Appunti dal Giappone, 9 anni dopo lo tsunami

Educare alla prevenzione dei disastri attraverso il racconto nei luoghi di memoria.

Il terremoto che ha colpito il Nordest del Giappone l’11 marzo 2011, provocando lo tsunami che ha devastato oltre 400 chilometri di costa, è noto all’estero soprattutto come il disastro di Fukushima. Anche in Italia la memoria del disastro, costato la vita a circa 20.000 persone, è legata al solo incidente nucleare. La vastità dell’area colpita dallo tsunami è divisa tra le prefetture di Fukushima, Miyagi e Iwate. La forza delle onde si è spinta diversi chilometri all’interno del territorio, distruggendo interi paesi nell’arco di 30 minuti. Il disastro ha fatto saltare tutti gli schemi di prevenzione e rimesso in discussione i protocolli di evacuazione in caso di tsunami, evidenziando le mancanze del sistema.

Un esempio è la scuola elementare di Okawa, nel territorio della città di Ishinomaki. Sebbene il plesso scolastico si trovasse a poca distanza dal fiume Kitagawa, l’oceano distava circa 4 chilometri e, per questo motivo, l’evacuazione in caso di tsunami non era prevista dal manuale per le emergenze.

Scuola Elementare di Okawa. Foto Flavia Fulco, 2017.

Quando alle 14:46 dell’11 marzo è stato avvertito il terremoto, gli studenti sono stati portati nel cortile della scuola come previsto dal protocollo. Scattata l’allerta tsunami, alcuni genitori sono passati a prendere i figli a scuola. Gli studenti rimasti erano 78, più 11 insegnanti. Il preside quel giorno non si trovava a scuola; è stata questa particolare circostanza, unita all’assenza di una procedura di evacuazione  in caso di tsunami, a causare confusione nella gerarchia di comando, e nessuno degli insegnanti presenti si è preso la responsabilità di evacuare la scuola.  

Dopo il terremoto si sono succedute le allerte per lo tsunami. Pur avendo ascoltato i comunicati diffusi dagli altoparlanti in tutta la zona e le esortazioni sia delle forza dell’ordine che dei cittadini del vicinato a evacuare al più presto, gli insegnanti hanno temporeggiato sul da farsi. 

Se da un lato l’edificio scolastico è a poca distanza dal fiume, dall’altro è vicino a una collina dove i bambini venivano portati periodicamente a raccogliere funghi. Nelle zone del Giappone particolarmente soggette al rischio di tsunami è nota la prassi di evacuare in luoghi elevati. Alcuni studenti hanno chiesto di essere portati lì ma, secondo alcune testimonianze, sono stati rimproverati dagli insegnanti che hanno continuato a tenerli nel cortile.

Solo un minuto prima che lo tsunami colpisse la zona (15:37), gli insegnanti hanno fatto abbandonare il cortile, non per salire sulla collina, ma per andare verso il ponte sul Kitagawa, nella direzione cioè dello tsunami. Difficile stabilire se e quale fosse la meta di quest’evacuazione tardiva. I fiumi, in caso di tsunami, sono veicoli di risalita dell’acqua che, trasportando detriti di varia natura, acquista velocità. La scuola elementare Okawa è stata colpita due volte: prima dalle onde che hanno risalito il fiume incontrando come ostacolo un lungo ponte carrabile, e poi dalle onde provenienti direttamente dal mare.

Ulteriori tsunami si sono succeduti tutta la notte. Per 74 bambini e 10 insegnanti non c’è stato scampo. Solo 4 bambini si solo salvati in modo fortunoso, mentre l’unico insegnante sopravvissuto non è stato in grado di fornire una spiegazione rispetto al suo salvataggio e, adducendo motivazioni di stress post-traumatico, si è rifiutato di incontrare le famiglie degli studenti e fornire spiegazioni su quanto accaduto.

Kataribe sulla collina adiacente alla Scuola Elementare di Okawa. Foto: Flavia Fulco, 2020.

A raccontare la storia della scuola di Okawa, sono ancora oggi alcuni dei genitori dei bambini che hanno fondato la Okawa Densho no Kai, un’associazione che si occupa di tenere viva la memoria dei bambini raccontando l’incidente della scuola, l’unica dove gli studenti hanno perso la vita mentre si trovavano sotto la supervisione delle istituzioni. L’associazione dal 2016 organizza delle visite guidate al luogo dove si trovano le rovine della scuola per raccontare la verità sull’accaduto.

Lo storytelling del disastro, kataribe in giapponese, è una pratica molto diffusa nelle comunità del Nordest del Giappone colpite dallo tsunami. In realtà si tratta di una tradizione culturale ben più antica che unisce elementi legati alla storia locale con i fatti relativi ai disastri più recenti. Nel caso dell’associazione dei genitori della scuola Okawa, alla quale partecipa un numero ristretto di famiglie delle vittime (soprattutto i padri), l’attività è iniziata con lo scopo di contrastare il crescente numero di visitatori che ricevevano informazioni non corrette, spesso da guide improvvisate, su quanto avvenuto quel giorno.

