L’intervento di Chiara Di Domenico al seminario del PD presso la Casa dell’Architettura a Roma ha sollevato molte polemiche, per lo più interne al circolo ristretto dei lavoratori precari dell’editoria, per avere indirizzato la questione del nepotismo nell’ambiente editoriale.
L’intervento di Chiara Di Domenico al seminario del PD presso la Casa dell’Architettura a Roma ha sollevato in questo giorni molte polemiche, per lo più interne al circolo ristretto dei lavoratori precari dell’editoria, per avere indirizzato la questione del nepotismo nell’ambiente editoriale, additando a titolo di esempio la figlia dell’illustre giuslavorista Pietro Ichino.
A prescindere dal fatto che Di Domenico si presentava come referente di un gruppo di persone presenti in sala, senza specificare di quale tipo di rappresentanza si trattasse, il suo intervento ha assunto fin da subito un registro personale poco adatto agli argomenti che presentava. In realtà, il discorso era più lungo di quell’ultimo minuto finale in cui si è verificato quello scivolone, e tuttavia la sensazione che è rimasta impressa nei commentatori, per lo più addetti ai lavori del mondo editoriale, è che quello non fosse affatto uno scivolone, ma un attacco contro Ichino, architettato ad arte sulla base di un articolo pubblicato in rete dalla Di Domenico. Supposizioni non supportate da alcuna prova, che hanno avvelenato l’intero dibattito. Nell’articolo di Di Domenico si faceva riferimento allo spazio che personalità della cultura – come lo stesso Ichino – trovano sui giornali nel momento in cui desiderano parlano di precariato e della condizione giovanile, offrendo un punto di vista parziale e fortemente inquinato da una retorica poco informata sulle condizioni lavorative e di vita reali del precariato del settore cognitivo. Quel settore che interessa lavoratori normalmente riferiti come giovani, i quali invece hanno abbondantemente superato i trent’anni e quindi giovani in senso stretto non sono più. Secondo gli standard europei, questi “giovani” dovrebbero avere trovato solidità lavorativa e abitativa, e le condizioni per formare una propria famiglia, che è il passaggio formale dall’adolescenza alla vita adulta (in conformità, naturalmente, con le inclinazioni naturali dell’individuo e non perché ciò sia in qualche modo imposto dalla società o da norme comportamentali, alle quali non sia possibile sottrarsi senza che questa auto-sottrazione venga percepita come patologica).
Scrive Di Domenico nel suo articolo:
[Fubini] [a]ssomiglia anche a quel signore che si chiama Pietro Ichino, che finalmente è uscito dal PD per seguire Monti, che da anni esalta il precariato e ha una figlia della mia stessa età che da anni ha un ruolo di responsabile presso Mondadori come editor italiana.
A leggerla bene questa frase contiene ben tre incongruenze: innanzitutto Ichino non esalta affatto il precariato; ma è vero che nel corso della sua lunga carriera di giuslavorista ha confermato le sue affinità con il defunto Marco Biagi, coautore del famigerato libro bianco e corresponsabile della Legge 30 – passaggio successivo al pacchetto Treu nella disciplina del lavoro atipico. Ciò non è un mistero. Da qui a cancellare pagine e pagine di scritti in cui Ichino sostiene la necessità di una maggiore disciplina del lavoro precario ne passa. Inoltre, l’uscita di Ichino dal PD è stata determinata dall’incapacità del partito di sostenere una linea coerente nelle sue politiche lavorative.
Eppure, in tutti questi anni le elaborazioni teoriche riguardo la disciplina del lavoro precario di Ichino sono avvenute nel seno del PD, e quindi poco importa che nel corso di questa difficile campagna elettorale il senatore abbia trovato maggiore spazio presso la lista che afferisce a Monti. Ciò che importa veramente è che negli ultimi quindici anni Ichino abbia svolto la sua attività di riflessione teorica e politica sotto l’egida della sinistra, tanto è vero che il suo recente abbandono è percepito dal PD come un tradimento. La seconda incongruenza si verifica quindi quando Di Domenico scrive che finalmente Ichino è uscito dal PD; forse non ha ben chiaro che questa uscita non è stata apprezzata dal PD. Forse sarà apprezzata dagli elettori del PD, dai quali la presenza di Ichino nel PD è sempre stata vissuta con imbarazzo, ma non che Bersani gli abbia mai mostrato la porta.
