Un estratto dal libro “A fine turno” (Ombre Corte, 2021) di Karen Pinkus.

Si presenta qui un brano dal libro di Karen Pinkus, A fine turno, pubblicato da Ombre Corte. Tra teoria critica e ricerca d’archivio, mettendo al centro del proprio discorso un film “minore” di Monicelli (Renzo e Luciana da Boccaccio ‘70), la ricerca dell’autrice tratta di lavoro, macchine e vita nel cinema italiano degli anni sessanta. E non solo, dal momento che l’analisi si articola anche attraverso un dialogo di quel cinema con altri film: coevi e no; stranieri e no. Quanto segue mostra, tra le tante cose, buona parte di questo approccio comparatistico.
Nel film-saggio di Harun Farocki, Gli operai lasciano la fabbrica (Arbeiter verlassen die Fabrik, 1995), c’è la presenza dell’Italia degli anni Sessanta, con momenti da Deserto Rosso (Antonioni, 1964). Scioperanti marciano in strada, fuori dalle mura di uno stabilimento industriale vicino Ferrara. Non sono violenti né tantomeno esuberanti quanto piuttosto determinati e robotici nei loro movimenti sotto una leggera pioggia. Come se scioperare fosse una attività quotidiana. Nel frattempo, la scena in questione è davvero solo una scusa per Antonioni per introdurre la sua protagonista, Giuliana, interpretata da una “spettrale” Monica Vitti, in campi medi e primi piani. Lei – e la macchina da presa – stanno di lato, mostrando una estrema indifferenza per il destino dei lavoratori. Non ho alcun dubbio che la scelta di Farocki di mostrare questo momento rifletta la seguente duplicità: c’è una parata triste, che sembra e si sente come qualcosa di autentico (Antonioni come documentarista) mentre le riprese di Giuliana rendono il suo comportamento impulsivo come fosse un fatto estetico, visivamente e sentimentalmente (Antonioni come autore psicologico, poeta della nevrosi). Ma per quanto Deserto Rosso sia intellettualmente stimolante e visivamente splendido, la scelta della sequenza dello sciopero da parte di Farocki potrebbe apparire inusuale. A tutti gli effetti, non vediamo gli operai attraversare la soglia dallo spazio del lavoro al mondo esterno. Più tardi, quando poi Antonioni porta la sua macchina da presa dentro a quello che è, per lui, uno spazio altamente estetizzato, abbiamo accesso solo al centro di controllo della fabbrica: un muro solido di manopole e metri esaminati da dirigenti. Il cervello, insomma, non le viscere.
Farocki guarda poi a un altro riferimento italiano: le donne nel primo film di Pasolini, Accattone (1961), quando lasciano la spazzatura dove sono impiegate e passano davanti a un pappone – il protagonista – che le valuta. Un ritratto triste delle possibilità relative al tempo speso dopo il lavoro. Il tedesco avrebbe forse ottenuto di più avvalendosi di un altro film di Pasolini, il documentario Comizi d’amore (1963), in cui il regista porta la sua macchina da presa e il proprio microfono a intervistare operai all’esterno di una fabbrica di Milano. In un altro film del regista italiano, Teorema (1968), vediamo un giornalista fare la stessa cosa dopo un turno alla Innocenti. In entrambi i casi, la presenza della macchina da presa fornisce una opportunità per il dialogo: tuttavia, i lavoratori rimangono cauti. Forse, come nota Alquati nel caso della Olivetti, sono stufi delle analisi sociologiche di Sinistra relative alle loro posizioni di classe. Edipo re (Pasolini, 1967) include invece immagini di operai uscire dalle acciaierie Falck di Sesto San Giovanni. Qui l’interazione tra l’apparente mancanza di consapevolezza della presenza della macchina da presa/sguardo esterno indagatore e il film che stiamo guardando – per lo più situato in un passato distante e orientalizzato – restituisce una dinamica complessa e, forse, persino più dolorosa.