I kataribe di Okawa, infatti, ci tengono a dire che hanno iniziato proprio per questo: “Come adulti risparmiati al disastro, non potevamo solo piangere, ma era nostro dovere darci da fare da adulti.” Il loro racconto si incentra su quanto accaduto nei 51 minuti trascorsi tra il terremoto e lo tsunami, alla ricerca di una verità impossibile da determinare, così come impossibili da determinare sono le responsabilità legali. Al termine dei tre gradi di processo, infatti, pur riconoscendo alle famiglie un indennizzo per le loro perdite, la corte suprema giapponese ha riconosciuto la responsabilità dell’incidente ai soli insegnanti rimasti vittime delle loro stesse scelte.

L’efficacia del racconto viene favorita proprio dall’esistenza delle rovine della scuola. Se in un primo momento, infatti, era stato deciso che l’edificio, fortemente danneggiato e inagibile, sarebbe stato abbattuto, in seguito alla richiesta formale di uno degli studenti sopravvissuti, a cui si sono unite le voci della comunità, il municipio e la prefettura hanno deciso di conservarlo.

Si tratta, evidentemente, di una decisione controversa: se conservare il ricordo è importante per molti, non tutti i familiari sono in grado di sopportare la vista di quel che resta della scuola.

Scuola Elementare di Okawa. Foto Flavia Fulco, 2017.

Secondo i kataribe le rovine della scuola non vanno viste come un luogo triste: nel mantenerlo vivo intendono preservare il ricordo dei loro figli che giocavano e imparavano lì, tenendo a precisare che nessuno è stato vittima dello tsunami entro le mura scolastiche. Ammettono che alcuni di loro appartenevano inizialmente al gruppo di quanti volevano che la scuola venisse distrutta al più presto.

Ma il tempo passa e il dolore si cristallizza, e si cercano modalità per negoziare il lutto. Alcune delle famiglie hanno fatto causa alla giunta municipale per come l’evacuazione fu gestita, altri non l’hanno fatto. Allo stesso modo, mentre alcuni hanno deciso di raccontare, altri si sono allontanati dall’associazione, preferendo vivere il loro dolore privatamente.

A 9 anni dal disastro, i kataribe dicono che aver conservato la scuola aiuta loro a raccontare la storia dei loro figli, che non saprebbero spiegare altrettanto bene, se questo luogo non fosse stato preservato. Come spiegare quanto vicina fosse la collina, senza permettere ai visitatori di salirci? In aprile cominceranno i lavori di consolidamento delle strutture al fine di conservarle e trasformarle in un luogo di memoria che sarà uno strumento utile per l’educazione del rischio di disastri, in particolare di tsunami. 

Kataribe alla Scuola Elementare di Okawa. Foto: Flavia Fulco, 2019.

Un altro esempio di scuola colpita dallo tsunami e destinata a essere mantenuta come luogo di memoria è la scuola elementare di Arahama, nella città di Sendai, che ha una storia molto diversa dalla precedente. Infatti, durante lo tsunami, vi hanno trovato riparo 320 persone tra studenti, personale della scuola e persone del vicinato accorse nel plesso per scampare al pericolo. Tutti sono stati tratti in salvo, grazie all’ausilio di elicotteri, entro il giorno successivo al disastro. La prontezza del personale della scuola, l’organizzazione del comitato di quartiere e un’adeguata preparazione -come per esempio le riserve di acqua al terzo piano dell’edificio- hanno permesso a tutti di salvarsi.

Da subito questo edificio, non più adibito a scuola, è stato trasformato in un luogo di memoria dove è possibile imparare la storia dello tsunami, ascoltando l’esperienza di persone direttamente coinvolte, ma anche conoscere meglio la vita del quartiere così come veniva vissuta fino all’11 marzo. Questo avviene attraverso il racconto dei kataribe e grazie alla musealizzazione dell’edificio dove sono presentati video, fotografie e oggetti destinati alla preparazione in caso di disastro.

Scuola elementare di Arahama. Foto: Flavia Fulco, 2018.

Ascoltare i racconti dei familiari dei bambini della scuola Okawa e quelli dei kataribe della scuola di Arahama fa riflettere su molti aspetti della memoria culturale dei disastri. La necessità di raccontare e tramandare gli avvenimenti storici legati ad un luogo e alle sue esperienze di disastro (che si tratti terremoto, tsunami, eruzione vulcanica, alluvione, o incendio) passa per il bisogno di negoziare l’esperienza traumatica delle persone coinvolte in modo più o meno diretto.

Se da una parte bisogna rispettare il dolore dei sopravvissuti e la memoria delle vittime, dall’altro c’è da tenere in considerazione l’esigenza di chi, raccontando la propria esperienza intende appunto mantenere vivo il ricordo delle vittime e trasformare il proprio dolore in uno strumento di educazione per chi viene dopo. Questo tipo di pratica richiede la possibilità di un dibattito rispetto ai luoghi di memoria all’interno delle singole comunità. Decidere con troppa rapidità di abbattere ogni testimonianza materiale del disastro può rivelarsi controproducente, specialmente quando la decisione viene presa dall’alto.

