Giorgio Agamben, “Il fuoco e il racconto”. Scrittura, politica e resistenza tra assenza e ritrovamento della parola

Nel quadro della nostra collaborazione con edizioni nottetempo pubblichiamo in anteprima alcuni ritagli del nuovo libro di Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto (2014). 

Scrivere significa: contemplare la lingua, e chi non vede e ama la sua lingua, chi non sa compitarne la tenue elegia né percepirne l’inno sommesso, non è uno scrittore. Se indagare la storia e raccontare la storia sono, in verità, lo stesso gesto, allora anche lo scrittore si trova davanti a un compito paradossale. Dovrà credere solo e intransigentemente nella letteratura – cioè nella perdita del fuoco –, dovrà dimenticarsi nella storia che intesse intorno ai suoi personaggi e, tuttavia, anche se solo a questo prezzo, dovrà saper discernere in fondo all’oblio le schegge di luce nera che provengono dal mistero perduto.

Il fuoco e il racconto, il mistero e la storia sono i due elementi indispensabili nella letteratura. Ma in che modo un elemento, la cui presenza è la prova inconfutabile della perdita dell’altro, può testimoniare di quell’assenza, scongiurarne l’ombra e il ricordo? Dove c’è racconto, il fuoco si è spento, dove c’è mistero non ci può essere storia.

Eichmann, la morte di Dio e il “mysterium burocraticum”

Che Eichmann fosse un uomo comune sembra assodato. […] Il fatto è che proprio la mente dell’uomo ordinario costituisce per l’etica un’inesplicabile rompicapo. Quando Dostoevskij e Nietzsche si accorsero che Dio era morto, essi credettero di doverne trarre la conseguenza che l’uomo sarebbe diventato un mostro e un obbrobrio […]. L’uomo comune è sopravvissuto a Dio senza troppe difficoltà ed è, anzi, oggi inopinatamente rispettoso della legge e delle convenzioni sociali, istintivamente proclive a osservarle e, almeno rispetto agli altri, sollecito a invocarne la sanzione.

È a quest’essere approssimativo, a quest’eroe senza assegnabile compito che è riservata la prova più ardua, il mysterum burocraticum della colpa e della pena. Esso è stato pensato per lui e in lui soltanto trova il suo compimento cerimoniale. Come Eichmann, l’uomo comune conosce nel processo il suo feroce momento di gloria, l’unico, in ogni caso, in cui l’opacità della sua esistenza acquista un significato che sembra trascenderlo.

Resistenza, atto di creazione e poetica dell’inoperosità

Deleuze definiva l’atto di creazione come un “atto di resistenza”. [Ma] non definisce che cosa significhi “resistere” e sembra dare al termine il significato corrente di opporsi a una forza o a una minaccia esterna.

Colui che possiede – o ha l’abito di – una potenza può tanto metterla in atto che non metterla in atto. La potenza – questa è la tesi geniale, anche se in apparenza ovvia, di Aristotele – è, cioè, definita dalla possibilità del suo non–esercizio. […] L’architetto è potente, in quanto può non costruire, la potenza è una sospensione dell’atto.

Vi è, in ogni atto di creazione, qualcosa che resiste e si oppone all’espressione. Resistere, dal latino sisto, significa etimologicamente “arrestare, tener fermo” o “arrestarsi”. Questo potere che trattiene e arresta la potenza nel suo movimento verso l’atto è l’impotenza, la potenza-di-non. La potenza è, cioè, un essere ambiguo, che non solo può tanto una cosa che il suo contrario, ma contiene in se stessa un’intima e irriducibile resistenza.

Spero che a questo punto ciò che intendevo parlando di una “poetica dell’inoperosità” sia in qualche modo più chiaro. E, forse, il modello per eccellenza di questa operazione che consiste nel rendere inoperose tutte le opere umane è la stessa poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non un’operazione nel linguaggio, che ne disattiva e rende inoperose le funzioni comunicative informative, per aprirle a un nuovo, possibile uso?

Sospensione del sapere e stato di eccezione

Se la parola della filosofia aveva un senso, ciò era solo perché essa parlava non a partire da un sapere, ma dalla consapevolezza di un non sapere, cioè a partire dalla sospensione di ogni tecnica e di ogni sapere. La filosofia non è un ambito disciplinare, ma un’intensità che può di colpo animare qualsiasi ambito della conoscenza e della vita, costringendolo a urtarsi ai propri limiti.

La filosofia è lo stato di eccezione dichiarato in ogni sapere e in ogni disciplina. Questo stato di eccezione si chiama: verità. Ma la verità non è ciò in nome di cui parliamo, è il contenuto delle nostre parole; non possiamo parlare in nome della verità, possiamo solo dire il vero. In nome di cosa può allora parlare oggi il filosofo?

Un nome che manca: in assenza di Dio e del popolo

In ogni questione, in ogni discorso, in ogni conversazione, la domanda decisiva è in ultima analisi: in nome di che cosa stai parlando? […]

Da tempo qui gli uomini hanno cessato di parlare nel nome di Dio. […] Che cos’è una lingua da cui è scomparso il nome di Dio?

L’esigenza aveva per il poeta un nome: popolo. […] In quanto è oggetto di un’esigenza, il popolo non può che mancare [… e] sulla soglia della modernità questa mancanza cresce fino a rivelarsi intollerabile. […] Poesia e filosofia possono comunicare, infatti, soltanto nell’esperienza che il popolo manca [ademia, assenza di demos].

L’“economia” e la tecnica possono – forse – sostituirsi alla politica, ma non possono darci il nome, in nome del quale parlare. Per questo possiamo nominare le cose, ma non possiamo più parlare nel nome.

A parlare sono solo i furbi e gli stolti, che lo fanno in nome del mercato, della crisi, di pseudoscienze, di sigle, enti partiti e ministeri, spesso senza avere nulla da dire. Chi trova, alla fine, il coraggio di parlare, sa di parlare – o, eventualmente, di tacere – in nome di un nome che manca.

Ademia, anomia, anarchia

Possiamo parlare – o tacere – solo a partire dalla consapevolezza della nostra ademia. Ma chi ha dovuto rinunciare al popolo – e non poteva fare diversamente – sa di aver anche perduto il nome della parola, sa di non poter più parlare in suo nome. Sa, cioè – senza rimpianto né risentimenti – che la politica ha perduto il suo luogo, che le categorie del politico sono dappertutto crollate. Ademia, anomia, anarchia sono sinonimi. Ma solo provando a nominare il deserto che cresce nell’assenza del nome egli ritroverà – forse – la parola.

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