chiamato “negro” o, per venire ai nostri giorni, la silenziosa ma rimbombante protesta del quarterback Colin Kaepernick contro le discriminazioni subite dai neri negli Stati Uniti, ci hanno dimostrato che non è sempre così, non solo così. Lo sport può affermarsi certo come dispositivo disciplinare; ma può anche rappresentare un ambito di promozione di valori alternativi, un contesto favorevole allo sviluppo di una certa creatività “anti-strutturale” o, per usare un termine à la page, di resilienza. Lo sport è dunque, sicuramente, un prodotto storico e culturale, che può dirci qualcosa di interessante sul contesto che l’ha prodotto e in cui viene praticato, sui suoi immaginari, sulle traiettorie sociali e culturali che ne hanno consentita l’affermazione; ma lo sport può anche guadagnare una relativa autonomia rispetto all’ambiente in cui si inserisce, proponendosi come spazio di produzione di cultura, di disposizioni, di modelli di (valut-)azione propri.2

Abbiamo parlato di questa duplice natura delle pratiche fisiche e sportive con gli studenti del Liceo Gambara, agganciandoci a questioni di attualità. In particolare, la riflessione è scaturita quasi spontaneamente dai commenti che gli studenti hanno fatto dopo la visione degli spot pubblicitari di due importanti aziende di abbigliamento sportivo, Nike e Billabong. I due brand promuovono infatti messaggi diversi, apparentemente contraddittori, ma di fatto complementari e, per quel che ci interessa, esemplari. Lo spot Nike, grazie anche al coinvolgimento di un testimonial d’eccezione – il Kaepernick cui abbiamo accennato –, promuove attraverso immagini di successi sportivi un messaggio trasversale a diversi ambiti del contesto sociale cui si rivolge: volere è potere; tutti possono, se vogliono; “just do it”. La Billabong, invece, con una rapida carrellata di spiagge, albe, tramonti, onde che frangono e surfisti che veloci le cavalcano, ci dice il contrario, e cioè che solo una ristretta cerchia di iniziati sa di cosa si parla veramente: “only a surfer knows the feeling”. Si tratta chiaramente di strategie di marketing che hanno lo stesso fine (vendere), benché facciano leva su messaggi discordanti (il successo sociale alla portata di tutti; l’autenticità appannaggio di pochi). Ma hanno offerto in ogni caso agli studenti un’idea concreta delle possibilità di analisi che le pratiche sportive offrono alla ricerca. Da una parte, lo sport come prodotto culturale; dall’altra, lo sport come produttore di cultura.

 

Only A Surfer Knows The Feeling – Andy Irons from Jarrod Tallman on Vimeo.

Abbiamo ripercorso poi brevemente le ricerche all’origine dell’interesse antropologico per il gioco e per le pratiche fisiche. In particolare, ho rapidamente introdotto Marcel Mauss e le sue “tecniche del corpo”, Gregory Bateson e il meta-messaggio “this is play”, Loïc Wacquant e l’habitus pugilistico. Abbiamo capito così che i modi di servirsi del corpo sono socialmente determinati; che il contesto ludico costruisce una cornice correlata alla realtà ordinaria, ma all’interno della quale i gesti assumono significati e conseguenze diverse; e che proprio seguendo questa logica l’allenamento di pugilato e la palestra in cui si svolge riescono a forgiare disposizioni e sistemi di valutazione del mondo. Ci siamo chiesti allora come facciano le pratiche sportive a diventare così importanti per tante persone, al punto che qualcuno arriva a dedicargli la vita o a mettere a rischio la propria incolumità (negli sport estremi, o nelle pratiche estreme, come il doping), sovvertendo il messaggio batesoniano “questo è un gioco” e trasformandolo nell’imperativo “non è affatto un gioco”. Ci siamo risposti dicendo che la passione si costruisce seguendo traiettorie di senso che rispondono certo alle inclinazioni di ognuno, ma i cui tratti sono in buona misura culturalmente definiti.

