La vita ai tempi dell’alternanza scuola lavoro

Una recensione all’ultimo libro di Roberto Ciccarelli sull’alternanza scuola lavoro, del quale abbiamo pubblicato un estratto dall’introduzione.

Stati Uniti, anni ’80 del XX secolo, un sabato mattina qualunque. Un gruppetto di ragazzi e ragazze vaga per un edificio scolastico deserto, alla ricerca dell’aula dove troverà il giusto castigo per una condotta non impeccabile: sarà costretto a comporre un tema su cosa pensano di essere. Attraverso un percorso nella noia e nella ribellione al loro sorvegliante, i ragazzi scopriranno, compiendo la classica conversio da protagonisti di una commedia hollywoodiana, di essere migliori di quello che la scuola (e la società) gli ha detto di essere.     

Le sequenze inziali di The Breakfast club ci riportano nel cuore del ciclo neoliberista delle politiche economiche e sociali dell’amministrazione Reagan. Proviamo ad immaginare i protagonisti del film oggi, quarantenni. Qualunque cosa pensassero di essere diventati allora, mentre scrivevano il tema-punizione, è molto probabile che i soci del Breakfast Club siano oggi parte dell’esercito dei new poors americani. Piccoli professionisti, laureati, alla costante ricerca di un lavoretto con cui sbarcare il lunario, pagare il debito del college, stare a galla. Nella peggiore delle ipotesi insegnanti di una scuola pubblica (si veda una recente copertina del «Time»). Da soci del Breakfast Club a membri di un gruppo meno esclusivo, la società della piena occupazione precaria. Un gruppo per il quale la vita è un passaggio senza soluzioni di continuità da un lavoro sottopagato, a  un lavoretto precario, a un lavoro part time.

Nel suo nuovo libro, Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, Roberto Ciccarelli riprende le fila del discorso sulla genealogia della società della piena occupazione precaria già tracciato nei suoi precedenti lavori (da Furia dei cervelli a Forza lavoro) ripercorrendo le figure chiave di questa genealogia ed entrando nel sancta sanctorum del mondo del lavoro contemporaneo: l’intreccio senza soluzioni di continuità tra formazione ed estrazione di valore di scambio dalla forza lavoro. Ma partiamo dalle figure che ci permettono di ricomprendere la filogenesi della precarizzazione dell’esistenza. Innanzitutto il capitale umano.

Il capitale umano alla base della società della piena occupazione precaria si concentra sull’elemento soggettivo, sulla produzione della conoscenza e sulla persona (lo studente, il docente, il lavoratore bisognoso di formazione) come forza lavoro potenziale, come cellula in grado di acquisire informazioni trasformandole in conoscenze, abilità e competenze. Ciccarelli rivisita gli autori e le teorie dell’economia politica classica mostrando come, paradossalmente, dalla negazione della mercificazione dell’essere umano sia emersa la nozione di capitale umano. Secondo la prospettiva dell’economia politica «il capitale umano indica la qualità generica e propria dell’“umano”, utile per definire in futuro l’apporto dei singoli alla produzione» (p. 22). In tal senso l’istruzione, la conoscenza, il mantenimento di una condizione di salute, perfino i gusti letterari e il tempo libero fanno parte di un lavoro morale del soggetto teso a massimizzare la sua quota di competenze e capacità utili, la parte fissa del capitale umano, ciò che rende l’individuo produttivo. La decisione di diventare capitale umano non è dunque una scelta ma è il risultato di un’educazione fornita dalle istituzioni che presiedono alla valutazione e certificazione.

Tali istituzioni contribuiscono a indirizzare i comportamenti degli individui, producono una drammaturgia dell’Io compresso in un costante sforzo di auto-miglioramento, di auto-controllo e adempimento delle proprie responsabilità, convinto che l’esistenza si riduca a una questione di competizione con gli altri. Siamo al di là dei processi di subordinazione descritti da Marx. Si tratta della sussunzione vitale dell’individuo nel capitale: oltre l’inclusione delle forme del lavoro umano nel meccanismo di riproduzione del capitale si afferma lo sfruttamento di se stessi, il sogno di essere imprenditori di se stessi che si rovescia nell’incubo di «una libera capacità di sfruttarsi» (p. 36).  

