Antonietta De Lillo racconta la sua avventura cinematografica e il suo punto di vista sulla legge cinema.
Antonietta De Lillo, napoletana, si è laureata al Dams di Bologna e ha lavorato come giornalista pubblicista, fotoreporter e assistente operatrice in produzioni televisive e cinematografiche. Nel 1986 ha esordito alla regia con Una casa in bilico, vincitore del Nastro d’Argento come miglior opera prima.
Anche i suoi documentari degli anni novanta (tra cui Matilda, Angelo Novi fotografo di scena, Promessi Sposi, La notte americana del dr. Lucio Fulci, Ogni sedia ha il suo rumore, Racconti di Vittoria) sono stati premiati in diversi festival. Del 1997 è I Vesuviani, composto da cinque episodi (gli altri sono diretti da Pappi Corsicato, Antonio Capuano, Stefano Incerti e Mario Martone). Con Il Resto di Niente (2004) ha vinto tre David di Donatello e il Premio Flaiano per la sceneggiatura. In seguito ha fondato marechiarofilm, casa di produzione e distribuzione indipendente con cui ha realizzato Il pranzo di Natale – film partecipato (2011), La pazza della porta accanto – Conversazione con Alda Merini (2013), Let’s Go (2014) e Oggi insieme domani anche film partecipato (2015). A dieci anni dalla sua fondazione, marechiaro si sta dedicando ad un nuovo film partecipato, L’Uomo e la bestia, che riflette sul rapporto tra uomini e animali.
Ho deciso di realizzare il mio primo film in seguito a un incidente in motorino. Un ufficiale giudiziario mi era venuto addosso e, pensando che avrei avuto un sacco di soldi dall’assicurazione, insieme al mio compagno di allora Giorgio Magliulo decidemmo di fare il nostro primo film. In realtà i soldi dell’assicurazione non arrivarono mai e capii che la verità giudiziaria va costruita pezzo per pezzo, cosa che anni dopo fu preziosa per darmi consapevolezza quando dovetti affrontare le controversie riguardanti la distribuzione de Il Resto di Niente. Comunque, riuscimmo lo stesso a realizzare nel 1985 Una casa in bilico, esordio molto felice, candidato ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento come migliore opera prima e vincitore di un Nastro d’Argento promozionale.
Da allora è iniziato un lungo cammino di produzione indipendente, nel senso autentico del termine, che dal 1990 al 2003 ha coinciso con l’esperienza di Megaris, società di produzione fondata da me, Giorgio Magliulo, Assia Calabrese, Paola Capodanno e Giogiò Franchini con fondi previsti della legge 44 del 1986 per l’imprenditoria giovanile.
I dieci anni e più di Megaris sono stati anni in cui era possibile sperimentare e diventare palestra per altri colleghi come Antonio Capuano, Pappi Corsicato, Mario Martone. C’era un’atmosfera di solidarietà anche tra le varie realtà produttive infatti, ad esempio, partecipammo a Morte di un matematico napoletano di Mario Martone, prodotto da Teatri Uniti.
Nel 2003, un po’ anche per motivi personali, l’esperienza di Megaris si è conclusa. Fino ad allora il mio cammino artistico e produttivo è stato caratterizzato dalla realizzazione di film liberi e indipendenti, che riuscivano a essere realizzati grazie a un po’ di fondi pubblici, la partecipazione della troupe, qualche fondo privato, piccoli anticipi da distribuzioni indipendenti come Mikado e venditori esteri. Insomma, il piano finanziario dei film si componeva di più elementi diversi tra loro. C’era spazio per diversi tipi di film, commerciali, culturali, sperimentali e tutti i tipi di pubblico trovavano il proprio cinema di riferimento.
Grazie a Megaris, che è stata tra le prime società ad essere dotata di attrezzature digitali, abbiamo iniziato a lavorare anche su formati diversi, videoritratti, documentari, riprese di spettacoli teatrali come Rasoi di Servillo e Martone. Eravamo convinti che anche questi prodotti si potessero realizzare non solo con professionalità ma anche con una personalità autoriale.
