Migrazioni e confini dell’immaginario

Un estratto dell’introduzione a un libro esperimento curatoriale-politico: “Dreamland i confini dell’immaginario” (ManifestoLibri 2020).

MARGHERITA MOSCARDINI 1XUNKNOWN – 1942-2017 to Fortress Europe with Love Production still, Quiberville (Fr)

L’intenzione che è alla base di “Dreamland, i confini dell’Immaginario”, nostro primo progetto editoriale è stata quella di provare ad offrire uno strumento – non specificamente politico o solo artistico – di rappresentazione visuale e teorica, propria del mondo dell’arte, che si snoda in uno spazio, quello di una pubblicazione inserita in una collana promossa da una casa editrice portatrice di una storia oltre che culturale, fondamentalmente politica. Un testo che intende quindi fornire attraverso un approccio curatoriale, elementi e stimoli di riflessione sul tema migratorio come contributo anche ad un nuovo dibattito politico che possa informare le scelte, le analisi e le pratiche di chi oggi si cimenta a vario titolo sul tema delle migrazioni. 

Nel pensare ciò abbiamo quindi adottato un approccio prettamente “artistico”, quasi che nel comporre il sommario di questa pubblicazione immaginassimo di curare una mostra di arte contemporanea, in uno spazio immateriale, ma densamente popolato. Il tema dello spazio ricorre spesso come filo conduttore di questo nostro primo lavoro editoriale, giacché troppo spesso il tema migratorio viene affrontato dal punto di vista di chi migra, per suo conto. Migranti come oggetto di studio ed analisi, come soggetti da ritrarre, o utilizzare, vittime possibili, piuttosto che soggetti agenti. Lo afferma bene Arjun Appadurai, autore di Aspirational Maps, quando ci dice che ogni qual volta di tenta di produrre un “archivio delle migrazioni” ci si deve relazionare come la presenza di una o più narrative presenti nella memoria pubblica nella nuova “casa” del migrante, dove il migrante viene visto spesso come una persona che ha una sola storia da raccontare, quella di una perdita abietta o del bisogno. [1]

Cercare quindi di comprendere come gli spazi attraversati dai migranti si trasformano grazie al loro attraversamento, come diventano luogo di scambio di culture, di economie, di pratiche, di storie e di aspirazioni può servire a restituire ai migranti ed alla loro scelta consapevole di imbarcarsi in un percorso difficile di attraversamento delle frontiere, dignità e riconoscimento della propria “agency”.  Sono spesso spazi al di fuori della legge nei quali i migranti illegali hanno molto da dirci su ciò che significa oggi essere cittadini, e su come avanzare rivendicazioni politiche da una posizione di estrema precarietà dalla posizione di chi è fuori dalla legge”.   Ed è proprio per la loro “estrema vulnerabilità che i migranti illegali possono rivitalizzare la politica e espandere e ridefinire lo spazio della democrazia in maniere imprevedibili”. [2]

Oggi la vera sfida per l’artista e chi documenta il fenomeno migratorio è pertanto, per dirla con TJ Demos, [3]quella di  “abbandonare lo spettacolo familiare della miseria, l’immaginario sensazionalista della sofferenza in questi tempi di proliferazione delle emergenze umanitarie, e assumersi la sfida di interrogare le complesse cause politiche ed economiche dietro gli effetti dell’isteria sulle migrazioni, e le guerre alle frontiere, e mostrare come la migrazione delinei un atto creativo di trasformazione politica ed un luogo di resistenza ed “agency”. Resistenza ed “agency” che trasformano in una certa maniera gli spazi attraversati dai migranti, le frontiere, i luoghi liminali, in “mobile commons, commons in movimento [4], che siano spazi urbani temporaneamente occupati (l’esempio del nostro lavoro “Camera con vista”) da comunità migranti o rom, nei quali si sono create vere e proprie comunità autogestite, con proprie regole e pratiche, finché gli stessi spazi non sono stati liberati con la forza per essere immessi nel mercato della finanza e della speculazione immobiliare. Oppure gli spazi delle rotte sahariane, i posti di frontiera, gli avamposti e i luoghi di ristoro, descritti in Sahara Chronicle di Ursula Biemann.