È su questa tendenza totalizzante del capitale che si innesta la figura della forza lavoro. La forza lavoro come «l’insieme delle attitudini fisiche e morali che esistono nella corporeità, ossia nella persona vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni qual volta produce valori d’uso di qualsiasi genere» (Il Capitale, I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 200) è ciò che può essere sempre disgiunto dalla sua vendita. Ciccarelli ha già utilizzato questo concetto marxiano, apparentemente tanto semplice quanto sottovalutato, per decostruire le mitologie della “rivoluzione digitale”, con la sua minaccia di programmazione all’obsolescenza dell’essere umano. La grande truffa dei maghi del profitto della Silicon Valley è tutta nell’inversione del rapporto fra capitale e processo necessario a riprodurlo: è la nostra forza lavoro, lo sfruttamento della nostra personalità vivente, a muovere il turco meccanico degli algoritmi, dei social media network, dei pacchi di Amazon e delle macchine di Uber e non il contrario. Non sono questi simulacri dell’automazione a offrire alla forza lavoro il passaggio dalla potenza all’atto, dalla promessa alla realizzazione del valore d’uso, ma al contrario è il capitale a rendere marginale la forza lavoro, a ridurla a fantasma. Il data mining e la riconversione delle opzioni individuali in profitto sono i diversivi ideologici che hanno creato ulteriore confusione nel caos teorico della misurazione o quantificazione del valore a partire dal lavoro. Un caos che serve ad occultare la centralità della forza lavoro nella produzione di valore: le nostre giornate passate a tracciare strade che gli algoritmi asfalteranno e sulle quali ci ricondurranno non sono altro che produzione di valore a mezzo della nostra vita. Se infatti diviene evidente che la dimensione del valore non è più data dalla quantità di lavoro che lo produce, ma direttamente dalla personalità vivente che esprime forza lavoro, l’ideologia neoliberista dovrà escogitare nuovi artifici retorici, nuove strategie per giustificare la legittimità dell’estrazione di valore dal capitale umano.

Ed è proprio nella risoluzione di questo problema che l’istruzione e i processi di apprendimento giocano un ruolo centrale nella produzione del capitale umano. La vita in formazione continua è la narrazione all’interno della quale i soggetti abbracciano l’imperativo morale di accumulare capitale umano in competenze, abilità e conoscenze per poi investirlo, rischiarlo e gestirlo nella società della piena occupazione precaria. Il mantra di questa narrazione è apprendere ad apprendere, il richiamo ad acquisire pacchetti standard di nozioni e competenze da poter esercitare in ogni contesto che richieda la risoluzione di un problema. La conseguenza della fede in questo mantra è la materializzazione di un’illusione: quella di un Io illimitato, in grado di maneggiare gli strumenti che a priori gli permettono di realizzare qualsiasi scopo. Questo Io imprenditore di sé stesso ha introiettato la voce che lo invita a lavorare sui propri valori per diventare più efficace. La voce dell’oracolo di Delfi che sussurra un frastornante “conosci te stesso” nelle orecchie degli adolescenti non è più raccolta da un’istituzione che si limita a consegnare al mondo del lavoro un soggetto produttivo, “utile” per la società. L’imperativo a conoscere il proprio sé suona oggi più come la voce fuori campo di uno spot televisivo di un modello sportivo di automobile: guardati allo specchio perché devi superare i tuoi limiti, altrimenti la tua vita non potrà essere considerata piena di senso e degna di esser stata vissuta. Detto in altri termini, l’azione delle istituzioni formative, nello scenario contemporaneo, avrebbe il compito di plasmare, piegare, smussare gli attriti e ridurre le resistenze che sul piano dei comportamenti ostacolano nel soggetto un processo di accumulazione illimitato.

