A differenza del capitano Achab in “Moby Dick”, il soldato Kyle di “American Sniper” non è un eroe tragico, sopraffatto dalle proprie ossessioni: semmai un infallibile guerriero, esonerato da un destino cinico da ogni possibile responsabilità individuale.
«Time has come to go to war», erano le parole con cui si apriva America oggi (Short Cuts) di Robert Altman; a pronunciarle uno dei protagonisti, di professione editorialista televisivo, a proposito di una vorace mosca della frutta che infestava il territorio losangelino. Era il 1993 e il ricordo della Prima Guerra del Golfo era ancora vivido, sin troppo a ridosso dalla caduta di quel Muro di Berlino che prometteva di determinare la “fine della storia” e con essa di ogni guerra. Un ennesimo conflitto, suggeriva Altman, coinvolgeva invece ancora gli Stati Uniti, combattuto per la prima volta dopo secoli direttamente sul territorio americano, ben prima dell’11 settembre 2001: anche allora, l’attacco all’America veniva dal cielo, senza distinzioni tra obiettivi civili e militari.
Il crollo delle Torri Gemelle e il conseguente stato di guerra ininterrotto che caratterizza la politica americana del terzo millennio ha dato tragica conferma all’ironia altmaniana, originando un prolifico immaginario che a livello simbolico ha sostituito la sindrome del Vietnam e l’ingente produzione cinematografica e letteraria ad essa dedicata.
È in questa cornice post-traumatica che si inserisce American Sniper, ultima opera di Clint Eastwood, tratto dall’omonima autobiografia del tiratore scelto Chris Kyle, secondo le statistiche il più efficiente – o letale, a piacere – cecchino della storia dell’esercito americano. Un film biografico, anzitutto, che sancisce ulteriormente la predominanza del genere nella cinematografia contemporanea, e conseguentemente una vita “degna di essere raccontata” quella del soldato Kyle, distintosi per meriti sul campo e assicuratosi un posto nella storia patria. I suoi soprannomi lo testimoniano ampiamente: “The Legend” per i compagni, “al-Shaitan” per i nemici.
Una dimensione mitica che sembra scandirne l’esistenza: cow-boy di provincia, dedito ad alcol, rodei e saltuariamente donne, avverte un giorno la sua vocazione grazie alle immagini televisive degli attentati alle ambasciate di Nairobi e Dar es Salaam, facendo della propria indole da “cane da pastore”, come recita l’insegnamento paterno, una missione di vita.
Ma questo senso di giustizia e desiderio di protezione verso gli altri si tramuterà, nelle sabbie irachene, in un’ossessione personificata da un alter-ego rovesciato, un’infallibile cecchino siriano già campione olimpico nel tiro al bersaglio e arruolatosi con le milizie jihadiste di Al-Zarqawi. Solo una volta sconfitti i propri fantasmi, Kyle potrà tornare anima, mente e corpo dalla propria famiglia, sacrificata per troppi anni a un dovere superiore da portare a compimento.
Di fronte al racconto delle gesta di questo eroe americano, sorprende in Eastwood l’assenza di quelle componenti “poli-prospettiche” che hanno segnato il suo cinema, dal dittico sulla battaglia di Iwo Jima a Gran Torino, appiattendo le vicende belliche sulla logica del “male minore”, così come sono ugualmente lontani gli echi di una numerosa produzione audiovisiva che sulla guerra al terrore ha riflettuto a lungo. È soprattutto l’univocità del punto di vista a restituire una lettura congelata degli eventi, ipostatizzata dal monocolo attraverso il quale Kyle (e noi con lui) inquadra il mondo.
Se lo sguardo si situa all’incrocio di due linee, come Marco Dinoi propone citando tra gli altri la sequenza centrale di Private di Saverio Costanzo, in American Sniper tale sdoppiamento si perde attraverso il rifiuto di ogni soggettiva alla controparte, al contrario enfatizzando ogni sovrapposizione scopica tramite la riproduzione dei filtri e delle marche degli strumenti di visione, vere e proprie cornici entro la cornice.
