La strategia del caso di Alberto Ongaro

Pubblichiamo un estratto dal libro “La strategia del caso” di Alberto Ongaro (Aragno editore, 2003)*, partigiano, giornalista, scrittore, morto all’età di 92 anni, dopo una vita piena di avventure. I funerali si terranno a Venezia, all’isola di S. Michele, mercoledì 28 marzo alle 11.

Lì davanti, di fianco e alle mie spalle, nella profondità delle ombre e delle luci che mi circondavano, negli alti palazzi dell’avenida dove io mi trovavo, nel più dorato coraçao paulista, nelle ville dei quartieri residenziali, nelle lebbrose favelas delle periferie, nelle ruas ancora percorse da colonne di automobili, nei ristoranti affollati, negli ospedali congestionati, nei quartieri cinesi coreani giapponesi e anche in un luogo dove ci fosse della gente che gridava cantava si accoltellava o faceva all’amore, il rombo della vita della città sembrava un suono indipendente dai milioni di altri suoni che lo formavano: qualcosa di simile al respiro di un immenso animale arrabbiato. L’avevo già sperimentato anni prima: il rombo si insinuava nelle case, negli alberghi delle camere insonorizzate, nei sogni dei bambini, nell’insonnia dei vecchi, nel sonno di pietra dei diseredati che dormivano nelle strade, riempiva di urla la solitudine notturna dei parchi, navigava sulle acque dei fiumi.

San Paolo del Brasile. Diciotto milioni di abitanti accertati, qualche altro milione che viveva una vita periferica e clandestina, numeri che davano le vertigini a chi come me si era assunto il compito di cercare un uomo senza nome e della cui esistenza si poteva anche dubitare.
Ero partito per il Brasile nonostante Tommaso Utimpergher mi avesse invitato (?), pregato (?), ingiunto (?) – mi era davvero difficile individuare il verbo che più esattamente definisse la situazione – di non farlo. Ma prima di partire avevo scritto una lettera in cui gli dicevo che finalmente la Catering International aveva deciso dove inviarmi per i prossimi due anni, che si trattava proprio del Brasile come del resto avevo previsto e che ovviamente avrei fatto del mio meglio per trovare una persona a cui da tempo stava pensando. Non feci alcun cenno al modo brusco con cui si era conclusa la mia ultima visita né al suo invito – ammesso che di invito si trattasse – a lasciare perdere tutto. Non aspettai la sua risposta non per paura che trovasse un argomento con cui fermarmi ma perché la logica del rapporto che si era stabilita tra noi era ormai tale che avrei sentito di tradirlo se non fossi partito. Perché ero certo che quel suo improvviso voltafaccia, con quella sua decisione di rinunciare a una ricerca che sembrava essere per lui questione di vita o di morte Tommaso Utimpergher aveva tradito se stesso. Non l’ipotesi che Franco esistesse né che fosse un soprannome, ma certamente qualcosa di quello che gli avevo portato, doveva averlo turbato e stravolto. Partivo con i nomi di alcune percone che potevano chiarire il mistero. E in quel momento Tommaso Utimpergher era stato preso dal panico che, con l’aiuto di quei nomi, riuscissi a trovare il fantasma. Il che sembrava confermare la mia sensazione che in lui la speranza di rintracciare Franco convivesse con la paura di trovarlo e che di volta in volta a seconda delle circostanza l’una prevalesse sull’altra e viceversa.
Mi si dirà che a questo punto avrei dovuto soprassedere e aspettare che il vecchio professore recuperasse l’equilibrio e guardasse dentro se stesso con quella serenità che a volte non gli era mancata. Ma ero certo che non sarebbe mai uscito da quella situazione contraddittoria se non fosse stato messo bruscamente di fronte a un fatto compiuto.