Tutto questo era possibile perché una parte dei fondi pubblici era destinata effettivamente ad autori giovani e non, o comunque a chi si occupava di cinema culturale di interesse di festival prestigiosi e che si riferivano a un circuito, allora in espansione, di cinema d’essai. Il cinema mainstream non si interessava proprio ai fondi ministeriali se non per quanto riguardava la parte – probabilmente la più rilevante – dei contributi sugli incassi. Per i veri indipendenti rimaneva una quota di fondi del Ministero e questo consentiva a persone come me che provenivano da tutt’altro mondo – mio padre era impiegato di banca e mia madre casalinga – di fare questo lavoro se avevano la giusta capacità, tenacia e passione.
L’esperienza di Megaris ha significato anche sperimentare la possibilità di lavorare con un gruppo di persone legate non solo da un sentimento di appartenenza territoriale, che ancora oggi non ho abbandonato, ma da una comunanza professionale e generazionale. Eravamo nati, cresciuti e ci eravamo formati insieme. Una comunanza culminata nel film I Vesuviani che è stato un film sicuramente imperfetto ma anche molto equivocato dalla critica. Noi cinque – Capuano, Corsicato, Incerti, Martone ed io – lo avevamo visto come un modo di stare insieme attraverso un tema comune, quello della favola, e affrontato tutti con pudore e leggerezza, senza quel peso che poi ha pervaso il film: l’aspettativa di un capolavoro, di un manifesto del cinema napoletano.
Comunque, all’inizio del nuovo millennio per me è cambiato tutto e penso che sia cambiato tutto anche nel sistema cinematografico. Io forse l’ho vissuto in maniera più brusca e traumatizzante e con un po’ di anticipo rispetto ad altri colleghi registi e produttori. Con ormai alle spalle una carriera abbastanza prestigiosa dal punto di vista dei riconoscimenti, della partecipazione ai festival e delle opinioni della critica, anche se non coronata da un riscontro commerciale, mi accingevo a fare il mio primo film in una struttura produttiva esterna. Ed è stato allora che mi sono trovata in un mondo per me completamente alieno.
Avevo incontrato Laura Cafiero, una giovane produttrice a me coetanea, alla quale avevo affidato il mio progetto tratto dal libro Il Resto di Niente di Enzo Striano, di cui avevo acquistato i diritti. Dopo aver ottenuto un cospicuo finanziamento pubblico il progetto del film, vincolato alla mia regia, è stato venduto senza il mio consenso a un’altra produzione. Le regole del gioco erano cambiate e quello che a me sembrava un atto speculativo e violento nei confronti di un progetto culturale allora era diventato possibile.
Così è iniziata l’avventura produttiva del mio film Il Resto di Niente, che meriterebbe un racconto a parte e che ha sofferto a causa di un rapporto molto faticoso con una società di produzione costantemente sull’orlo del fallimento e del tutto estranea a me e al progetto artistico che avevo in mente.
Dal punto di vista creativo e umano però Il Resto di Niente è stato anche un film estremamente felice che, nonostante la strada piena di ostacoli, è la conferma di quanto il cinema italiano abbia in tutti i settori della filiera figure di eccellenza – non voglio citare nessuno perché bisognerebbe citare tutti – apprezzate in tutto il mondo. Insomma, è stata un’esperienza dura ma fatta anche di condivisione e solidarietà che dopo sette anni di fatica ci ha permesso di finire il film prima del fallimento della produzione.
Così nel 2004 alla 61ª Mostra del Cinema di Venezia è nato Il Resto di Niente, con al fianco la troupe e oltre cinquanta attori che sono venuti a spese proprie ad accompagnare il film.
Ricordo che in conferenza stampa sono stata felice che il film dopo il lungo tempo passato nel buio della moviola – abbiamo avuto anche i sigilli – avesse visto la luce in un festival così prestigioso e mi sono augurata che dopo i proiettori di Venezia potesse tornare al buio delle sale cinematografiche e incontrare il pubblico. Così fu.
Ad aprile 2005 il film uscì in venti copie. Le sale iniziarono a chiedere per iscritto di avere delle copie in più per soddisfare la richiesta del pubblico ma nonostante i miei sforzi nessuno si adoperò per soddisfare questa richiesta, facendo nascere un conflitto giudiziario tra me e le istituzioni che ancora oggi non si è concluso. Ma anche questo meriterebbe un capitolo a parte.
