A Series of Devious Stratagems

Il Padiglione Albania alla #Biennalearte2015. Intervista a Marco Scotini

Nel suo lungo confronto con Walter Benjamin, Theodor Adorno una volta notò che la conoscenza della storia deve andare oltre «la logica infausta della successione di vittoria e disfatta», per rivolgersi piuttosto «a ciò che non è entrato in questa dinamica, a ciò che è rimasto per via». Sono proprio questi “punti ciechi” a comporre la storia e l’eredità della Guerra fredda, oltre la retorica della contrapposizione tra blocchi. Ed è a partire da questa “costellazione spettrale” che il Padiglione Albania, rappresentato da Armando Lulaj e curato da Marco Scotini, sviluppa una complessa drammaturgia, che tiene insieme lo scheletro di una balena – revenant del Leviatano e figura del leader comunista Enver Hoxha – e una serie di devious stratagems, i nemici inventati per consolidare il potere politico e costruire un’identità comune. Perché, come ci ricorda Scotini «la necessità contemporanea di confrontarsi con la storia ha meno a che fare con le rovine che con i suoi spettri».

Michela Gulia: In La lettera rubata di Marx, Fredric Jameson torna sul testo di Derrida, Spettri di Marx, descrivendo la spettralità come «ciò che fa vacillare il presente», «una vibrazione attraverso cui la stabilità della realtà prodotta dal senso comune [common sense], trema come fosse un miraggio». Entrando nel padiglione albanese lo spettro che incontriamo sembra essere lo scheletro di una balena, un oggetto apparentemente fuori contesto e “fuori di sesto”, tradizionalmente collocato nei musei di storia naturale, dove la rappresentazione del tempo segue le dinamiche dell’evoluzionismo darwiniano. La trilogia filmica di Armando Lulaj lavora intorno a questo oggetto facendoci entrare nella storia politica del Paese, negli anni della Guerra fredda, attraverso episodi frammentari, “spie” che hanno a che fare non tanto con il passato, quanto piuttosto con una sua repressione nel presente. Quali sono i significati e le funzioni di questa complessa “macchina del tempo”, il display del padiglione albanese, come hai già avuto modo di definirlo? Per quale motivo secondo te oggi sembriamo aver bisogno della spettralità?

Marco Scotini: Il capodoglio al centro del padiglione albanese è ridotto a uno scheletro lungo undici metri. Colpito al largo di Valona dalla marina militare albanese nel 1963, che lo aveva scambiato per un sottomarino americano, l’animale da quel momento è sempre stato in esposizione al Museo di storia naturale di Tirana e solo ora è stato restituito al suo contesto politico originario. Non più sul terreno discorsivo delle scienze biologiche ma su quello storico-sociale degli effetti del potere. Gli spettri del comunismo contro l’attualità del capitalismo non cessano di ritornare ma, in questo caso, la balena è piuttosto una ricomparsa della Guerra fredda. L’Albanian Trilogy di Lulaj è, di fatto, una messa in forma dell’ideologia del nemico. Al suo centro c’è lo Stato moderno e le forme della sua rappresentazione: i gap diplomatici, le retoriche della sicurezza, l’invenzione dell’identità comune e la necessità della coesione sociale. In Albanian Trilogy la balena non è soltanto il primo dei tre emblemi che figurano rispettivamente in ciascun film (un pesce, un uccello e un monte), è anche il più importante. Sono tali emblemi che finiscono per rappresentare gli spazi dell’ordinamento geopolitico del potere, i campi di forza planetari attraverso cui si esercita il dominio dell’uomo: con la suddivisione dello spazio, la programmazione del tempo, l’espropriazione delle risorse, l’assoggettamento dei corpi. Se il capodoglio è associato alla potenza del mare, il segreto custodito dal monte Shpirag (al centro del film Never) rimanda alle potenze terrestri, così l’aereo di addestramento americano del film Recapitulation richiama, infine, lo spazio aereo. Uno spazio quest’ultimo che, come quello aperto del mare, eccede la territorialità statale e, in quanto tale, diventa il luogo deputato del nemico. Di fatto questi grandi spazi politici, e i corrispondenti elementi, vengono a coincidere perfettamente con quelli mitologici e giuridici della storia universale di Carl Schmitt. Anzi, la forza eversiva di tale completa coincidenza sta proprio in una sorta di profanazione che in Albanian Trilogy viene inferta a tali categorie mitopoietiche, nel momento in cui a emergere sono le loro stesse condizioni di storicità. A manifestarsi in ciascuna di tali circostanze (contingenti e accidentali quali possono essere un bersaglio mancato, un geoglifo di propaganda cancellato o l’incidente di un aereo spia americano) non c’è alcunché di atemporale o arcano, ma proprio e soltanto l’ordito del potere come tale: le sue narrative di legittimazione, i suoi meccanismi di controllo, la giustificazione e la costruzione carismatica della leadership. Oggi, nel pieno dispiegamento delle forme di dominazione che abbiamo chiamato “governamentalità”, si insinua qualcosa che ci riporta al passato e alle vecchie istanze giuridiche del potere sovrano: qualcosa che ci impedisce di poter leggere chiaramente cosa sta accadendo alle cosiddette democrazie occidentali del post-socialismo.