Venezia, Roma. Poi a Roma imbarco sul volo 4870 delle aerolinee brasiliane. Il caso volle che accanto a me sedesse un anziano signore dall’aspetto fine ed elegante, un italiano che da molti anni viveva a Rio de Janeiro: Andrea Macchiavelli, disse quando ci presentammo, e subito precisò che una C in più nel nome gli impediva di vantare una discendenza dal grande Niccolò. Dirigeva una compagnia di export-import e tornava frequentemente in Italia per ragioni di lavoro e di famiglia. Graziose e sorridenti hostess dalla pelle dorata e lontane dalle ascendenze indie o africane passavano da un punto all’altro dell’aereo. Guardandole pensavo che se il libro da poco uscito del mio amico non lo avessi messo nella borsa delle aerolinee brasiliane per portarlo al mio impossibile prozio non sarebbe successo nulla di quello che era successo nelle ultime settimane: il professor Utimpergher non avrebbe potuto notare alcuna borsa, non avrebbe visto in me un pilota aereo che viaggiava fra il Brasile e l’Italia o comunque una persona in grado di aiutarlo, non mi avrebbe fatto quel cenno che io avevo interpretato come un invito a fermarmi. E io non avrei telefonato a Elena Zobenigo perché mi aiutasse a incontrare l’ambasciatore, non avrei fatto alcun passo falso con Joka e in quel momento non mi sarei trovato a bordo di quell’aereo dove avevo portato la stessa borsa brasiliana del mio primo viaggio, ma probabilmente sulle rive diun fiume del Veneto con una canna da pesca in mano.

Era strano come la vita di una persona potesse prendere una direzione piuttosto che un’altra per via di un oggetto qualsiasi quasi che il destino avesse previsto che quell’oggetto dovesse essere tolto dall’armadio dove si trovava e portato in giro perchè diventasse il punto di incontro con la vita di un altro. Tolto dall’armadio quel giorno e non un altro perché quel giorno e non un altro la strada di chi lo portava si sarebbe incrociata con quella di chi doveva vederlo. Non mancava mai di meravigliarmi né di divertirmi la vita quando mi si presentava come un affollato crocevia di destini e mentre l’aereo si alzava in volo puntando verso sud ovest mi chiedevo se quella borsa mi avrebbe riservato altre sorprese o se il suo compito fosse finito.

«Lei» disse l’anziano signore al mio fianco «rientra nella tipologia dei passeggeri taciturni oppure è di quelli che amano parlare? »
Lo guardai un po’ sorpreso. Mi stava sorridendo amabilmente come per scusarsi della domanda.
«Dipende» dissi. «Apprezzo una buona conversazione. Così come a un certo punto di un lungo viaggio apprezzo il silenzio e la possibilità di dormire».
«Glie lo chiedo» disse Andrea Macchiavelli «perché io amo parlare. Non c’è nulla che ami di più. Quando viaggio, ovviamente. La conversazione fa volare il tempo a una velocità superiore a quella dell’aereo. Ma è chiaro che non si può parlare da soli e che c’è bisogno di un complice. Quindi la prego di dirmelo subito. Le va di parlare?»
«Certo» dissi piuttosto sinceramente, perché quello strano approccio non mancava di grazia. «Una volta” continuò «l’anno scorso mentre tornavo dall’Europa ero seduto accanto a un inglese che non ha aperto bocca durante tutto il viaggio. Se ne è rimasto per ore a guardare davanti a sé con la sopracciglia aggrottate. Era chiaro che era un inglese e poiché con gli inglesei si può parlare soltanto del tempo non gli ho fatto la domanda che ho fatto a lei. Non l’avrebbe capita e soprattutto non l’avrebbe apprezzata. Ma per tutto il viaggio mi sono chiesto a cosa diavolo pensasse. Alla crisi internazionale? Alla sterlina? All’Europa unita? Macchè. Niente di tutto questo. Vuol sapere a che cosa pensava? »
«Glielo ha chiesto?»
«Non direttamente. Stia a sentire. Avevo deciso che prima di arrivare sarei riuscito a cavargli almeno una parola di bocca. Stavamo arrivando a Rio, quando gli domandai bruscamente se aveva fatto un buon viaggio. Mi gurardò come da lontano. «Certo» disse «ho fatto qualche migliaio di buche».
«Che cosa significa?»
«Anch’io gli feci la stessa domanda. Che significa? Beh, significa che quel tale appena salito sull’aereo si era messo a giocare a golf. Mentalmente, si capisce. Era una sua abitudine. Immaginava un campo da golf immenso come la distanza fra il punto di partenza e quello di arrivo e si metteva a giocare, faceva una buca dietro l’altra camminando nel green come lo chiamano loro. In altre parole si era fatto a piedi i nove o diecimila chilometri non so quanti sono, tra Roma e Rio. »

Mi misi a ridere. Ero stato fortunato. Avevo trovato un compagno di viaggio molto simpatico, cosa che non capita spesso. Dopo questo avvio la conversazione scorse via facilmente come se ci conoscessimo da tempo. E un po’ alla volta quasi senza accorgermene gli raccontai pressocchè tutto, il mio lavoro alla Catering International, il mio prossimo trasferimento in Brasile e, per non mettere in mezzo Tommaso Utimpergher, le ragini del mio viaggio nella stessa versione che avevo dato al viceconsole: volevo trovare un vecchio amico di mio padre di cui sapevo solo che si chiamava Franco.

