Non trema l’Angelo Mai davanti a feroci accuse quali l’associazione a delinquere, estorsione o violenza privata rovesciategli addosso dalla magistratura romana nell’ambito di un’inchiesta che lo vede coinvolto con il comitato popolare per la lotta della casa.
Il ritornello cantato da Manuel Agnelli degli Afterhours in “Bye Bye Bombay ” lo hai visto rimbalzare sin dal palco dove domenica 6 aprile, davanti a cinquemila persone assiepate sulla collinetta del parco di parco di San Sebastiano alle Terme di Caracalla di Roma, è rimasto esposto per ore uno striscione: “Associazione a delinquere” con la “A” aureolata, il simbolo del centro di cultura indipendente Angelo Mai Altrove.
Strano binomio: lavoro e cultura
Non è l’incoscienza che ha portato a dire “Siamo l’associazione a delinquere più bella del mondo”. È invece l’umorismo che permetteva a Brecht di impadronirsi del linguaggio del padrone per stravolgerlo dall’interno. Durante il concerto la grave accusa, tutta da dimostrare, è stata declinata in questo modo da Piero Pelù all’inizio di una piccola Woodstock durata nove ore che ha visto la partecipazione di un centinaio di artisti: «Questa associazione a delinquere» – ha detto Pelù, invitando gli «agenti in borghese presenti a riferire al Gip» che ha negato il dissequestro dell’Angelo Mai – consiste nello spaccio internazionale di idee socialmente utili che dovete assolutamente condannare. Qui si fa cannibalismo, qui si mangiano i bambini, qui si fa prostituzione minorile. Queste sono cose pericolose, le dovete assolutamente condannare. Non è possibile. Ormai avete un capo del governo che è il boy scout di Licio Gelli. E soprattutto l’Angelo Mai è un luogo dove si lavora e si fa cultura. Quindi deve stare sul cazzo».
Lavoro e cultura. Un binomio apparentemente assurdo in un paese dove vige un’anti-intellettualismo di sostanza. Questa mentalità ha accompagnato lo sviluppo del Dopoguerra nella forma di una sottocultura protoindustriale, quella del “cumenda” milanese il cui intercalare è “Va’ a lavura’”. Poi si è riflesso nella riottosità del piccolo imprenditore leghista delle valli bergamasche o venete. È tornato in auge quando Tremonti diceva che “con la cultura non si mangia”, mentre tagliava 10 miliardi di euro a scuola e università, cancellava l’Eti come “ente inutile”: una decisione che tra l’altro avrebbe trasformato il teatro Valle di Roma in un ristorantino e supermercato del biologico in stile Eataly di Oscar Farinetti, diretto da Alessandro Baricco.
“Il petrolio d’Italia”
Questo si diceva tre anni fa. Per questo il teatro resta occupato da allora. Forse erano voci, ma voci così insistenti che il progetto è stato realizzato nel frattempo al teatro Smeraldo di Milano. Andate a vederlo, per crederci. Tutto si può dire di Farinetti – la sua abitudine ad usare contratti a termine o sottopagare chi costruisce le sue cattedrali del gusto “made in Italy” – ma non che non abbia capito lo spirito dell’epoca: la privatizzazione e la commercializzazione degli spazi culturali in disuso, la loro risemantizzazione nel marketing della gastronomia prodotta da un paese che valorizza le sue bellezze. Con la cultura si mangia e si beve, eccome, a condizione che lo faccia in maniera esclusiva l’imprenditore del “made in Italy”. E l’attività di coloro che lo rendono possibile sia rimossa, estorta, alienata. Il cibo si darebbe in natura, così come la cultura, la musica, il teatro, la ricerca. Li trovi tutti sugli alberi, come in un paradiso delle merci.
Marx derideva il vecchio trucco dei capitalisti che ancora oggi continuano a spacciare il travaglio creativo, il lavoro e la cooperazione che danno vita alla merce più preziosa che c’è in Italia – la cultura, i beni culturali, i saperi – come un pacco regalo sotto l’albero di Natale. Il trucco sta nel negare la necessità di pagare il lavoro, rendendolo impossibile quando non rispetta le norme. Non quelle amministrative, bensì quelle del normale sfruttamento che deve continuare nell’anonimato. Se qualcuno prova a ribellarsi, allora il comune manda i vigili urbani, la Siae morde chi non paga le tasse. Tutto dovrebbe procedere come sempre e chi produce non riceve un euro. E quei pochi che ha vengono estorti a beneficio dei grandi nomi, i detentori dei marchi, gli “autori” riconosciuti. Così va la vita nel paradiso delle merci dove la cultura è il “petrolio dell’Italia”.