La struttura che viene a comporsi definisce così il privilegio accordato allo spettatore non più nei termini di una competenza superiore rispetto ai personaggi del racconto (à la Hitchcock), ma piuttosto come condivisione in esclusiva di un sapere specialistico e unico: l’occhio del cecchino è infatti infallibile, per gittata e profondità, a livello percettivo e cognitivo. E, di conseguenza, lo è la sua mano. Non sbaglia durante il battesimo del fuoco, quando decide in piena solitudine di uccidere un bambino e la madre pronti a scagliarsi con una granata addosso ad una pattuglia di marines. Non fallisce nemmeno alla resa dei conti finale, quando da una distanza siderale fredda il rivale, attraverso un enfatico ralenti della pallottola appena scoccata, vendicando così i compagni caduti per sua mano: e sarà proprio lì, avvolto da un’apocalittica tempesta di sabbia, che maturerà finalmente la decisione di rientrare in patria.
Ma mentre la mente è fredda, palpita forte il cuore del nostro eroe: ogni colpo è infatti meditato, extrema ratio di fronte a una ferocia avversaria che non esita a servirsi di donne e bambini per farsi scudo. O che non indulge a sacrificarli per mera vendetta: il trapano del “Macellaio” è una minaccia costante pronta ad abbattersi sulla popolazione inerme. Al contrario, non vi sono errori di valutazione da parte dell’esercito americano: ogni violenza è sempre giustificata retroattivamente, secondo un determinismo teleologico che poco o nulla riflette il caos informe della palude irachena.
Rispetto a Nella Valle di Elah (In The Valley Of Elah) di Paul Haggis o Redacted di Brian de Palma, che mettevano in scena le atrocità della guerra attraverso delle immagini alle quali fornire una rinnovata configurazione discorsiva e dunque in attesa di essere autenticate, così come propone Pietro Montani, in American Sniper non vi sono faglie che possano gettare una luce diversa sul racconto dei fatti, sia ufficiale che finzionale.
Le uniche immagini di repertorio stimolano infatti una risposta automatica, non mediata, da parte del protagonista, come gli attentati in Kenya e Tanzania e il crollo delle Twin Towers, oppure chiudono la narrazione con funzione monumentale, presentando infine il volto reale di Kyle attraverso alcune fotografie: in entrambi i casi, è la rielaborazione critica di un materiale d’archivio a essere tralasciata per dare risalto alla presunta trasparenza auto-evidente della quale si fa portatore il documento.
Funerali di stato chiudono allora giustamente il film, come si addice a chi muore in servizio, per quanto non più militare ma civile: coprire le spalle ai propri commilitoni è un impegno morale, anzitutto, tanto sul campo di battaglia quanto nel difficile reinserimento nella vita quotidiana. Non un eroe tragico, sopraffatto dalle proprie ossessioni come Achab o sacrificatosi per una coesione comunitaria come Walt Kowalski, semmai un infallibile guerriero, esonerato da un destino cinico da ogni possibile responsabilità individuale.
Ma ciò è possibile in quanto le vicende del conflitto non intaccano l’integrità né della mente né del corpo di Kyle, a differenza di tanti veterani, incluso colui che gli darà la morte nel 2013: l’eroe non è portatore del germe post-bellico, contrariamente al giovane Mike nel film di Haggis, al Sam Cahill di Brothers di Jim Sheridan, o al sergente Brody nella serie Homeland.
Lo spazio della comunità e l’inviolabilità del suolo americano non sono minacciati da questo reduce fuori dall’ordinario, che dopo un fisiologico periodo di decompressione ritrova appieno la propria funzione sociale di padre, marito e cittadino. E in effetti, per chi si prometteva di impedire ai terroristi di raggiungere San Diego o New York, l’obiettivo è pienamente raggiunto: la guerra rimane una faccenda lontana, che ci tocca forse negli affetti ma che non esperiamo mai in prima persona.
Una conclusione che, in una singolare coincidenza con i fatti accorsi a Parigi nella sede del settimanale «Charlie Hebdo», riporta nuovamente in primo piano la questione dell’anestetizzazione di fronte al dolore degli altri alla quale sono soggetti i cittadini dell’Occidente libero e in pace: la guerra è una tragedia e tuttavia inevitabile, purché non si consumi nel mio cortile.
Ben oltre le retoriche contrapposte emerse in seguito al massacro parigino, resta il fatto che l’irruzione di un reale lontano dalle rassicuranti cornici mediatiche ci colpisce e ci sconvolge, testimoniando la distanza tra gli eventi e la loro rappresentazione normalizzata: e proprio qui, nella mancanza di problematizzazione della propria dimensione intermediale, il film di Eastwood trova il suo fallimento più attuale.