«Solo Franco?»
«Si» dissi «non so il suo cognome».
«Suo padre non gliene aveva mai parlato? »
«Non mi pare. O quanto meno non ricordo. Io non ero ancora nato all’epoca della loro amicizia. Ma a casa ho trovato alcune cartoline firmate Franco e spedite da San Paolo. Cartoline molto affettuose…»
«Recenti? »
Esitai.
«Anche recenti» dissi.
Ci pensò su per qualche istante poi si mise a ridere.
«Avrà un bel da fare a cercarlo in mezzo a tutta quella gente. Sa quanti abitanti ha San Paolo? »
«Si» dissi «Però» aggiunsi «ho i nomi delle persone che sono partite con lui da Venezia più di mezzo secolo fa. Spero mi aiutino loro a trovarlo».
Scosse lievemente la testa con aria perplessa.
«Tutti veneziani? »
«Così pare».
«Ha con sé questi nomi? »
«Li so a memoria» dissi.
Infilò una mano in tasca e ne estrasse una piccola agenda con annessa matita.
«Le dispiace dirmi chi sono? Non si sa mai. Magari li conosco. O conosco qualcuno che li conosce. Molti italiani che in un primo tempo si stabiliscono a San Paolo si trasferiscono a Rio quando vanno in pensione».
«Prenda pure nota».
Gli dissi i nomi avuti dal viceconsole: Leonardo Serena, Marco Saviani, Evaristo Fortuni, Oreste Anselmi, Alberto Alfieri. E subito arrivò il commento che mi aspettavo.
«Qui non c’è nessuno che si chiami Franco».
«No. Pare che Franco fosse un soprannome”.
Andrea Macchiavelli fece una risatina.
«Sempre più difficile” disse rimettendo in tasca l’agenda. Poi mi lanciò uno sguardo inquisitivo. «Ma perché è così importante ritrovarlo? »
«Pure ragioni affettive. Ho molte cose da dirgli… anche che mio padre è morto».
«Nient’altro? »
«Nient’altro».

Fece una serie di cenni di assenso co la testa, ma senza ritirare lo scandaglio del suo sguardo. Pensai che non mi credesse o avesse visto qualche punto debole nella storia che gli avevo raccontato. E all’improvviso vidi anche io la debolezza di una storia che ruotava attorno al nome (o al soprannome) di un uomo la cui esistenza era suggerita soltantanto dall’angoscia di un vecchio signore e da una serie di cartoline immaginarie. Tuttavia non provai alcuna sensazione di cedimento né di paura di perdere tempo e denaro in una ricerca forse priva di oggetto. Ero sicuro che nonostante la vaghezza del punto di arrivo una gratificazione sarei comunque riuscito a cavarla fosse pure solo il fascino, la lusinga, il senso di attesa e speranza che avrei provato cercando qualcuno che forse non esisteva.
«Dove scende a San Paolo?» domandò il mio compagno. «In quale albergo, voglio dire».
«Al Comodoro»
«Glie lo chiedo, perché chissà mai che possa esserle utile. Come le ho detto conosco qualche veneziano. E qui varie etnie tendono a raggrupparsi, se vivono nella stessa città o a mantenersi in contatto se vivono in città diverse. Veneti con veneti, emiliani con emiliani, e così via. La sua storia mi ha incuriositp. Farò anche io qualche domanda qua e là. Se dovessi scoprire qualche cosa le telefono».

Andrea Macchiavelli era sceso a Rio de Janeiro. Io dopo una sosta di un’ora, proseguii per San Paolo e adesso ero qui come Stanley in una foresta di pietra alla ricerca di un improbabile Livingstone.

 

* Si ringrazia l’editore. Le pagine qui pubblicate corrispondono al Cap 14 (pagg. 93 – 100)

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