Cos’è l’auto-organizzazione
Sembra che il dioscuro di Farinetti in politica, il presidente del Consiglio Renzi, abbia proposto al suddetto oppure al presidente della Ferrari e di Italo Luca Cordero di Montezemolo un ministero al “made in Italy”. Cioè lo Stato istituzionalizza un brand di successo, a condizione di non parlare delle condizioni di chi produce quel vino o quel cibo biologicamente corretto. Farinetti, ma anche i designati dalla politica alla gestione della cultura, sono capitalisti che accentrano le filiere, e mortificano il lavoro, mentre i produttori che fanno cultura del vino – della musica, della ricerca, del cinema o del teatro – mirano alla disintermediazione, vogliono parlare con il consumatore, o meglio con i cittadini. Per farlo si organizzano in circuiti di distribuzione indipendenti. Creano nuove istituzioni come l’Angelo Mai a Roma, cercano di attivare la partecipazione, condizione essenziale per far vivere un circuito dello scambio alternativo a quello delle merci.
Questa attitudine si chiama auto-organizzazione, ed è una tradizione diffusa in Italia. Viene dagli anni Novanta, ed è ricresciuta nei centri sociali autogestiti, ma la sua tradizione è più antica. Risale all’Ottocento, ancor prima che ci fossero i sindacati e il movimento operaio. Vedeva protagonisti i conciatori di pelli, gli artigiani, soprattutto le donne di ceti e classi diverse, le operaie e le maestre di scuola che si organizzavano nelle società di mutuo soccorso, ad esempio. Mettere insieme le poche risorse, attraverso la cooperazione sviluppare l’individuo e il collettivo nel lavoro comune. Ricorrere alle casse comuni – al centro oggi dell’inchiesta per associazione a delinquere – per proteggere chi non ha casa, non ha un lavoro. Un popolo di formiche che allora, come oggi, ha un’idea chiara del “bene comune” e l’ha adottata nella vita quotidiana.
Questa attitudine negli ultimi anni si è allargata. Prima riguardava solo un discorso quasi esclusivamente militante e antagonista. Oggi si è diffusa a macchia d’olio nel quinto stato. Non riguarda solo il discorso politico, anche se la politica e l’auto-organizzazione è fondamentale. Viene praticata da chi fa il vino, chi si organizza in un coworking o in un FabLab, chi occupa le case e si ribella alla speculazione immobiliare in mancanza di una politica alloggiativa. Gli artisti, e gli attivisti politici, sono solo una parte di questo modo dilagante di interpretare la resistenza contro la crisi, l’invenzione di nuove professioni e sistemi di distribuzione dei prodotti indipendenti. Per questa ragione, davanti alla violenta criminalizzazione dell’Angelo Mai, c’è stata una risposta inaudita, straordinaria degli artisti che riconoscono l’atto della magistratura romana come un attacco immotivato ad un mondo molto più ampio dell’arte, del’intrattenimento o dello stesso attivismo politico.
Cosa succede
Succede che c’è tanto allarme al Campidoglio indebolito e goffo dove il sindaco Ignazio Marino, il suo vice Luigi Nieri, l’assessora alla cultura Flavia Barca stanno lentamente formulando ipotesi per risolvere almeno la situazione del sequestro dell’Angelo Mai. Il colpo per loro è stato duro. La magistratura è arrivata persino a stigmatizzarne la debolezza rispetto alle occupazioni e autogestioni che a Roma crescono del tutto bandite, multate, ignorate dalle autorità locali, persino da quelle che dovrebbero vedere in esse una risorsa, piuttosto che un problema. Non è solo il caso delle numerossissime occupazioni abitative. C’è anche il teatro Valle che ha pensato bene di elaborare un proprio sistema di auto-governo che imbarazza la giunta. I primi contatti sono in corso, finalmente, si vedrà con quali esiti.
