Cosa significa, per un’antropologa o per un antropologo, occuparsi di cambiamenti climatici?

È una domanda che mi sono posta spesso in questi anni di ricerca, e da cui sono partita per cercare di cogliere, di dare un senso, al mondo che vedevo trasformarsi sotto ai miei occhi. La sensazione è quella di “esserci dentro fino al collo”; fare ricerca “sui” cambiamenti climatici significa anche — e soprattutto — fare ricerca “nei” cambiamenti climatici, esserne parte, anzi, esserci immersi. Significa avere a che fare con un oggetto di studio che è al contempo il punto di partenza dal quale “si fa” la ricerca; significa pensare al proprio posizionamento, al proprio impegno, al proprio coinvolgimento, al proprio engagement.
Anche se oggi le scienze umane sono sempre più al centro delle questioni ambientali, va sottolineata l’assenza dell’antropologia nei grandi dibattiti pubblici, e questo vuoto — che ha da essere colmato urgentemente — ha almeno 4 cause:
1. In Italia l’antropologia che si occupa di cambiamenti climatici (e di disastri) è un campo cosiddetto “emergente”.
2. Lo spazio accordato nei dibattiti pubblici (tv, media, conferenze) alle scienze umane su questi temi è pressoché nullo.
3. Le carenze istituzionali in tema di prevenzione dei disastri (dovute a un misconoscimento della natura sociale, più che strettamente fisica, degli eventi catastrofici) sono purtroppo una realtà.
4. La ricerca su questi temi è spesso confinata al mondo accademico e in generale alle università, con investimenti del tutto insufficienti a creare delle ricadute e degli impatti positivi sulla società.
Come ha osservato Elena Bougleux, il cambiamento climatico è una questione che riguarda al tempo stesso aspetti “estremamente scientifici” e aspetti “completamente sociali”: non esiste evidenza significativa, aspetto problematico né discorso sul clima senza una società che lo vive, lo commenta, lo misura, lo confronta con il proprio passato, tanto recente quanto lontano. È il caso del mio campo di ricerca: il cambiamento climatico nell’area del Monte Bianco, che prima ancora che questioni sullo scioglimento dei ghiacciai, sulla sicurezza, sulla prevenzione e sulla gestione del rischio, ci interroga su problemi di portata epocale come ad esempio cosa significhi vivere nell’Antropocene.1 Si tratta dell’era (geologica e culturale) in cui viviamo, che è stata interamente plasmata dagli impatti degli esseri umani sul pianeta e sul clima. Fare ricerca nell’area del Monte Bianco implica discutere del nostro modello economico, del rapporto che intratteniamo con l’ambiente e con l’ecosistema, del modo di concepire il turismo, lo sport, del nostro modo di costruire e vivere i luoghi, delle nostre istituzioni, della rappresentanza e la partecipazione di chi agisce sul territorio.
Da un punto di vista strettamente antropologico i cambiamenti climatici e le loro conseguenze possono essere considerati come “disastri di lungo corso”; fenomeni fisici e sociali, osservabili nel tempo e nello spazio, in cui gli ecosistemi e le comunità coinvolte subiscono una serie di stravolgimenti.
Anche se spesso il cambiamento climatico è utilizzato come un campo di battaglia su cui si fronteggiano saperi contrastanti, differenti pratiche e modi di affrontare i temi legati alla conoscenza, occorre valorizzare — nel senso di dare spazio e valore epistemologico — i differenti sguardi conoscitivi su questo tema e fare interagire su più livelli conoscenze qualitative e conoscenze quantitative, modelli matematici e paradigmi esplicativi. Anche se attraverso lenti differenti, occorre che questi sguardi convergano e si integrino per riuscire ad afferrare la complessità dei cambiamenti in atto.
Occuparsi di cambiamenti climatici significa andare oltre i mutamenti osservabili; per fare un esempio, a proposito dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), 2 oggi punto di riferimento per qualsiasi discorso sul riscaldamento globale, Mike Hulme nota come questo abbia contribuito sì, a generare un largo e potente consenso circa gli “effetti fisici” del cambiamento climatico, ma nota anche come non ci dia un vantaggio in termini di comprensione della sua complessità. Ed è per questo che abbiamo bisogno di guardare al cambiamento climatico attraverso nuove categorie, nuovi sguardi, e attraverso nuovi modi di dar senso ai molteplici significati legati a questo concetto. Ciò che Hulme suggerisce è di adottare un approccio che sia incentrato sulla dimensione locale, quotidiana, individuale dell’esperienza: esattamente l’opposto di quanto avviene attraverso le “grandi conferenze globali sul clima” e gli enti internazionali preposti alla “tutela” del clima.
Molti dei cambiamenti climatici in corso, nonostante la loro drammatica portata e nonostante gli impatti disastrosi sulle comunità e sulla biodiversità, ci appaiono opachi, lontani dalla visibilità del quotidiano: lo scioglimento dei ghiacciai — artici e alpini — l’estinzione di specie esotiche, le alterazioni della composizione dell’atmosfera, del fluire delle correnti marine, la scomparsa delle barriere coralline, sono fenomeni che non rientrano nella nostra immediata portata percettiva, e fatichiamo (noi ricercatori, abitanti, persone) a figurarceli come reali.
Tuttavia, su una scala più ridotta, locale, i cambiamenti ambientali vengono percepiti e significati; nei contesti di montagna, così come in quelli urbani, contesti in cui la storia dei luoghi è radicata nella memoria del territorio vissuto, e in quella di chi lo abita e lo ricorda, la percezione dei mutamenti in atto è avvertita come un’esperienza “reale”. In un periodo storico drammatico per il futuro del nostro pianeta e per quello dei suoi abitanti, la regione alpina si pone al centro del dibattito sul clima e sull’ambiente, fornendo dall’interno — nei cambiamenti climatici — nuove prospettive di ricerca e spunti di riflessione inediti.

Bibliografia
E. Bougleux, “Incertezza e cambiamento climatico nell’era dell’Antropocene”. In EtnoAntropologia, 5 (1), 2015.
M Hulme, “Why We Disagree About Climate Change” in The Carbon Yearbook: the annual review of business and climate change. ENDS, London 2009.
J. W Moore, Anthropocene or Capitalocene?: Nature, History, and the Crisis of Capitalism, PM Press, Oakland, CA 2016.
*In copertina: Lago del Miage in secca. Val Vény, estate 2019 (Foto dell’autrice).
Note
- Il concetto di Antropocene – che, va ricordato, non trova consenso unanime tra gli studiosi e i ricercatori che si occupano di questioni ambientali ed ecologico-politiche – si presta ad alcune riflessioni critiche interessanti e promettenti. Tra queste va citata la tesi sul Capitalocene di Jason W. Moore, che ha sostenuto come il capitalismo non “abbia” un regime ecologico, ma di fatto “sia” un regime ecologico, ovvero un modo specifico di organizzare la natura. La “questione ambientale” viene solitamente considerata come una conseguenza del capitalismo, mentre invece ne sarebbe una dimensione costitutiva, nel senso che il capitalismo ha fondamento — anche — sulla subordinazione della natura in senso lato, umana e non-umana, alle necessità della produzione e accumulazione di ricchezza.
- L’IPCC è il foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, allo scopo di studiare il riscaldamento globale.