Accademia e depressione?

Una replica a “Accademia e depressione” di Franco Palazzi

Nelle ultime settimane sta girando molto sui social un articolo su accademia e depressione, scritto dal filosofo e saggista Franco Palazzi per Il Tascabile. Il sottotitolo recita “Un bilancio sul rapporto tra disagio mentale e gestione neoliberale dell’università”, e vuole essere una descrizione a volo d’uccello del rapporto tra depressione e università. Ha l’innegabile capacità di portare all’attenzione del dibattito italiano una questione che in ambito anglofono è dibattuta e ben raccontata. È un articolo che funziona anche perché ci dice (a noi accademici) quello che vogliamo sentirci dire, che il sistema è rotto e noi siamo le vittime. Quella che segue è una via di mezzo tra una risposta all’articolo di Franco Palazzi e una serie di riflessioni per aprire e allargare il dibattito. 

C’è una tradizione ormai consolidata di scritti sulla depressione nell’accademia, soprattutto di longform e di narrazioni personali. Specie nel mondo anglofono, questi articoli hanno effettivamente squarciato il velo e spinto molti e molte che non riuscivano a dare un nome al loro malessere, che si vergognavano di parlarne, a cercare aiuto e affrontare i propri incubi. Messe da parte ragioni individuali, personali e patologiche, ci sono molte altre ragioni, diciamo “collettive”, che portano chi lavora nell’università a soffrire di varie forme di malessere: alti ritmi di lavoro spesso non regolamentato; fortissima precarietà; dipendenza dagli umori di questo o quel supervisor/professore; lontananza dagli affetti e via dicendo. Ci sono due questioni però da affrontare subito. La prima: quante di queste cause sono specifiche del nostro lavoro e quante, invece, non riusciamo a vedere che riguardano tanti altri lavoratori e lavoratrici? E, seconda questione, queste cause sono diverse da contesto a contesto. Difficilmente infatti le università statunitensi, britanniche, e quelle italiane (per citarne solo tre) hanno somiglianze tali da poter essere tutte assimilate sotto la dicitura “accademia liberale”.

Quello che fa questo articolo – e non è di certo una novità data l’esterofilia imperante nel nostro paese – è riportare un dibattito anglofono in Italia senza specificare differenze e peculiarità. È una questione di metodo, ma anche politica, dato che “il metodologico è politico” come Palazzi rivendica: e se il metodo è la mancanza di contestualizzazione, il problema è anche politico. Infatti le differenze sono molte: un ricercatore appena uscito dal PhD che ottiene un incarico di lavoro in una università USA dovrà mobilitare una vasta gamma di skills (burocratico-amministrative, pedagogiche, di tutoring e consulenza di vario tipo) che invece una persona con un incarico simile in Italia non ha bisogno di mettere in gioco; quest’ultimo è però magari sottoposto a pressioni di tipo diverso, è remunerato molto meno, ed è costretto a correggere ed editare, spesso senza crediti, una gran mole di materiale.

Al ricercatore in Italia viene richiesto di pubblicare un tot per avere un avanzamento di carriera, e magari di pubblicare cose che lo rendano riconoscibile e identificabile dai propri colleghi, mentre quello in USA fa meno ricerca, può pubblicare meno, ma ha più libertà nella scelta dei propri temi. Il ruolo del privato poi, è completamente diverso, come gli studenti stessi sono molto diversi: è diversa la loro preparazione, ma soprattutto è diverso quanto sono o meno “clienti”. Parte del malessere, per chi lavora in USA, è il senso di solitudine e straniamento dovuto alla lontananza da affetti e da casa, situazione che più difficilmente si verifica in Italia così violentemente. Non è questione di fare classifiche, decidere dove è meglio o peggio: è semplicemente diverso. Insomma, l’accademia neoliberale non esiste, è una semplificazione da slogan: esistono le accademie neoliberali, ognuna con le sue caratteristiche, ognuna con le sue malattie ogni tanto comuni, ogni tanto no.

Ed esistono, queste accademie neoliberali, solo come parte di un tutto. Il rischio infatti è quello di finire per isolarsi, per parlarci addosso, per parlare solo di noi. È un equivoco di fondo che mi pare sia presente anche nell’articolo di Palazzi, che dice di non voler parlare solo dell’accademia, che il ragionamento è generale e copre vari aspetti del lavoro cognitivo o meno, ma poi parla precisamente solo dell’università. Finendo per considerare, implicitamente, l’accademia come un luogo a sé stante rispetto al resto della società. Su questo uno degli autori che sembrano aver più ispirato Palazzi, Mark Fisher, è molto chiaro: in Realismo capitalista (Zero Edizioni 2018) infatti evita accuratamente questa procedura, e costruendo delicati network e sistemi complessi ma con chiavi accessibili a tutti riesce a inserire sempre le problematiche dell’accademia nel contesto neoliberale e del capitalismo avanzato. In questo senso la questione non è l’accademia neoliberale, ma l’accademia come parte del neoliberismo.

