Le tre linee della fede.
L’obiettivo di Alessandra Celesia si fa largo tra la folla di “innamorati della Madre” (la Madonna dell’Arco) e ci racconta tre storie di vita.
La ricerca della felicità. O meglio, la speranza che accada nel proprio futuro qualcosa di bello. Il bisogno tutto umano di credere in qualcuno che stia “al di sopra”, che possa guidarci, fare luce nei momenti di peggiore disperazione. Probabilmente, il volto tumefatto della Madonna dell’Arco, protagonista indiscussa – fin dal primissimo frammento – dell’ultimo film documentario di Alessandra Celesia, Anatomia del miracolo (2017), rappresenta tutto questo per i suoi devoti.
Tra la folla di “innamorati della Madre” riconosciamo volti altrettanto lividi, persone segnate nel corpo e nella mente dalla vita, da un dolore, ancorate alla fede come unica possibilità di salvezza. Ma c’è di più: Celesia si fa letteralmente largo dentro questa folla ̶ quella dei compaesani che gravitano intorno al Santuario, collocato in provincia di Sant’Anastasia ̶ e ne estrae delicatamente tre soggetti, che diventano le tre linee melodiche portanti dell’intera struttura filmica, tre diversi aspetti di quella fede che la regista intende raccontare da dentro. E da dentro, significa anche e soprattutto cominciare dal paese, da quel quartiere di fedelissimi che vive alle pendici del Vesuvio, e passa tutto l’anno ad aspettare e organizzare con apprensione il momento della processione dedicata alla Vergine in primavera, in cui il dolore privato si fa disperata preghiera, nell’attesa di un miracolo. Nell’attesa che Lei possa ascoltare quelle urla strazianti e decidere a chi rendere il Suo omaggio, rivolgendosi verso un prescelto tra la folla di sventurati venuti ad acclamarla, in mezzo a quella calca che ha del teatrale tragi-comico, o messa in scena esasperata del dolore di un quotidiano dimenticato.
La macchina da presa intende mostrare quello che la fede rappresenta oggi, per chi è devoto e per chi si professa ateo, e lo fa procedendo per somme di volti ordinari, gesti semplici e parole spontanee, proprio laddove la credenza si insinua in qualche modo, in uno spaccato di realtà che Celesia raccoglie e rielabora poeticamente. Perché questa Napoli popolare è già in sé poesia incarnata o, se vogliamo, un ritratto dai toni blu plumbeo – Le Bleu miraculeux è, appunto, il titolo originale del film ̶ in cui riconoscersi, ciascuno con la sua speranza del cambiamento.
C’è la folla di fedeli in perenne subbuglio, dunque; ma prima di tutto ci sono i singoli individui con le loro storie di sofferenza. Si comincia con Giusy Orbinato, giovane in sedia a rotelle per la quale la Vergine è davvero “una di famiglia”. Giusy è la donna nella quale si ritrova il dolore incarnato ̶ le ferite fanno parte del suo stesso corpo, il livido è prolungamento del Sé ̶ , eppure è proprio questo il presupposto per la sua incredibile forza, quello che la spinge a non credere nei miracoli, ad approcciarsi alla fede con scetticismo e solo per ricerca, a domandarsi costantemente “perché proprio io” e a rispondersi che può farcela benissimo anche così. A fronte di un corpo che non può muoversi, Giusy possiede l’elasticità della mente, l’interesse a scavare, seppure con qualche riserva, nelle ragioni dell’amore incondizionato per Maria, e questo passa attraverso il grande dono del dialogo: Giusy rappresenta, in questo caso, la linea della parola, attraverso la quale la fede si sottopone a dubbi e quesiti irrisolti, fa i conti con una razionalità che non può spiegarla, eppure la fede esiste ed esiste per molti. Ma la parola si trova qui in un incastro ideale con la ferita del corpo, con questo “bleu” che Giusy accetta senza aspettarsi troppo il “miraculeux”, e in lei diventa poesia, talvolta musica ̶ Vivere di Vasco Rossi chiude il film, perché Vasco è il suo cantante preferito e perché questo resta, in fondo, il messaggio sostanziale ̶ , ma anche forza simile a quella della Madonna, che da sempre conserva quel suo livido al volto per rendersi riconoscibile.