Quello che ci piace, insomma, anche quando ci piace così tanto, non è (sol)tanto esito o espressione delle nostre “inclinazioni naturali”, ma è anche il risultato di un processo sociale di costruzione del senso e del gusto. Perché, di fatto, anche quelle “inclinazioni” sono il risultato di complessi processi di socializzazione; sono “naturalizzate” più che naturali, avrebbe detto Bourdieu. Il succo è che impariamo come godere di certe esperienze. A tal proposito ho raccontato di quanto fossi sorpreso, le prime volte che parlavo coi surfisti in Australia e che mi avventuravo con loro tra le risacche, nel vederli godere così tanto del sole e del sale che ti seccano la faccia, della schiuma che ti centrifuga, della sabbia che ti si infila nelle mutande. Per me, che sto “in fondo alla campagna”, non solo non si trattava di sensazioni familiari, ma erano pure fastidiose, e non capivo come fosse possibile apprezzarle tanto. Eppure per i surfisti non si trattava solo del prezzo da pagare per arrivare sull’onda e farsi una bella cavalcata (quella sì, piacevole anche per me): tutto questo era anzi parte del divertimento – una parte fondamentale del divertimento. Il mare, insomma, “è un’idea come un’altra”, come dice Paolo Conte, che diventa migliore delle altre solo in seguito all’elaborazione di “sistemi di apprezzamento” storicamente e culturalmente definiti. Ce lo racconta Alain Corbin nel suo saggio L’invenzione del mare, che rintraccia nell’escapismo romantico e in filoni medici e mode aristocratiche dell’Ottocento l’origine di “un piacere nuovo” in Occidente, quello per il mare e per la spiaggia come luoghi curativi e ricreativi. La sabbia nelle mutande, insomma, diventa piacevole grazie a traiettorie sociali e culturali che ne definiscono il senso (il recupero di un contatto autentico con la natura e con se stessi, il distacco dalla frenesia della vita urbana, eccetera).

Allora ci siamo domandati, con gli studenti, quale fosse il metodo per rintracciare e analizzare questi processi di costruzione e di trasmissione del senso nei gruppi di sportivi che di volta in volta prendiamo in considerazione. Insomma, come si fa a capire cosa rende lo sport così importante per chi lo fa o per chi lo segue? Ficcando il naso negli affari degli altri, ci siamo detti. Provando cioè sulla nostra pelle il fastidio della sabbia nelle mutande e lo stupore di fronte a qualcuno che ne gioisce, chiedendogli (chiedendosi) perché ne gioisca, e cercando di capirlo dai suoi discorsi, dai suoi sistemi di valutazione, dai suoi comportamenti quotidiani. In una parola, attraverso il metodo etnografico, che ci permette di intrufolarci, con un indispensabile bagaglio di riferimenti teorici e metodologici, nelle “culture sportive” per capire in che modo ciascuna di esse valorizzi determinate azioni o modelli relazionali piuttosto che altri, insista su determinate abilità e virtù piuttosto che su altre, costruisca e trasmetta ai suoi praticanti (grazie ai suoi praticanti) il senso profondo di quello che fanno, nonché gli strumenti per apprezzare quello che fanno.

L’attenzione e la partecipazione degli studenti alla riflessione elaborata nelle due ore di presentazione proposte a ogni classe, oltre ad aver gratificato me a livello personale, è stata una testimonianza concreta dell’efficacia di un progetto di supporto alla didattica come Fare Ricerca per le Scuole. Affiancare la didattica curriculare presentando persone che riportino la loro esperienza concreta di ricerca, collegandola a quello che i ragazzi studiano sui libri, stimola l’interesse e la consapevolezza circa determinati temi, caldi e attuali, della ricerca nelle scienze umane e sociali.

Un gruppo di surfisti valuta le condizioni delle onde e si appresta a uscire in acqua saltando dalle rocce a Burleigh Heads, QLD, Australia (2016)
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Note

  1. Non è questa la sede per elencarli tutti, ma sull’esempio degli studi di Loïc Wacquant sulla boxe nel ghetto di Chicago (Anima e corpo, DeriveApprodi, Roma 2002) e di poche altre ricerche pionieristiche, negli ultimi quindici/vent’anni il numero di pubblicazioni sulle pratiche sportive è aumentato esponenzialmente.
  2. Proprio come accade nel gym di Wacquant, che propone una realtà sociale e valoriale alternativa rispetto a quella della strada
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