M. G.: A partire da Moby Dick la balena è simbolo del Leviatano, il mostro biblico marino che Hobbes ha associato alla figura dello Stato–nazione e che Carl Schmitt ha definito come una costruzione politica fondata sull’opposizione amico-nemico. Questa “macchina mitologica”, parafrasando Furio Jesi, questa mitologia senza mito – un’espressione che sembra richiamare Il Piedistallo Vuoto, senza monumento, di una tua mostra precedente – è parte integrante della storia politica dell’Albania così come ce la mostra Lulaj, presente fin dal sottotitolo della trilogia: A Series of Devious Stratagems. Che posizione hai cercato di tracciare per il padiglione albanese, all’interno di un contesto espositivo, quello della Biennale, storicamente articolato per padiglioni nazionali? Che “regime di storicità”, richiamandoci a François Hartog, questa operazione mette in scena?

M. S.: Il fatto di lavorare sulla Guerra fredda ci ha permesso di concepire il padiglione come una time-capsule del passato, quando parlare di rappresentanza nazionale aveva ancora un senso. Per questo l’anacronistica insegna “Albania” compare in rosso come coronamento del padiglione, al di sopra della riproduzione di un bel quadro degli anni Sessanta di Spiro Kristo, un ottimo rappresentante del realismo socialista. I video all’interno, di fatto, prendono come loro soggetto fatti accaduti tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta, dunque contenuti e forme avrebbero dovuto riportarci a una precisa storicità: a qualcosa come l’“ora” o l’“adesso” abbiamo dato la forma dell’“allora”, sottraendoci ai reali neo-arcaismi del presente. Ma se c’è una sorta di matrice iconica che permane dietro le metamorfosi dei diversi elementi del potere, questo è perché la figura della balena raccoglie su di sé una incarnazione del gigante-Leviatano, il principio hobbesiano della sovranità e dello Stato moderno. Mostro fantastico, macchina e codice di funzionamento, persona rappresentativa: il Leviatano è il culmine della potenza sovrana e, come tale, è ciò in cui la ragione politica raggiunge il proprio apice e, allo stesso tempo, fa convergere le proprie contraddizioni. C’è una continua sovrapposizione in Albanian Trilogy tra la figura del Leviatano e quella del leader comunista albanese Enver Hoxha. La loro massima adesione è nel progetto Les 71 Oeuvres (2015) in cui Armando Lulaj interviene sul frontespizio dei settantuno libri che Hoxha ha fatto pubblicare fino alla fine della sua vita, e dove egli riscrive ogni volta da capo alleanze mutate, rotture e rivalità politiche contratte fino agli anni in cui il leader avrebbe rifiutato «ogni aiuto da imperialisti e revisionisti, ogni integrazione nel sistema mondiale dell’economia capitalista». La sostituzione, in ciascun volume, del ritratto di Hoxha con ognuna delle vertebre del cetaceo, è una perfetta sintesi del corpo politico del Leviatano, della politicizzazione della vita naturale come tale. In questo senso Albanian Trilogy è una vera e propria decostruzione del potere e delle sue forme a partire dai miti sociali che hanno operato all’interno di una delle più chiuse e internazionalmente isolate realtà politiche di tutti i Paesi socialisti della precedente Est Europa. Esibendo le sue strutture archetipiche, i tre film mettono in luce come i meccanismi del potere politico abbiano potuto assicurare una coesione sociale, l’invenzione di un’identità culturale, il consolidamento politico; come abbiano potuto declinare l’ideologia modernista del socialismo con le società arcaiche e tradizionali locali. Mostrano il ruolo che le narrative della sicurezza e quelle del rapporto antagonista amico-nemico (inclusione-esclusione) hanno esercitato all’interno dei confini nazionali piuttosto che all’esterno dello Stato. Costituiscono l’analisi più lucida e severa della costruzione ideologica della leadership carismatica e del gioco delle maschere di scena, dello scambio continuo di ruoli e attributi, di vita naturale e istituto giuridico, di realtà e propaganda.