La terza incongruenza è quella che ha dato il via alle polemiche da gossip editoriale: Ichino, che esalterebbe il precariato (ma questa affermazione come detto sopra andrebbe ampiamente sostanziata, perché buttata giù così è un’accusa vaga e basata su chiacchiere e non su fatti concreti e documentabili), avrebbe una figlia la cui età non giustificherebbe la titolarità di un contratto a tempo indeterminato presso la maggiore casa editrice italiana. O per lo meno, visto che la prassi è che chi si addentra nel mondo del lavoro editoriale senza raccomandazioni non ottiene ruoli di responsabilità se non a un’età molto più avanzata, non si vede perché la figlia del giuslavorista – che per lo più viene additato come uno dei responsabili della precarizzazione del lavoro in Italia – debba godere di tale privilegio. La questione delle dinamiche di assunzione in ruoli di responsabilità nell’ambiente editoriale in Italia in realtà sarebbe più complessa, e dovrebbe includere anche un discorso articolato sulla crisi del settore, sull’esternalizzazione, sulle modalità contrattuali che vengono per lo più impiegate. Che questo iter non sia stato seguito nella forma più comune dalla figlia del giuslavorista non è argomento di grande rilevanza per la causa precaria. Ciò che sarebbe rilevante è un’analisi delle modalità contrattuali adottate di prassi: questo il lettore/elettore interessato ad approfondire la questione avrebbe voluto sentire, e non del gossip editoriale che francamente può interessare i pochi addetti ai lavori e non certo chi magari fresco di laurea cerca di farsi un’idea se intraprendere quella strada o lasciare perdere proprio perché non offre sufficienti garanzie di rendersi indipendenti entro la soglia critica dei trent’anni. La scelta della professione dovrebbe essere compiuta anche in base all’offerta del mercato del lavoro e non esclusivamente su base vocazionale, come sembra suggerire Di Domenico anche nell’intervento durante l’evento del PD.
(Si noti che il discorso è stato inserito nell’ambito della campagna “Le parole dell’Italia giusta” del PD, il cui intero assetto estetico sarebbe da sottoporre a severa analisi semiotica. Si noti in particolare l’introduzione tratta dal film Tutta la vita davanti, una delle peggiori banalizzazioni del lavoro precario mai vista in questo paese).
Nel suo discorso, Di Domenico, parlando del suo curriculum, fa un significativo riferimento che è sfuggito ai più. Dice:
la mia storia è comune, mi è stato detto di fare una SSIS e non l’ho fatta, oggi faccio l’ufficio stampa per una casa editrice e ho un contratto a progetto.
Non si vede in tutta franchezza che relazione ci sia fra la professione di insegnante e quella di addetto stampa di una casa editrice, due percorsi professionali che richiedono competenze diversissime e inclinazioni anche molto contrastanti. Non è che il diploma alla SSIS abbia garantito negli anni in cui era attiva l’immediata immissione in ruolo, tuttavia chi abbia voluto abilitarsi all’insegnamento nelle classi di concorso con maggiore incidenza di cattedre (lettere e matematica, per intendersi) a quest’ora è di ruolo nella scuola pubblica (diversamente da altre aree disciplinari, come dimostra il concorso a cattedre attualmente in corso, a cui partecipano molti abilitati SISS che negli anni non sono entrati in ruolo).
Rimane il fatto che per chi decida di intraprendere la strada dell’insegnamento l’abilitazione è il punto di partenza, che ciò avvenga tramite concorso abilitante – come è avvenuto fino al 1999 – oppure tramite scuola di specializzazione all’epoca della SSIS o tirocinio formativo come sta avvenendo ora. Si tratta di scegliere una strada lavorativa e intraprenderla fin da subito, senza che l’insegnamento si trasformi in un’ultima risorsa, l’ultima spiaggia di operatori culturali delusi che alla soglia dei quarant’anni, dopo anni di bassa manovalanza non trovando assunzione con contratti che garantiscano la sopravvivenza, si riversano sulla scuola.
