Diari di campo: Resilienze: percorsi femminili nell’Italia dell’accoglienza

Capita a volte che io vada in qualche scuola media superiore per partecipare ad incontri sui temi del diritto d’asilo e dei rifugiati. I ragazzi mi dicono che per loro un rifugiato è una persona che scappa dalla guerra, o un uomo che è stato perseguitato per le sue idee politiche. La persona che di solito mi accompagna e porta la sua testimonianza di rifugiato è il più delle volte un ragazzo che, appunto, è scappato da una guerra o da una persecuzione dovuta alle sue idee politiche. Raramente ho una donna a fianco, e raramente i ragazzi mi citano esempi di donne fuggite per matrimoni forzati o perché attiviste in movimenti politici. Anche i media hanno questa tendenza a considerare il rifugiato come uomo: l’immaginario comune vuole e pretende che la persona in fuga e bisognosa di protezione sia esclusivamente di sesso maschile.

Sebbene la percentuale di donne rifugiate presenti in Italia sia inferiore rispetto a quella degli uomini (circa il 10% del totale nell’ultimo trimestre del 2011), ciò non toglie che questa percentuale nasconda un valore assoluto ben preciso di donne che fuggono dal loro paese, con problematiche molto differenti da quelle degli uomini. E non dobbiamo dimenticare che in alcuni paesi europei, come ad esempio Liechtenstein o Polonia, la percentuale di rifugiate sale fino a toccare il 70% (rapporto Eurostat 2011).

Lavoro per una cooperativa sociale che si occupa di adulti in situazioni di marginalità da una decina di anni. Quest’anno abbiamo dato avvio ad un progetto di accoglienza per donne rifugiate che è stato finanziato dai fondi dell’otto per mille del Consiglio dei Ministri. Quando ci è stato chiesto di progettare un servizio di questo tipo, abbiamo voluto guardarci attorno, conoscere quali erano le realtà che accoglievano donne rifugiate, quali metodologie utilizzavano e con quali problematiche si scontravano quotidianamente. Volevamo conoscere gioie e dolori di ogni giorno! Abbiamo viaggiato, abbiamo conosciuto gli operatori degli altri enti (istituzionali e non), abbiamo iniziato a progettare. Gli appartamenti sono stati ultimati, le stoviglie comprate e le tende attaccate. Tutto era pronto. Poi i primi ingressi e i primi avvii di progetto.

Ciò che risalta in un contesto con presenze unicamente di sesso femminile è la diversità delle storie di ognuna di loro, la peculiarità di ogni racconto e le lacrime di ogni ragazza. Perché queste donne hanno attraversato gli inferni, ma fortunatamente ancora piangono. Ed è proprio il pianto che nelle donne apre le porte e crea terreno fertile per il fenomeno della resilienza. In ecologia e biologia la resilienza è la capacità di un ecosistema, o di un organismo di ripristinare l’omeostasi, ovvero la condizione di equilibrio del sistema, a seguito di un intervento esterno (come quello dell’uomo) che può provocare un deficit ecologico, ovvero l’erosione della consistenza di risorse che il sistema è in grado di produrre rispetto alla capacità di carico. Mi piace pensare a questa definizione ogni volta che progetto il mio lavoro e che ho a che fare con le donne accolte nel servizio. La resilienza è la modalità di reazione a ciò che hanno vissuto e agli orrori che hanno attraversato: questi ultimi rappresentano infatti quell’intervento esterno che provoca una modifica in un organismo funzionante e in equilibrio. Le certezze che avevano vanno in frantumi e tutto ciò che avevano costruito si perde: è la fine? No. D., donna ruandese mezza utsi e mezza hutu fuggita dalle persecuzioni, arriva in Italia con la famiglia e si rimette in cammino: senza dimenticare ciò che è stato ma con la determinazione di costruire un futuro. Oggi ha una laurea in servizio sociale e sta scrivendo un libro sulla sua storia.

Le strade dopo la rottura dell’equilibrio sono molteplici, ma solo una permette a chi ha vissuto un trauma di essere ancora convinta della possibilità di poter ricominciare. Ricominciare è l’altra parola fondamentale del mio lavoro, quella che bisogna pronunciare all’avvio di ogni nuovo progetto ed esperienza. V., per esempio, è una ragazza del Kenya che ha frequentato l’università ed ha acquisito il titolo di maestra per scuole dell’infanzia nel suo paese di origine. Ha lavorato a scuola e ha la dolcezza necessaria per lavorare con i bambini. È fuggita da una famiglia che le voleva imporre la mutilazione dei genitali e uno sposo, ha voluto rivendicare il suo diritto di poter essere libera e di provare piacere con chi desidera. Adesso sta frequentando un corso per assistenti familiari, studiando materie in una lingua quasi sconosciuta ma che probabilmente ha già studiato e sulle quali si è laureata. Ha ricominciato.

La resilienza e il ricominciare sono due attitudini che hanno fortemente bisogno di essere intrise di realtà per poter esistere. C., sposata con figli e marito in Congo, ha gli occhi che brillano quando mi dice qual è il suo obiettivo oggi. Era un’attivista che lottava contro la dittatura del suo Paese, era una militante di un’associazione per i diritti ed è stata incarcerata, picchiata, torturata: sulla sua scheda medica si legge di chiari segni di sigarette spente sul suo braccio e di tagli inflitti con arma da taglio, in maniera precisa e decisa. Eppure sorride quando mi dice, nel suo italiano stentato e mezzo francesizzato, che vuole i suoi bambini qua con lei, e il suo uomo accanto. E che per ottenere questo può fare qualsiasi tipo di lavoro, poco importa quello che faceva in Congo. Questa è un altro paese e bisogna cogliere le possibilità esistenti, che possono permetterle di arrivare a raggiungere il suo obiettivo.

Realtà è anche quello che mi ripeto spesso, per poter pensare di portare a termine un percorso raggiungendo gli obiettivi prefissati. Perché la realtà deve essere un aspetto chiaro non solo alle donne accolte nel progetto, ma anche agli operatori che vi lavorano e che ogni giorno spendono energie risorse e tempo. La difficoltà più grande come operatrice è sempre stata quella di lavorare con persone che hanno titoli e competenze nel loro paese di origine ma che non possono sfruttare in Italia per le più svariate motivazioni (mancanza di lavoro, difficoltà nel riconoscimento dei titoli, razzismo…). È un limite con il quale bisogna convivere e imparare a lavorarci pena la malriuscita dei progetti. Inoltre spesso emerge anche un’altra questione importante: la fuga implica, come è stato detto, un nuovo inizio dopo la ricomposizione in seguito al trauma e questo fa sì che gli obiettivi si modifichino, che la determinazione si acuisca e che le priorità si chiariscano.

Ogni giorno a contatto con le donne accolte nel progetto è un giorno di scoperte e di occasioni per imparare: imparare a vedere l’Italia con gli occhi di chi l’ha sognata a lungo, imparare a conciliare le diversità culturali per creare una cultura nuova, dove tutti possano trovare il loro spazio.

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