Dal 2005 ad oggi mi sono sentita intrappolata in una rete di regole per me spesso prive di senso e che purtroppo, anche a prescindere dalla mia vicenda personale, mi sembrano governare il settore dell’audiovisivo andando in un’unica direzione: facilitare pochi gruppi privati, uniformando il mercato culturale ad un unico tipo di prodotti e privando di fatto gli spettatori, che dovrebbero essere i nostri principali interlocutori, del loro diritto di scelta.
Insomma, se prima del 2000 le istituzioni sembravano avere una mission più culturale e di avanscoperta, in questi ultimi anni e soprattutto con l’incalzare della crisi hanno iniziato a guardare a un numero di interlocutori sempre più ristretto, sostenendo quasi esclusivamente un tipo di cinema mainstream, commerciale e spettacolare. È diventato un sistema fatto di pochi grandi attori e tutti connessi, un sistema in cui o sei dentro o sei fuori.
Per quanto riguarda la nuova legge cinema in vigore dallo scorso gennaio, spero di sbagliarmi ma mi sembra riconfermare un sistema che premia solo pochi. Cerco di spiegarmi meglio. In primis i fondi automatici sia per il cinema che per l’audiovisivo – in particolare le serie televisive – facilitano chi più produce e non il piccolo e medio imprenditore.
I fondi selettivi invece sono solo il 18% delle risorse stanziate e tra l’altro comprendono anche finanziamenti a enti importanti e onerosi quali il Centro Sperimentale di Cinematografia, la Mostra del Cinema di Venezia, il Museo del Cinema di Torino (Fondazione Prolo), l’Istituto Luce e la Fondazione Cineteca di Bologna. Questo evidenzia la tendenza sempre più frequente delle istituzioni di prendere parte dei finanziamenti destinati ai privati del settore per finanziare altre grandi istituzioni.
È evidente quindi gli enti pubblici, per nostra sfortuna investiti più di noi dalla crisi economica, tendono ad adottare delle politiche di riassorbimento delle risorse pubbliche e quel che resta per l’altro cinema è veramente poco. Quasi niente, mi verrebbe da dire. Il resto di niente, come si dice a Napoli.
E questo poco che rimane del fondo selettivo viene orientato prioritariamente ai giovani, che sono un’enorme risorsa e chiunque mi conosca sa che io per prima ho sempre lavorato con i giovani, però sono anche fragili per la loro poca esperienza. Quindi spesso accade che non appena il loro talento viene riconosciuto in qualche occasione la rete di questo sistema li conquista e quasi in maniera inconsapevole li fagocita.
La triste conclusione è che tutto ciò non solo impoverisce il livello culturale del nostro Paese ma anche quello economico. Mai come in questi anni il cinema mainstream è stato in preda alla crisi. I distributori e gli esercenti impongono i loro prodotti ma il pubblico non li premia, costringendoli a essere sempre più sostenuti da soldi pubblici. Questo è un sistema che non crea né innovazione né mercato, che insegue le mode invece che crearne. Mentre anche il mercato ha sempre dimostrato che gli autori quanto più sono personali e innovativi, tanto più sono apprezzati. È l’unicità che viene premiata in un settore culturale e artistico, non certo l’omologazione.
In questi ultimi anni insieme a marechiarofilm ho ideato e realizzato il film partecipato, un progetto condiviso, sperimentale e unico in Italia per le sue caratteristiche, che ci ha dato molte soddisfazioni. Siamo riusciti a realizzarlo nonostante tutto, fuori dal sistema e, anzi, con un sistema molto spesso avverso, ed è stata anche l’occasione di avere un osservatorio inedito sui nuovi autori e le nuove realtà, anche distanti geograficamente dal cinema “romanocentrico”. In questo osservatorio ho constatato con sorpresa e felicità che in maniera sotterranea si stanno muovendo delle realtà che mostrano grande vitalità e originalità e nelle quali intravedo la possibilità del rilancio di un cinema davvero innovativo, indipendente e personale.