Quindi dalle affermazioni di Di Domenico si possono dedurre due cose: o l’idea di abilitarsi tramite SSIS era percepita dalla relatrice come scandalosa e quindi il confluire nell’editoria è stato un ripiego in vista di un possibile concorso abilitante, oppure al contrario, preferendo l’editoria alla scuola ha semplicemente scelto la prima. Di Domenico non specifica, ma rimane il fatto che la scelta professionale in un paese privo di mobilità sociale come l’Italia è vincolante. Che ciò sia eticamente inaccettabile è fuori di dubbio; che chi sia cresciuto in questo Paese non ne sia cosciente è tuttavia poco credibile. Siccome gli insegnanti precari in quest’epoca hanno scarsissimo tempo per dedicarsi alle polemiche editoriali essendo impegnati nel superamento del concorso, sembra dubbio che Di Domenico sia realmente interessata al mondo della scuola, altrimenti starebbe a casa a studiare, invece di dedicarsi al gossip editoriale presso le sedi della campagna elettorale del PD. Quindi risulta davvero incomprensibile e inefficace questo riferimento alle SSIS nel suo discorso.
Ma non è l’unica incongruenza che si registra. Dice anche:
non ho mai avuto un lavoro, però ho un mestiere. Ho detto mestiere e non lavoro perché le regole non ci sono più.
Sbagliato: le regole ci sono, eccome. Le regole del lavoro precario di cui si servono i datori di lavoro nel campo dell’editoria fanno riferimento al complesso normativo costituito dalla Legge 30, dal collegato lavoro e da quel poco che è passato della riforma del ministro Fornero. Si tratta di regole improntate alla massima flessibilità e alle minime garanzie e tutele. Si tratta di regole chiarissime che si trovano in testi di legge, e che un lavoratore alla soglia dei quarant’anni non può fingere di ignorare. Queste regole sono state abbozzate durante il primo governo Prodi (‘96-‘98) che varò il «pacchetto Treu» sull’occupazione con il quale il lavoro atipico entrò a far parte dell’ordinamento italiano del lavoro. Sono poi state inasprite da quella che erroneamente viene chiamata Legge Biagi, ma che dovrebbe per correttezza di informazione essere chiamata Legge Biagi-Maroni, visto che fu varata dal ministro Maroni nel 2003 nel corso del secondo governo Berlusconi. Il collegato lavoro, opera del quarto governo Berlusconi, ha completato il decorso.
Si tratta di regole rigide che nel corso di quindici anni l’opposizione di sinistra non ha mai avuto la determinazione di cambiare, ospitando invece nel suo seno teorici della flessibilità come Ichino. Queste regole sono chiarissime da almeno dieci anni a chiunque si avvicini a campi in cui vengono sistematicamente applicate. Di nuovo, che ciò sia eticamente scandaloso è vero; ma quella dei precari dell’editoria non è la battaglia di chi si vede cambiare le regole sotto il naso dopo una carriera svolta in relativa tranquillità: è la battaglia un po’ strana di chi sceglie la via più insicura possibile e se ne rende conto solo dopo anni. La situazione sicuramente si è fatta più difficile a causa della crisi che ha colpito il settore; tuttavia, quando Di Domenico parla della sua situazione economica entrando nel dettaglio (un reddito di 1200€ mensili con spese fisse di affitto che ammontano a metà dello stipendio,) sta parlando di una situazione economica generalizzata, che riguarda anche gli insegnanti di ruolo, categoria che se vogliamo nel campo della cultura è forse una delle più garantite, e che arriva a circa 1500€ di stipendio solo a fine carriera. Non si tratta quindi di tipologia contrattuale, di regole, dice la Di Domenico, di tutele e garanzie forse intendeva dire, giacché le regole esistono come abbiamo visto, ma di una situazione economica generalizzata che interessa i lavoratori tutti in questo paese, dove gli stipendi sono bassi indipendentemente dalla tipologia contrattuale.
Di Domenico fa anche accenno a un altro elemento di natura più sociologica che politica.
Ci sono ragazzi di 36/38 anni, che per grande dignità decidono di lasciare la loro casa, andare ad abitare in altre città, spesso Roma o Milano, vivere come se fossero degli studenti insieme ad altre tre quattro persone.