La scuola è lo strumento di integrazione dell’Io nelle reti che lo collegano al mercato del lavoro, che ne rendono possibile l’investimento di capitale umano. In questa direzione si colloca dunque l’alternanza scuola-lavoro, così come è formalizzata dalla legge 107 del 2015. Per essa «lo studente e il lavoratore devono maturare l’abitudine del fare da sé, la capacità di alternare istruzione, formazione e disoccupazione, esperienze di stage e tirocini, master a pagamento, inoccupazione e volontariato» (p. 64). Si tratta di un addestramento di preparazione al lavoro non retribuito, alla teoria di lavoretti accettati sulla base della promessa di un lavoro salariato, che costellerà la vita adulta della maggior parte degli studenti. Lavori occasionali, fondati sulla servitù volontaria.

In primo luogo perché l’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro in Italia non è formalmente comparabile ad altre esperienze analoghe presenti nei sistemi d’istruzione europei, ma sembra essere il prodotto degenerato di un certo conformismo neolibersita del nostro ceto politico, soprattutto di certo sottosegretariame al MIUR con ambizioni di carriera politica, ormai diventato senso comune quando si parla della relazione fra istruzione e lavoro. Gli studenti in alternanza scuola lavoro hanno il “diritto-dovere di istruzione e formazione”. Tale diritto è composto sia dall’“obbligo scolastico” stabilito dall’articolo 34 della Costituzione, sia dall’“obbligo formativo” formalizzato a partire dal governo di “centro-sinistra” D’Alema con la legge 144 del 17 maggio 1999. L’alternanza scuola lavoro è la conseguenza di questo statuto bicefalo e ha capovolto il rapporto tra diritto e dovere esistente prima della sua approvazione.

Inoltre, tale rovesciamento ha prodotto una serie di conseguenze, sia giuridiche che pratiche, che hanno impedito al legislatore di definire il lavoro svolto da uno studente in alternanza nei termini corretti di un apprendistato, ovvero di un contratto di lavoro, relegandolo a uno spazio extra-giuridico, quello del “tirocinio curricolare”. Si tratterebbe di un’attività bifronte, sia lavoro che formazione, dai contorni tanto vaghi quanto versatili a qualsiasi tipo di sfruttamento o perfino violenza sociale. Non essendo dei lavoratori ma studenti «i soggetti in alternanza restano esposti agli eventi senza una rete di protezione, anche giuridica, forte» (p. 110). Una violenza sociale che è anche simbolica se si pensa alla distribuzione degli studenti-lavoratori tra imprese ed enti pubblici, che vede i liceali nettamente più presenti dei loro colleghi dei tecnici e dei professionali nel settore pubblico. Questa tendenza, che riproduce i rapporti di forza della straprovincia italiana tra il farmacista e il piccolo lavoratore dipendente, ha un suo riflesso quasi farsesco nei dati che raccontano il presupposto valore formativo di esperienze di alternanza scuola-lavoro e che Ciccarelli interpreta con raffinata ironia:

Uno studente su quattro (totale: 652.641 nell’anno scolastico 2015-2016) non ha frequentato “percorsi di qualità”; il dieci per cento aveva partecipato solo ad attività propedeutiche, il quattordici per cento solo ad esperienze di lavoro. Nell’ottanta per cento dei casi queste esperienze sono state fatte d’estate, quando l’attività didattica è sospesa. La stragrande maggioranza non rispondeva a una progettazione pluriennale. Il novanta per cento dei giovani è stato ospitato in piccole o micro-imprese: il cinquanta per cento fino a nove dipendenti e il quaranta per cento sotto i cinquanta lavoratori. (p. 115)