URSULA BIENMANN Desert truck terminal, Sahara Chronicle, 2006-2009, documentary video, 78’, video still

O spazi fisici di resistenza e rivolta, quelli di un Centro di Detenzione Temporanea alla periferia di Parigi, una storia di insubordinazione e rivolta narrata ne “et ils vont dans l’espace qu’embrasse ton regard” da Estefanía Peñafiel Loaiza, artista ecuadoriana ormai naturalizzata francese che ha partecipato con quell’opera alla grande mostra dedicata ai segni dell’insurrezione e curata da Georges Didi-Huberman nel 2016 al Jeu de Paume di Parigi. [5]

ESTEFANÍA PEÑAFIEL LOAIZA et ils vont dans l’espace qu’embrasse ton regard: signaux de fumée 2016 _ video still

E ci sono anche spazi di esclusione, di frontiera come lo spazio sospeso nel tempo negli istanti precedenti l’intervista per la richiesta del riconoscimento di status di rifugiato, la stanza, il tavolo, il dialogo tra il migrante e la funzionaria dell’ufficio preposto alle interviste relative alla richiesta di asilo politico, in attesa dell’arrivo del mediatore culturale e rappresentato nella “performance” di Elena Mazzi e Enrica Camporesi “Performing the self-the interview” che abbiamo voluto inserire nella pubblicazione, per dar conto della varietà di possibili rappresentazioni del tema.

ENRICA CAMPORESI_ ELENA MAZZI Installazione “Performing the self – the interview” 2017-2018 Foto: Joe Lampasa

O quello manipolato ed alterato dalla mano dell’uomo per costruire fortezze e valli a protezione dell’Europa da minacce esterne, come raffigurato in una sorta di cortocircuito spazio-temporale in “1xUnknown” di Margherita Moscardini, che cataloga le macerie delle fortificazioni e bunker in cemento armato del Vallo Atlantico, costruito dai nazisti per proteggere la Fortezza Europa. Un richiamo neanche tanto velato alla sindrome securitaria della Fortezza Europa di questo tempo, che nasconde in sé il fallimento del suo progetto originario di spazio comune di diritti e cittadinanza, miraggio che attrae le migliaia di esseri umani in cerca di “conforto” e accoglienza. Questo il leitmotiv delle opere esposte nella mostra “Gemuetlichkeit” dell’artista peruviano Jota Castro alcune delle quali sono qui rappresentate. 

Negli spazi è possibile praticare forme di sguardo disobbediente come fa il collettivo Forensic Oceanography di Lorenzo Pezzani e Charles Heller dei quali questa pubblicazione ospita uno scritto pubblicato su Il Lavoro Culturale e su Euronomade, ed il lavoro “Left-to-die Boat” già presente alla Biennale di Architettura di Venezia 2016 e ne “La Terra Inquieta” a cura di Massimiliano Gioni, tenutasi a Milano nel 2017[6], la prima vera grande mostra antologica sulle rappresentazioni del tema delle migrazioni, caratterizzata tra l’altro dall’inedita presenza di artisti dei paesi di origine dei migranti.  Come spiega bene Massimiliano Gioni: “Ad un certo punto il ruolo dell’artista è cambiato da quello di essere un profeta che immagina una società multiculturale aperta, a quello di essere un investigatore obbligato a contare i cadaveri nelle spiagge del Mediterraneo”[7]. A mappare cioè la conta dei morti di popolo che è quasi una nazione, come ci dice il collettivo artistico italiano Nation 25, nato proprio dall’idea di provare a rappresentare il popolo migrante come una nazione, un paese, con il “Nationless Pavillion” ai magazzini SaLe Docks atto proposto in occasione della 56esima Biennale di Venezia, un padiglione dei senza nazione per travalicare le frontiere materiali dei padiglioni dei paesi partecipanti, raffigurazione obsoleta della geografia umana.  