Questo fenomeno per cui ci si riferisce ad adulti di quasi quarant’anni con il termine “ragazzi” è una peculiarità tutta italiana. In realtà, nel resto d’Europa e del mondo, l’uscita dalla casa dei genitori “per grande dignità” è avvenuta da almeno quindici anni, quando all’iscrizione all’università corrisponde un cambio di residenza nella città universitaria e non avviene un successivo rientro, in quanto al termine degli studi corrisponde la ricerca del lavoro: qualsiasi lavoro che permetta di mantenere l’indipendenza acquisita negli anni universitari. Chi non prosegue gli studi dopo il termine dell’istruzione superiore, all’età di 36/38 anni lavora da quasi vent’anni. La scelta di rimanere o meno con i genitori non è una questione di “dignità”, ma è una scelta di vita. C’è chi pur avendo un lavoro fisso già a vent’anni (ed è il caso di molte realtà nella provincia delle piccole aziende), decide di rimanere vicino alla famiglia, di sposarsi, di vivere nella stessa casa dei genitori.
Il motivo per cui degli adulti di quasi quarant’anni debbano decidere di spostarsi verso grandi città alla ricerca di lavori precarissimi che li costringono a condividere appartamenti vivendo da eterni studenti non viene spiegato da Di Domenico, rimane un sospeso che fa riflettere. Di sicuro, la scelta di lavorare in campi come editoria, giornalismo, televisione, ricerca universitaria, cultura in genere costringe a opzioni abitative poco congeniali a un adulto, ma questo non è un fenomeno italiano. Lo stesso avviene nella capitali europee più care, a Londra, Parigi, nelle metropoli d’oltreoceano. Si tratta di scelte di vita a cui si sottopone chi intraprende in tarda età una strada basata sulla vocazione, che non dipendono da condizioni contrattuali particolarmente sfavorevoli, visto che nel caso di ottenimento di un contratto a tempo indeterminato negli stessi campi, lo stipendio netto continua ad aggirarsi attorno ai 1200€ al mese, gli affitti continuano ad interessare metà di queste cifre e l’orario di lavoro continua ad essere estenuante. Il fatto che in una città come Londra un addetto al marketing di una grossa casa editrice percepisca intorno alle 2000£ mensili non garantisce un qualità di vita più alta, visto che le condizioni abitative e i costi della vita in proporzione sono più alti.
Non è molto chiaro poi cosa intenda Di Domenico quando dice che
se non è la sinistra a cominciare a regolarizzare i suoi lavoratori non andremo da nessuna parte.
In quale modo la “sinistra” dovrebbe “regolarizzare” i “suoi” lavoratori? Ma soprattutto, i lavoratori sono di qualcuno? La messa in regola (si suppone la relatrice intenda la scomparsa del sommerso, l’obbligo al contratto a tempo indeterminato) deve riguardare solo i lavoratori di sinistra nel caso il PD vinca le elezioni? E i lavoratori di destra, che facciamo, li lasciamo a tutti a casa perché non meritano niente? Inoltre, questa regolarizzazione in quale modo incide sul reddito, se gli stipendi non variano in conformità alla tipologia contrattuale? Forse intendeva dire che il contratto a tempo indeterminato permette di accedere a mutui e prestiti, però anche qui le cose sono molto cambiate: la maggior parte delle banche oggi si è adattata alla flessibilità del mercato del lavoro e pur chiedendo maggiori garanzie, concede prestiti e mutui anche ai lavoratori autonomi e precari; basti pensare che gli stessi dipendenti più giovani nelle banche vengono assunti con contratti a termine e stipendi nettamente inferiori rispetto a quelli di inizio carriera dei colleghi più anziani.
In buona sostanza quello che è cambiato è il mercato del lavoro tout court, ed è cambiato non certo perché un Ichino ha soggiornato allegramente fra le file del PD per anni. È cambiato perché è la struttura economica dell’Occidente ad essere cambiata; perché è la concorrenza da parte di aree del pianeta mai viste prima ad essere divenuta aggressiva; perché sono i mezzi di produzione ad essere rivoluzionati da un capitale che nella sua evanescenza non permette più di parlare di profitti e plusvalore come se ne parlava fino a vent’anni fa.