M. G.: Recentemente hai fatto riferimento a un testo di Paolo Virno, Il ricordo del presente, che si misura con il fenomeno del déjà vu per indagare le condizioni di possibilità del tempo storico. Con “déjà vu” il filosofo italiano intende una ripetizione apparente di un episodio del passato, un “falso riconoscimento”. Alla tonalità emotiva della “fine della storia”, che ha coinciso con il dilagare di questo fenomeno, Virno oppone una riflessione sul presente ricordato. Si tratta di un’analisi che prende posizione rispetto al cosiddetto “pensiero postmoderno” (il testo è stato pubblicato nel 1999), individuando nei processi della memoria una frattura che pone il possibile non nel futuro ma nel passato, tornando così a rendere produttivo il tempo storico. Che ruolo ti sembra giocare oggi, nell’attuale contesto politico, la discussione sulla storia, la memoria e il tempo? E in che modo la tua ricerca si è orientata all’interno di questo dibattito?

M. S.: Come ho detto più volte, la necessità contemporanea di confrontarsi con la storia ha meno a che fare con le sue rovine che con i suoi spettri. La ripetizione (lontano dall’essere citazione postmoderna) non è mai il ritorno dell’identico. Non è un’operazione di duplicazione per cui una cosa precedente farebbe ritorno come tale, come alcunché di compiuto e di assoluto. Si tratta di un’operazione sul tempo, ma anche “contro il tempo” e in favore di un tempo a venire. Al qui e ora si attribuisce una forma-passato che riporta l’enunciazione attuale a un allora, come potenzialità rispetto alla realtà che sta accadendo: come la facoltà che consente questa stessa presenza dell’adesso, dell’ora. L’anacronismo che è al cuore di molta ricerca estetica attuale insinua nella narrazione una zona d’indecidibilità tra il possibile e il reale che trova nella ripetizione la propria condizione di possibilità. In sostanza, si percepisce qualcosa del presente come se fosse già avvenuto, allo stesso modo che – viceversa –percepiamo qualcosa che è già avvenuto come presente.

Come articolare – nella cosiddetta fine della storia – il passato, il presente e il futuro? È possibile interrogare storicamente il nostro attuale rapporto con il tempo?

Quello che vediamo come un arresto della storia è, al contrario e per citare Virno, “l’epoca in cui la storicità dell’esperienza si lascia esperire storicamente”. Se essa pare arrestarsi è per quello stesso motivo che, all’opposto, la sospinge in modi imprevisti. A venire alla luce sono infatti le stesse condizioni di possibilità del tempo storico, la matrice piuttosto che la trama. Quando non c’è più un oltre o un fuori sociologico a fondare la differenza storica (quando non c’è più un tempo-misura) è allora il tempo come tale a manifestarsi nella sua potenzialità, a diventare l’attore principale, la fonte. Nonostante la difficoltà di determinare una differenza che sia immanente al tempo, e non più esterna ad esso, la relazione indissociabile tra attuale-virtuale, propria del tempo-potenza, è quella che più si presta a tale obiettivo. Alla memoria spetta dunque il compito di fungere da organo di modalizzazione del reale trasformando l’attuale in virtuale o il passato in presente. È la memoria che modella la plasticità del tempo, e cioè la sua indeterminatezza, permettendoci di riaccedere dai discorsi alla facoltà di enunciare e dalle azioni al poter-fare. Solo così cerchiamo di resistere al capitale che vorrebbe strapparci il futuro.

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