C’è pertanto bisogno di un netto cambio di passo.  Il tema delle migrazioni è oggi talmente usato ed abusato dai media, dalla politica, dalla narrazione ufficiale al punto di aver perso ogni profonda connessione con chi migra, con le loro vite, i loro destini, a loro decisione consapevole di intraprendere un percorso. È come se le immagini della crisi innescassero una crisi propria dell’immagine e della rappresentazione estrapolate dai soggetti incarnati che intraprendono un percorso migratorio.  Un diritto/rito di passaggio, insomma come narrato nel video “The Right of Passage” di Oliver Ressler, al viaggio ed al transito che trasforma non solo le vite di chi viaggia ma anche i luoghi che attraversano.  Ed è proprio qui che assume senso oggi l’arte come strumento di rappresentazione “politica” del reale e dell’immaginario. Nel saggio di apertura di “Entry Points, the Vera List Center Field Guide on art and social justice[8] la professoressa canadese Sharon Slivinsky usa un termine che dà il senso del ruolo che l’artista dovrebbe svolgere, del suo contributo alla giustizia ed alla presa di coscienza politica. Usa il termine di “Incorreggibile disturbatore della pace” riprendendo le parole del grande artista ed attivista afroamericano James Baldwin.

Secondo Baldwin, l’artista dovrebbe “illuminare l’oscurità, aprire strade nella vasta foresta, cosicché noi, in ciò che facciamo, non perderemmo di vista l’obiettivo del nostro fare, che è dopo tutto quello di dare del mondo un posto dove abitare in maniera più umana”[9]. E’ questo il senso di ciò che propone Celeste Ianniciello nel suo “Migration, Arts and Postcoloniality in the Mediterranean” sottolineando come l’arte sia capace di creare zone di intreccio spazio-temporale, zone di contatto tra memoria collettiva e personale, intersezioni critiche tra il globale ed il locale, tra il sé e l’altro. L’arte nell’interrogare la nostra posizione le nostre abituali procedure di riconoscimento e definizione, ci porta in uno spazio critico, oltre il visibile, sotto la buccia” del tempo domesticato, in una regione non delimitate da frontiere, chiusure, divisione, ma marcata da tracce, pieghe, movimenti dei corpi e dei sensi”. [10]

E così nello spazio terzo ed interstiziale tra società, potere e rappresentazione, arte e politica oggi si possono muovere in una ricerca simile allo stato nomadico e liquido della cittadinanza e dell’umanità, della liquidità delle frontiere o la liquidità del Mar Mediterraneo (“La Mer Morte” il mare morto di stracci di Kader Attia), trasformato in fossa comune per migranti e richiedenti asilo. Oggi l’artista (ed anche l’attivista) proprio come chi migra questo dovrebbero fare a nostro avviso, diventare essi stessi migranti, nomadi, esplorare e mettere in discussione frontiere e confini, attraversarli e farsi attraversare, abitare lo spazio liminale tra cittadinanza e frontiere, potere e comunità, sistemi d’arte tradizionali, disegnare nuove geografie visive, tracciare nuove mappe. E così facendo creare nuovi “commons” luoghi mobili di pratica e teoria, di proposta e di iniziativa.

[1] A.Appadurai: “Aspirational maps – On migrant narratives and imagined future citizenship”, 19 Febbraio 2016  – https://www.eurozine.com/aspirational-maps/

[2] F.Scott and K. Woznicki “Outlaw spaces: strategic reversals of power at the margins” , 27 October 2017 https://www.opendemocracy.net/digitaliberties/krystian-woznicki-felicity-scott/outlaw-spaces-strategic-reversals-of-power-at-margi

[3] autore di The Migrant Image – the Art and Politics of Documentary during Global Crisis che ci ha gentilmente concesso il diritto di riprodurne il capitolo introduttivo, pubblicato in itailano sul catalogo de “la Terra Inquieta”, a cura di Massimiliano Gioni, ELECTA, 2017.

[4] Jayne O. Ifekwunigwe “When commoning strategies travel.  (In)visible cities, clandestine migrations and mobile commons”, 26 April 2016 https://www.eurozine.com/when-commoning-strategies-travel/

[5] http://soulevements.jeudepaume.org 

[6] http://www.triennale.org/mostra/la-terra-inquieta/

[7] Massimiliano Gioni, “La terra inquieta” catalogo della mostra, 2017 Electa, Milano

[8] http://www.veralistcenter.org/engage/publications/1993/entry-pointsthe-vera-list-center-field-guide-on-art-and-social-justice-no-1/

[9]  https://www.brainpickings.org/2014/08/20/james-baldwin-the-creative-process/

[10] C.Ianniciello, “Migrations, Arts and Postcoloniality in the Mediterranean”, Routledge, 2018

 

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