Può sembrare un dettaglio, ma non lo è. Anche perché parlando di depressione e accademia, limitandoci ed estraniando questo settore, si ripete un fastidiosissimo tic che abbiamo noi accademici, cioè sentirci depositari di saperi universali che però solo noi sappiamo sbrogliare. E quindi anche il malessere e la depressione sono solo nostre, e non diffuse in diversi settori della società occidentale attuale – o passata, se ne parlava solo meno e gli si dava nomi diversi, come “esaurimento nervoso”. Finché, come accademici, non ci poniamo questi problemi come parte di un tutto e li isoliamo come se fossero solo nostri, non solo abbiamo perso in partenza ma stiamo facendo qualcosa fondamentalmente di destra, una dannosissima forma di individualismo di categoria – ben diversa, naturalmente, da legittime e necessarie rivendicazioni sindacali, che però difficilmente trovano posto in queste discussioni sulla natura dell’accademia e dei suoi mali. Il titolo del pezzo di Palazzi, suppongo non dell’autore, in questo è rivelatorio: “accademia e depressione”, congiungendo e mettendo sullo stesso piano le due, invece di costruire un rapporto conflittuale o evidenziare come l’accademia deprima perché parte di un sistema più ampio. Attenzione, non sto negando che il nostro lavoro sia o possa essere deprimente; sto dicendo che il problema non va isolato né bisogna elevare la nostra condizione a caso simbolo.

Parte della questione sta nella natura della nostra professione, dell’interesse e la passione che ci mettiamo. Scrive Palazzi: «l’insegnamento e la ricerca vengono descritti come attività svolte per passione, soddisfacenti in se stesse e perciò – secondo una logica perversa che concepisce il lavoro salariato come mera sofferenza – non degne di essere regolarmente pagate. Si avverte qui una chiara eco di ciò che negli anni ’70 le femministe chiamavano labour of love nella loro critica serrata del lavoro domestico gratuito».

Ci sono due, enormi, problemi in questo passaggio. Il fatto che debbano essere retribuiti non esclude che insegnamento e ricerca siano fatti anche per passione, che pensare, discutere, argomentare, scrivere questo articolo (che sto, piacevolmente, scrivendo senza essere remunerato) siano attività che possano essere svolte con e per passione, peraltro non confinata solo nell’università ma liberata in altri ambienti attraversati dal desiderio di capire in maniera profonda come stiamo insieme. Ho molti dubbi che tutto ciò valga per molti altri lavori, che valga per molte delle persone con cui interagiamo quotidianamente fuori e dentro l’università – perché, e di questo sì che non si parla mai abbastanza, l’accademia è fatta anche di decine di persone che non insegnano e non fanno ricerca, ma puliscono i cessi che usiamo, ci servono da mangiare, ci consegnano i badge con cui entriamo negli edifici universitari, mandano avanti la macchina amministrativa e via dicendo. E lascio volutamente da parte il lavoro gratuito militante, che aprirebbe un altro discorso, uno che riguarda (e unisce) tanti e tante di noi che sono o non sono accademici.

Il problema è che proprio quella passione fa parte del meccanismo perverso che spinge molte persone che lavorano nell’accademia, e in altri ambiti, ad accettare condizioni di lavoro non dignitose, seguendo un riflesso condizionato per cui noi dobbiamo assolutamente fare il lavoro che amiamo, le persone che fanno altri lavori affari loro. Questa passione infatti sembra talvolta assumere i connotati epici di una missione: soltanto io posso fare questo lavoro, e non posso proprio fare altro, devo per forza fare il lavoro che mi piace e quindi continuerò sempre e comunque senza prendere in considerazione altro, anche a costo di sacrifici enormi. È una scelta personale assolutamente legittima (che tra l’altro chi scrive ha in parte fatto), che però sta diventando l’archetipo su cui si fonda una mitica auto-narrazione. Però, parafrasando Cesare Pavese, fuori dall’accademia «c’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere».

Il secondo problema del passaggio di cui sopra ha a che fare con un purtroppo sempre più diffuso utilizzo di fonti e questioni femministe completamente fuori contesto: un utilizzo che finisce per banalizzare l’esempio a cui viene applicata e la fonte stessa. L’analogia con labour of love, in questo caso, è profondamente problematica e rischia di portarci fuori strada, poiché implica che un accademico abbia la stessa, poca, autonomia decisionale di chi era/è costretta al lavoro domestico gratuito, che siamo soggetti subalterni allo stesso modo. Rivendicare che non siamo privilegiati, che soffriamo di patologie e spesso ci mancano le più basilari sicurezze lavorative non può e non deve portarci a paragonarci a soggetti con ancora meno garanzie e più subalterni di noi. Il rischio è replicare un meccanismo riflessivo vittimizzante di cui molti (troppi) accademici sono, appunto, vittime. Un riflesso spesso automatico che va oltre le intenzioni, parte di un nuovo senso comune.

Come ha scritto di recente Alberto Prunetti, vittimismo e conflitto non vanno a braccetto. Non è un caso se le reazioni che sta suscitando l’articolo di Palazzi sono di riconoscimento reciproco. E quindi che fare? Palazzi scrive: «Poiché il metodologico è politico (e in questo contesto in maniera specialmente evidente), interrogarsi sull’impasse del discorso accademico sulla depressione non è un mero esercizio di stile, ma rappresenta un passaggio ineludibile di una mobilitazione politica in merito».

Naturalmente la mobilitazione politica in merito è assolutamente necessaria, ma l’obiettivo dell’articolo di Palazzi e di altri simili sembra più quello di generare una, assolutamente legittima, riflessione collettiva su quanto siamo sfruttati e vulnerabili, svuotata però di conflitto. Ma davvero abbiamo bisogno di dirci l’un l’altro quanto stiamo male? Non lo sappiamo già? Ricordarcelo e gridarcelo ci aiuta a fare qualche passo in avanti? A scatenare quella mobilitazione politica di cui sopra? Non c’è il rischio che sia solo tanto, e tristemente, autoassolutorio?

Grazie a Ilenia Rossini, Erik Scaltriti, Giulia Sbaffi, e Luca Zamparini per aver letto e discusso con me questo articolo.

 

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