A margine, un’ultima incongruenza, e questa volta molto toccante, nel discorso di Di Domenico. Probabilmente per un fine di pura captatio benevolentiae, nella migliore tradizione retorica della Roma antica, a un certo punto la nostra inizia a parlare della vicenda di Isabella Viola (che definisce “una mia coetanea”, e torneremo su questo). Si tratta di un fatto di cronaca che ha molto colpito la capitale un anno fa. Una giovane donna, madre di quattro figli, di professione barista, muore di un malore su una linea della metropolitana mentre andava al lavoro. Dalle cronache si evince che la vittima era affetta da uno stato di salute compromesso da ritmi lavorativi estenuanti, ai quali si sottoponeva pur di portare a casa uno stipendio, in condizione contrattuale che definire di puro sfruttamento è un eufemismo. Si trattava di ritmi lavorativi schiavizzanti, ai quali non è molto chiaro per quale motivo la giovane madre e lavoratrice si sottoponesse senza denunciare il fatto alle autorità o al sindacato. Si trattava di lavoro precario senza garanzie né tutele di nessun genere.
La vicenda è molto triste, e parla di un Paese senza rispetto alcuno per la maternità, dove essere madre non dà accesso ad alcuna tutela sociale, mentre uno stato di diritto dovrebbe garantire il sostegno economico e le infrastrutture adatte per la creazione di una famiglia anche in condizioni economiche sfavorevoli. Un Paese che impedisce alle donne lavoratrici di generare figli è un paese destinato a morire, e questo è un dato di fatto. Tuttavia, la vicenda di Isabella Viola non ha alcun rapporto con quella dei lavoratori atipici del mondo editoriale che Di Domenico in teoria rappresenta.
Il caso viene scelto su base generazionale, sorvolando sul fatto che la scelta di mettere al mondo quattro figli implica che la famiglia sia stato il progetto di vita centrale per questa donna, e che il lavoro estenuante sia stata una costrizione derivante dalla scarsa tutela economica che lo Stato ha riservato nei confronti di questa famiglia in difficoltà economica. Avere come progetto di vita la costruzione di una famiglia numerosa a partire dai vent’anni o – al contrario – una carriera nel mondo dell’editoria, ben sapendo che la maternità dovrà essere posposta almeno alla seconda metà dei trenta, ha delle implicazioni molto diverse. Nel primo caso, centrali sono le tutele legate alla maternità, il diritto all’assistenza, nel secondo caso quelle legate alle tipologie contrattuali e all’ottenimento di uno stato di benessere indipendentemente dalla costituzione di un nucleo famigliare.
Si tratta di lotte sociali molto diverse fra loro, ma francamente, che una precaria della cultura dedita al lavoro in editoria assuma come simbolo della lavoratrice della sua generazione una donna le cui scelte ruotano attorno a priorità diametralmente opposte come quelle di Isabella Viola, non può che essere percepito come operazione strumentale e tutto sommato, in ultima analisi, imbarazzante. Non si vede come una donna che parla di sé in termini di lavoratrice del settore culturale, senza figli, la cui unica voce di spesa rilevante su un bilancio tutto sommato nella norma è l’affitto, possa pensare di paragonare il suo caso e quello dei suoi colleghi che in teoria rappresenta – presumibilmente quei “ragazzi” che a 36/38 anni condividono case con altri precari pur di lavorare nel settore culturale – a quello di una madre di quattro figli che si è trovata ad affrontare una situazione lavorativa da incubo non ricevendo supporto alcuno da uno stato assistenziale indifferente e criminale.
In conclusione, è difficile, da lavoratori precari del settore cognitivo/culturale (come può essere anche un insegnante precario) sentirsi rappresentati dal discorso di Chiara di Domenico. L’occasione appare come completamente sprecata per mettere sul piatto delle priorità da tenere presente in campagna elettorale, entrando nello specifico di ciò che va cambiato con urgenza, e si risolve come l’ennesimo tentativo maldestro di cercare visibilità presso chi ha in ogni caso già esplicitato le proprie politiche del lavoro in caso di vittoria elettorale.