Considerare il trauma come un elemento che va negoziato all’interno del gruppo coinvolto, stabilendo nel tempo come integrare l’esperienza del disastro nell’identità collettiva, è un processo che dovrebbe partire dal basso, tenendo presente che i tempi della ricostruzione del tessuto sociale e psicologico di individui e comunità sono diversi da quelli della ricostruzione materiale.

Un esempio ne è l’ufficio della prevenzione disastri a Minamisanriku, sempre nella prefettura di Miyagi. Lo tsunami in quest’area ha raggiunto i 16 metri di altezza, sommergendo completamente l’edificio che ne misurava 12. Al momento dello tsunami c’erano 50 persone nell’ufficio, solo 7 sono sopravvissute, fortunosamente sulla scala antincendio esterna. Del palazzo è rimasta solo la struttura in acciaio, rossa. Voci contrarie alla possibilità di mantenerlo come simbolo dello tsunami si sono contrapposte a quanti invece chiedevano che fosse mantenuto.

La prefettura di Miyagi è intervenuta decidendo di pagare le spese di manutenzione per i primi 20 anni, in attesa che la comunità faccia i conti con il trauma e decida che posto dare all’esperienza del disastro. I lavori di ricostruzione che nel frattempo sono andati avanti, hanno incluso le rovine dell’edificio in quello che sta diventando il parco della memoria di Minamisanriku, facendo pensare che rientreranno definitivamente nel panorama della città ricostruita, anche se è prematuro fare una valutazione definitiva.

L’Ufficio Prevenzione Disastri, Minamisanriku. Foto: Flavia Fulco, 2016.

Quello che è interessante notare, invece, è il dialogo sul rapporto tra luoghi e memoria e su come mantenere viva la connessione che li unisce prima che di un luogo non resti che una reliquia materiale disconnessa dalla sua storia e avulsa alle sorti della comunità. In particolare, utilizzare la memoria come prevenzione per futuri disastri è importante soprattutto se si dà la possibilità a esempi positivi e negativi di sopravvivere coesistendo, ammettendo l’eventualità dell’errore.

Si può sbagliare, ma si deve imparare dall’esperienza e trasformarla in uno strumento d’apprendimento. Cancellare quello che è andato storto durante l’esperienza di un disastro è pericoloso perché ci rende più vulnerabili, mantenendo viva, inoltre, una narrazione parziale di un evento che con il passare del tempo rischia di non essere più compreso nella sua complessità.

Storicamente si possono trovare diversi esempi di cosa accade quando i luoghi e gli oggetti di memoria cessano di essere ricordati collettivamente. Sempre in ambito di tsunami in Giappone, fin dal passato gli tsunami venivano marcati con delle pietre monumentali poste sulla linea di inondazione. Con il passare degli anni, tuttavia, le pietre si trasformano in monumenti, le scritte diventano meno leggibili, la lingua cambia fino a farle diventare quasi incomprensibili. È allora che il messaggio che invita a prestare attenzione, perché tutto ciò al di sotto di quel livello rischia di essere inondato in caso di tsunami, viene dimenticato.

L’Italia, come paese ricco di storia e di monumenti che la testimoniano, si rivela spesso poco incline alla memoria. Si ritiene che la memoria sia rappresentata dai monumenti stessi, creando un’equazione tra storia e memoria che, al contrario, non andrebbero confuse. Nei giorni successivi a un terremoto sentiamo spesso le parole “ricostruire com’era, dov’era”. La necessità di cancellare la memoria di un disastro non voluto si trasforma così, spesso, in cantieri eterni che non la risolvono e non la tramandano, cristallizzando semmai il dolore e l’impossibilità di futuro.

Questa prassi può rivelarsi pericolosa perché scolla irrimediabilmente i luoghi dalla propria storia. Pensiamo al Colosseo, uno dei monumenti più visitati al mondo. Ogni volta che c’è un terremoto in centro Italia, a Roma sentiamo dire: “Il Colosseo sta lì da oltre 2000 anni!” come se quella fosse la garanzia che Roma sia una città esente da rischi legati ai terremoti.

Se è vero che Roma non presenta un particolare rischio sismico, quello che è andato perso del Colosseo, rendendo la sua forma così unica, è crollato in seguito a diversi terremoti avvenuti nell’arco dei secoli nell’Appennino Centrale, tra cui ricordiamo quelli del 1349 e del 1703. L’assenza di memoria condivisa dell’oggetto Colosseo trasforma Roma in una città dove la percezione del rischio sismico non è particolarmente sentita, non favorendo la diffusione di pratiche di prevenzione sismica, sia a livello individuale che istituzionale.

Veicolare la memoria dei luoghi attraverso pratiche di storytelling e di educazione al rischio in accordo con il luogo in cui si vive è una pratica che si può imparare a coltivare anche grazie alla conoscenza di quanto avviene in altre culture.

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