Succede anche che, in maniera cristallina e tranquilla, il binomio tra lavoro e cultura che “stanno sul cazzo” hanno trovato un nuovo incastro, indipendentemente dalle regole del mercato del lavoro vigenti. Questo incastro è così scandaloso al punto che, leggendo le accuse rivolte all’Angelo Mai e al comitato popolare della lotta per la casa, oltre che le motivazioni del Gip sul rigetto della richiesta di dissequestro avanzata dal sindaco Marino, anche la magistratura travisa il senso della cooperazione e ritiene che sia la prova di un’estorsione o di una minaccia.
Nel caso specifico, l’accusa sostiene che ci sarebbero state delle persone obbligate a fare il lavoro dello spettacolo o dell’intrattenimento. In cambio sarebbero rimaste in un’occupazione abitativa. Al di là del merito di un’accusa che ha suscitato prima incredulità, e poi indignazione da parte degli interessati, la trasfigurazione in reato penale di un attitudine alla cooperazione e alla coabitazione deve fare riflettere.
Per quanto incredibile possa essere, essa colpisce violentemente una modalità non normata dalle attuali leggi sulla precarietà: l’auto-organizzazione dei professionisti sta alla base di uno spettacolo, è il fondamento del lavoro culturale sfruttato in tutte le sue forme, e in tutti gli ambiti. Si può continuare a precarizzare i contratti, come fa il Jobs Act di Renzi, colpendo e ricattando chi ha un contratto a termine, mettendolo a disposizione dei tempi e dei desideri delle imprese. Ma nessuna riforma del lavoro può modificare il modo in cui, nonostante tutto, i singoli si organizzano per fare un lavoro secondo i loro desideri o necessità.
Sanzionare l’auto-organizzazione significa colpire un lavoro necessario per organizzare un concerto simile a quello del parco di San Sebastiano dove decine di persone hanno costruito un palco, lavorando all’amplificazione, ai mixer o alle luci, senza contare la sapienza più immateriale: cantare, incastrare il riff della chitarra con la battuta del rullante. C’è poi l’allungo ossessivo della nota di basso che ha spinto ad esempio Riccardo Sinigallia a dilatare il tempo, trasfigurando la sua poetica in un happening post-rock. Duro, intenso, arrovellato in versi intimi e complicati, un’atmosfera rituale e sospesa.
È difficile sostenere la sproporzione tra l’accusa di “associazione a delinquere” e un simile processo vivente che porta alla costruzione di un evento musicale. Nasce così la rivolta, l’indignazione, lo scandalo di migliaia di persone. In realtà, tutto questo non è impalpabile. Al contrario risponde a regole o usi codificati che tuttavia sfuggono alla logica della norme o a quella dell’accumulazione capitalistica. Oggi di nuovo c’è il fatto che questi comportamenti chiedono di stabilire una nuova sistemazione amministrativa, giuridica e politica, lasciando libero il campo a quel processo che permette il funzionamento di tutto il resto.
Il mondo che c’è
È una battaglia dura sui rapporti di potere che permettono l’esistenza dello spettacolo, dell’intrattenimento, dei consumi culturali, quanto di più visibile esiste in una società costruita sull’immagine e sugli stili di vita. Alla politica, prigioniera di un’afasia mortale, non spetta solo il ruolo di ascoltare questi mondi, ma di adottare norme che ne valorizzano l’auto-organizzazione. Non basteranno soluzioni unilaterali e di comodo che rischiano di allargare i margini di arbitrio dove la collaborazione può essere stravolta persino in un reato penale. Serve piuttosto agevolare una volontà costituente che nasce tra quelli che, parafrasando Luciano Bianciardi, definiamo “quintari”.
È necessario essere in grado di riconoscere in cosa consiste tale volontà. In Italia la si vede crescere nel lavoro della conoscenza o in quello artistico dall’inizio degli anni Duemila, più intensamente forse dall’inizio della crisi. Non si uscirà dal ciclo depressivo in cui si trova l’Italia finché il mondo non avrà fatto un salto in avanti. Nel frattempo, e restando con i piedi piantati in terra, un nuovo senso del reale è già presente tra i “quintari”. Lo è in un modo così intenso e materiale che nella loro mobilità si libera una frenesia del nuovo. Resta una passione per tutto quanto è stato nel frattempo scoperto, si è dislocato o è stato percepito. Wittgenstein diceva che il miracolo per l’arte è che il mondo c’è. Ecco, questo mondo ribolle di intuizioni a cui ora bisogna dare responsabilmente un corpo.