C’è un altro corpo nel film, stavolta prestato completamente alla Chiesa e sottomesso alla fede: è Fabiana Matarese, transessuale e devota. Fabiana viene mostrata nei momenti di maggiore spontaneità del suo quotidiano: accerchiata da familiari e bambini che la adorano; libera di discorrere in un dialetto quasi incomprensibile, che però è la sua “lingua del cuore”. Questo corpo ̶ e volto, non di rado inquadrato da vicino, assumendo le evidenti fattezze di una Madonna incorniciata ̶ è paradossalmente caldo come un ventre materno, aperto come lo spazio del mare in cui la vediamo disegnare un cuore sulla sabbia, in attesa – come tutti gli altri fedeli che cercano il loro miracolo di vita ̶ , proprio come quando aspetta l’arrivo della notte per battere le strade e ascoltare il silenzio della solitudine. Questa sarà, allora, la linea del corpo: corpo in divenire, corpo prestato alla fede, corpo della tenerezza umana; ma soprattutto, corpo in cammino verso l’amore divino, mai stanco nella costruzione della sua fortezza, eretta a partire dalle più microscopiche pratiche di vita comune.
Un’ultima linea compare nel film, probabilmente la più importante per tesserne le fila interne del discorso narrativo e ritrovarne un’organicità che, a tratti, sembra venire meno. Sue Song, musicista coreana, rappresenta l’incontro eterogeneo di volti, lingue e tipologie umane, lei che si confronta con suore e ragazzini di nazionalità così diversa dalla propria attraverso la sua arte, ma che è nello stesso tempo portatrice di memoria, con il suo viscerale legame familiare evidenziato dalla figura della sorella e dalle fotografie di casa appese alla parete. Sue ha in sé un po’ della parola di Giusy e un po’ della fede di Fabiana – con le quali, tuttavia, non si incontrerà mai –, eppure la sua ci sembra principalmente una linea del sogno, rivolta in direzione futuro: perché la vediamo immaginare un amore universale, di dimensione “altra”, forse più con Dio che con un uomo in carne e ossa; perché la sua musica diventa motore di trasformazione positiva, nella sua e nella vita delle persone che conosce, uno strumento di dialogo quando le distanze tra loro – soprattutto linguistiche – sono insormontabili; perché con lei scopriamo che il senso del vivere è proprio nel «processus de création perpétuel» che ricorda le melodie di Mozart, ossia un flusso in divenire nel quale, forse, riconoscere un pezzo di paradiso; perché, infine, Sue desidera la maternità, e tenterà di trovarla sulla santa “sedia della fertilità” dei Quartieri Spagnoli, proprio come una Madonna, prova ultima di quanto la fede oltrepassi la ragione e trovi rispondenza con i più profondi desideri dell’essere umano.
Celesia costruisce come un puzzle la sua personale “anatomia del miracolo”, facendo di questo documentario ̶ sempre sull’orlo di trasformarsi in altro, in una finzione per quanto vera, proprio come la fede ̶ un corpo sezionato in parti tutte uguali e diverse, tutte membra di questa fede nella Madonna dell’Arco che traduce il sogno di rinascita di ciascuno.
Che cos’è, allora, un miracolo? È il tessuto in cui si trovano inspiegabilmente intrecciate Giusy, Fabiana e Sue, in questa loro difficile umanità; è la strada della ricerca, della credenza e della speranza che, rispettivamente, esse rappresentano e calcano ogni giorno della loro vita. O, come dice Sue, forse è semplicemente un riflesso di paradiso, venuto a interrompere per un attimo quel canto-vita che l’uomo spesso non (ri)conosce, smarritosi tra gli scetticismi e le delusioni della sua semplice esistenza terrena.