Ne viene fuori, soprattutto per i percorsi liceali, l’immagine di un sistema improvvisato, in cui i propositi inziali, la progettazione dei tutor scolastici e le motivazioni degli studenti vengono incapsulati in esperienze formative-lavorative di scarsa qualità, in un sistema produttivo, fatto di piccole e medie imprese distribuite in maniera eterogena da Nord a Sud, che non possiede le capacità ricettive per soddisfare l’intero bacino di utenza. Presentata come un aspetto di democratizzazione dei percorsi d’istruzione, un modo per mandare a lavorare anche il figlio del notaio che frequenta il liceo classico ed è votato solo alle patrie lettere, l’alternanza scuola-lavoro è solo una parodia del ben più serio “metà studio metà lavoro” degli anni Settanta, sfociato nell’istituzione delle 150 ore lavorative retributive ad uso scolastico e culturale. Così come viene realizzata, a partire dai tratti vaghi e indefiniti che le ha conferito il legislatore, l’alternanza scuola-lavoro si presenta come un’esperienza posticcia, un’altra pagina da aggiungere al bestiario dei nuovismi formativi che investono la scuola pubblica italiana da un trentennio a questa parte. Un’esperienza inautentica che potrebbe trovare un carattere significativo, rispettoso dei principi costituzionali, solo all’interno di un profondo ripensamento dell’impianto (ancora) gentiliano dei percorsi liceali e della didattica delle discipline curricolari, troppo spesso distanti dalla realtà sociale che paventano di rendere interpretabile. E quanta retorica, poveri noi, ci è stata somministrata dagli stessi avversari su posizioni “di principio” dell’alternanza scuola-lavoro, blasonati Geremia dei licei del capoluogo, nostalgici della scuola severa-ma-giusta, grammatica e pedana, ora et labora, libro e moschetto!   

In tal senso il nodo teorico più importante del libro di Ciccarelli, che si smarca da un giudizio superficialmente reazionario sulle esperienze di alternanza scuola-lavoro, è la sottolineatura della diffusione del principio-scuola all’intera società: educazione, autocontrollo e sorveglianza reciproca sono compiti cui i poteri che la amministrano e le persone che la costituiscono devono attendere scrupolosamente. Un nodo teorico foucaultiano che ci permette di volgere lo sguardo alla longue durèe delle forme e delle istituzioni dell’istruzione in Europa. Se, infatti, l’imperativo a realizzare il proprio “Sé grandioso” si colloca in continuità con la paideia classica, con le regole socratico-platoniche per l’addomesticamento del parco umano, filtrate e riadattate alla modernità dal gesuitismo e dalla scuola nazionalizzatrice delle masse, quello che oggi si afferma nelle riforme neoliberiste dei sistemi d’istruzione dei paesi UE è un imperativo dolce alla massimizzazione del profitto, sempre pronto a rovesciarsi nell’oscena persecuzione della deviazione. Come ha sagacemente osservato Didier Fassin nel suo ultimo saggio tradotto in italiano, la passione del contemporaneo è punire.

In Italia questo assunto è interpretato in una chiave retorica anti-sessantottina, una tensione a decostruire, soprattutto presso l’opinione del ceto docente, i mitologemi del riformismo scolastico democratico, da Maria Montessori a Don Milani, proponendo un’originale alleanza tra la bandiera della restaurazione integrale del modello gentiliano e le accelerazioni più forti degli ultrà neoliberisti. Un curioso repertorio di questa originale alleanza sono ad esempio gli editoriali “scolastici” di Ernesto Galli della Loggia, tutti tesi a invocare una modernità regressiva, una scuola più efficiente perché padrona del repertorio delle nozioni, delle punizioni, delle selezioni. Evocare il fantasma del lungo Sessantotto italiano serve oggi, a chi parla, scrive e si interessa della scuola, a modellare un’immagine caricaturale della libertà e dell’autonomia, a darne una declinazione esclusivamente economico-commerciale. Contro questa deriva reazionaria bisogna che oggi la scuola e l’istruzione tornino a inquietare.

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