Americana. Storie da un Paese che cambia

Cosa sono e dove vanno gli Stati Uniti? Inizia oggi uno speciale a più voci dedicato alla “più grande democrazia del mondo”, per cogliere i sintomi e gli effetti ad ampio spettro delle profonde trasformazioni che la stanno attraversando.

Il secondo lunedì del mese di ottobre negli Stati Uniti si festeggia Columbus Day. Una festa nata per commemorare la “scoperta” del continente americano da parte del navigatore genovese, ma che negli ultimi anni sta incontrando un crescente dissenso a causa della dimensione coloniale – fondata sul genocidio delle popolazioni native – che quella scoperta ha tragicamente comportato. Questa eredità ambigua e controversa che unisce Stati Uniti e Italia è il sintomo di una rilettura della storia moderna tesa a mettere in luce gli aspetti drammatici rimasti a lungo nascosti nelle pieghe di una narrazione teleologica e ottimistica legata all’idea di progresso. Una tradizione, quella coloniale, che coinvolge la relazione che l’Europa prima e quel grande coacervo chiamato Occidente poi intrattengono con il resto del mondo e che giunge oggi a mettere in questione le responsabilità passate e presenti delle disuguaglianze economiche e dei conflitti che segnano ampi territori della nostra realtà.

Guardare oggi alla situazione interna statunitense è un modo obliquo per affrontare una serie di questioni cruciali nella comprensione degli scenari globali futuri a partire da una prospettiva circoscritta, localizzata e tuttavia sufficientemente ampia da porre domande di ordine più generale. Significa indagare le persistenti segmentazioni sociali ed etniche al di là della retorica dello sviluppo e del benessere; significa interrogare le dinamiche memoriali fondate sulla pacificazione offerta dai vincitori e sull’oblio; significa anche affrontare le strategie governamentali legate al plesso paura-terrore; significa infine ripensare lo spazio e l’estensione dell’azione del “patto atlantico” per gli anni a venire, di fronte all’odierna riconfigurazione cangiante dei rapporti di forza su scala mondiale.
Ma l’analisi dello stato della democrazia americana – nei suoi epicentri come nelle sue zone di confine – è soprattutto un tentativo di osservare attraverso uno sguardo esterno ed eccentrico le somiglianze e le differenze tra le due sponde dell’Atlantico. La prospettiva comparata può infatti aiutare a capire meglio quali scenari attendono l’Europa, e l’Italia in particolare, di fronte alla presunta crisi del modello che negli ultimi vent’anni ne sta fortemente orientando le politiche e le forme comunitarie.

Perché iniziare ora un percorso attraverso gli States, al di là delle coincidenze del calendario? Perché gli Stati Uniti d’America sono in grande trasformazione. E se questa è una costante degli USA, i cambiamenti sociali e politici degli ultimi recentissimi anni danno l’impressione che ci sia stata un’accelerazione in processi in atto da decenni i cui nodi sono però venuti al pettine in maniera esplosiva. Dalla costante e progressiva de-industrializzazione (e spopolamento) di ampie aree del Paese, soprattutto nel Midwest, ai fenomeni migratori dai Paesi latini a sud degli USA e alle politiche di accoglienza di quelli che arrivano dal Medioriente e altre zone di guerra, fino alla rabbia dei giovani neri esplosa in maniera apparentemente improvvisa.

L’elezione di un presidente poco presidenziale come il tycoon Donald Trump è l’epifenomeno, il punto di arrivo di cambiamenti radicali che investono il Paese? Oppure, al contrario, è l’inizio di grandi sconvolgimenti, già avviati o ancora impossibili da scrutare? Innegabilmente, qualunque sia l’interpretazione che se ne dà, la notte elettorale del 4 novembre 2016 e la successiva proclamazione del presidente il 20 gennaio 2017 sono stati eventi decisivi nella storia degli Stati Uniti, le cui ripercussioni sono ben lontane dall’essere ancora pienamente delineate nell’orizzonte di una razionalità storica.

L’obiettivo di questo “laboratorio americano” è provare a tracciare dei confini e delle linee di sviluppo di questa razionalità, a partire da quello che sta attorno al fuoco visivo e/o ai margini dell’ordine discorsivo, indagando le forme meno appariscenti di intelligibilità dei cambiamenti (presunti o reali) che hanno investito la società americana, peraltro a dieci anni dall’inizio della crisi economica globale. Chiederci, una volta di più, cosa resta del Paese che maggiormente ha orientato la storia del Novecento adesso che questo nuovo secolo ha visto l’emergere prepotente di nuove potenze economiche, politiche e anche culturali. Bisogna ancora guardare verso l’America per capire dove va il mondo? Cosa sta cambiando in questa grande ed eterogenea nazione in relazione a una memoria e a una storia la cui interazione è così particolare? Come si affaccia, sotto la guida di Trump, alle sfide del mondo di oggi?

A questo insieme di questioni di merito pensiamo che sia inoltre fondamentale affiancare anche una riflessione – esplicita o implicita – su alcuni interrogativi di metodo; quali strumenti analitici possiamo prendere a prestito dall’esperienza europea, e italiana in particolare, per comprendere l’evolversi delle politiche e delle forme di resistenza statunitensi in merito, ad esempio, a processi migratori e contrapposizione al neofascismo? O al contrario, cosa possiamo trarre dalla situazione americana per ripensare le forme e le strategie comunitarie in Europa?
“Americana” sarà un cantiere aperto di discussione e approfondimento che Il lavoro culturale avvia oggi, Columbus Day, per concludersi, almeno provvisoriamente, a fine gennaio 2018, in concomitanza con il primo anniversario dell’amministrazione Trump. Si tratterà di uno speciale multimediale, con inserti fotografici e filmici, e con stili diversi, dal classico reportage all’analisi di un tema specifico, che ospiterà sguardi eccentrici (in termini tanto geografici quanto prospettici) sulla realtà statunitense contemporanea.

Sguardi eccentrici che saranno prevalentemente – benché non solo – “stranieri”, in qualche modo ripensando quel percorso che 525 anni fa portò Cristoforo Colombo a scoprire o conquistare, a seconda della prospettiva adottata, le Americhe. Una nuova scoperta (o appunto conquista, a detta di chi percepisce i movimenti antropici come minaccia) dettata dal fatto che gli Stati Uniti sono ancora un punto di riferimento e attrazione per forza lavoro qualificata che in Europa – e in Italia più che altrove – fatica a uscire dalle sabbie di un precariato che non sembra subire rallentamenti né tantomeno inversioni di rotta.

Questo sarà l’ultimo grande punto di interrogazione: quale e quanto “supplemento di intensità” conterranno tali sguardi per cogliere gli aspetti dormienti della superficie del visibile? Era una domanda che si poneva già Roland Barthes nella famosa lettera indirizzata a Michelangelo Antonioni, uno dei primi a cimentarsi nel tentativo di cogliere cognitivamente il Nuovo Mondo nel 1970 con Zabriskie Point, sulla scia della grande rivoluzione culturale che dalla West Coast si era propagata rapidamente nel Vecchio Continente, contribuendo al suo provvisorio ringiovanimento.

Non pensiamo affatto che il supplemento di intensità che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi proveremo a dispiegare sarà in grado di far deflagrare la società dei consumi, come nella celebre sequenza finale del film; semplicemente, ci auguriamo almeno che nella messa in rilievo degli intricati intrecci della storia, della memoria e del presente si allarghi lo spazio per una riconsiderazione critica delle politiche del contemporaneo.

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