Mezzo secolo prima, troviamo operai uscire dopo aver finito il turno in un film come nel melodrammatico Acciaio (Ruttmann, 1933). Il regista ingaggiò operai a tutti gli effetti come comparse, persone che realisticamente eseguissero i gesti che normalmente facevano tutti i giorni: timbrare il cartellino, recuperare le biciclette, tornare a casa. Il tutto mentre si attraversa la soglia tra lavoro e vita. Ruttmann ci porta inoltre all’interno dello stabilimento e lì indugia per un po’, insistendo – sorprendentemente – su corpi maschili sudati e muscolosi, oltre che sulle scintille dei macchinari infernali che danzano come astrazioni animate. In certi momenti, Acciaio sembra come un film precedente del nostro, Berlino. Sinfonia di una grande città (1927), in cui l’espressione di una forza industriale sovrasta la presenza di una storia alquanto effimera di due rivali in lotta per l’amore di una ragazza del posto apparentemente un po’ sciocchina. A ogni modo, Ruttmann fu la scelta registica di nientepopodimeno che Benito Mussolini. Il Duce voleva un regista tedesco per mostrare la forza nazionale mentre Luigi Pirandello, autore del romanzo da cui Acciaio era tratto, faceva pressioni per Sergej M. Eisenstein. Pirandello avrebbe preferito una minore focalizzazione sui macchinari e una maggiore rilevanza data alla vita degli operai. Alla fine, Acciaio è un film che soprattutto include corpi e macchine dentro una vera acciaieria (Terni, in Umbria), sebbene non in movimenti ripetuti in tempo reale come nella catena di montaggio fordista. Come mostrato da Chaplin in Tempi moderni (1936), questo genere di film – o meglio, di scena – ha dei limiti: la macchina da presa e il nostro “vagabondo” entrano in fabbrica con le migliori intenzioni, ma viene fuori che non si può fare nulla a lungo senza che l’umanesimo dell’attore intervenga.
Sembra impossibile che Monicelli, nel concepire questi due riferimenti d’apertura – l’orologio e il piano riempito con impiegati identici che si alzano dalle proprie scrivanie – fosse all’oscuro di due illustri precedenti cinematografici. Il primo è il film muto di King Vidor, La folla (1928), esso stesso influenzato dal lavoro di Walter Ruttmann, Berlino. Sinfonia di una grande città, mentre il secondo è una uscita del 1960, prodotta e diretta da Billy Wilder, L’appartamento. Entrambe le opere, realizzate a Hollywood, sono ambientate a New York. Entrambe si muovono da inquadrature iniziali esteriori di grattacieli con uffici a set. Non ci provano nemmeno a rendere la transizione continua. Dopo tutto, stanno lavorando con codici molti diversi da quelli del trincerato realismo del cinema italiano. Queste sequenze, da un fuori a un dentro, dislocano lo spettatore da una costa all’altra, dal “vero” mondo del lavoro al set di un film, in modi che saranno importanti per una lettura di Renzo e Luciana. Tutte e due i film zoomano su di un impiegato alla sua scrivania, ma solo dopo una ripresa in grandangolo e profondità di campo per esagerare, il più possibile, l’uniformità e l’enormità degli uffici contabilità dove i rispettivi protagonisti lavorano.
Quando la macchina da presa di Vidor piomba sullo spazio e lo attraversa, capiamo che la ripresa è una ripresa impossibile, e cioè un qualcosa di puramente filmico. Così sappiamo che su un piano siamo a Hollywood, dove i set venivano aperti per far entrare la luce della California. La stessa cosa è comunque vera per il teatro di varietà dove l’infelice Sims cerca la propria distrazione alla fine del film, con moglie, figlio, e gruppo di altre persone a seguito. Se si vuole, è questo dislocamento (New York = uffici e lavoro vero; Hollywood = spazio infinito, sole, e falso lavoro), oltre al fatto che lo riconosciamo e lo neghiamo, a rendere un film come La folla così capitale. Non c’è uno spiazzamento o una dualità simile nel cinema italiano, è chiaro. I registi italiani non riprendono in questo modo per tutta una serie di ragioni: finanziarie, culturali, ma soprattutto per la tradizione del realismo e delle riprese dal vero che caratterizzano in maniera intrinseca la loro cinematografia.
