2021: Odissea nel cinema italiano

Aspettando la riapertura della sale: un bilancio del nostro cinema.

Fonte: pagina Facebook Lavoratrici e lavoratori dello spettacolo

A causa del Coronavirus, per la prima volta nella storia del nostro cinema le sale sono state chiuse, i festival annullati o rinviati e i set vietati, anche se proprio in queste ore si sta raggiungendo un accordo per  farli ripartire entro fine mese in sicurezza. Diverso è per gli attori e per tutte le figure professionali meno note, quelle, per intenderci, cui all’ultima edizione dei David di Donatello è stato precluso persino un fugace intervento via Skype: dagli sceneggiatori ai montatori, dalle maestranze agli uffici stampa, nonostante i sindacati abbiano rilevato una situazione insostenibile, casi di reale indigenza e persino licenziamenti illegittimi. I mancati incassi non sono solamente quelli delle sale, di cui molto si sta parlando, ma anche quelli di ogni professionista del settore, il cui lavoro è in molti casi atipico, precario, discontinuo, intermittente, nonché ignorato da buona parte della critica cinematografica, che persino in questa fase ritiene di dover dare ampio spazio a volti noti, ben più garantiti. In realtà non si può parlare di cinema se non si parla dei suoi lavoratori. Il governo aveva dimenticato a marzo (con il Decreto Cura Italia) moltissimi di loro, lasciandoli senza alcuna entrata a partire da fine febbraio. Sono dunque sorti vari gruppi di professionisti che da tutto il territorio nazionale si riuniscono attraverso chiamate via Zoom, dividendosi in tavoli di confronto, compreso quello dedicato allo studio di come in altri paesi si è arrivati a leggi che tutelano specificatamente chi ha contratti intermittenti. Prima ancora che dallo Stato, un aiuto concreto per le troupe è arrivato da Netflix, con un fondo gestito da Italia Film Commissions e rivolto anche a chi lavora in televisione: si tratta di un contributo di 800 euro, che si ottiene attraverso un mini-sito ben più semplice da navigare rispetto a quello dell’Inps, considerato un incubo dalle partite iva che avevano fatto richiesta del bonus di 600 euro del governo a inizio aprile.

La richiesta di una riforma che sappia guardare oltre l’emergenza

Le richieste dei gruppi organizzati di professionisti, in cui i tecnici dello spettacolo sono una voce considerevole, sono le medesime: dapprima un reddito di emergenza per superare la fase caratterizzata dall’assenza totale di entrate, poi un reddito di continuità per affrontare il ben più lungo periodo in cui continueranno a non esserci presenze e dunque incassi comparabili alla media, dopodiché il rispetto del trattamento economico degli straordinari e dei turni festivi o notturni e l’accesso al sistema pensionistico. Ma soprattutto una riforma strutturale, non di facciata come è già successo, per un settore che è sempre stato poco ascoltato dal legislatore, che è solito interagire con i «padroni» di questa industria più che con i suoi «operai». Anche questi ultimi però hanno una parte di responsabilità, se è vero che alcuni non conoscono nel dettaglio né il contratto che norma la propria attività, né la Legge Cinema varata nel 2016 (di cui chi scrive si è occupata per il lavoro culturale per due anni nel silenzio generale, rintracciando assieme ad artisti e operatori culturali i problemi della proposta di legge, che già palesava limiti e rischi soprattutto per il cinema indipendente). I lavoratori dovranno essere coesi, al di là delle rispettive appartenenze, e praticare con regolarità l’associazionismo e l’interlocuzione con i sindacati e le istituzioni, bussando alla porta dei funzionari più che a quella del Ministro Franceschini.

Sabato 31 maggio, pur nel rispetto del distanziamento sociale, tredici città hanno visto svolgersi le manifestazioni più partecipate da decenni a questa parte, concluse con la proclamazione dello stato di agitazione permanente in ragione dell’indisponibilità del governo a convocare un tavolo di confronto tecnico-istituzionale immediato sulla riapertura. Decisione che non ha avuto risalto sulla stampa, fatta eccezione per il blog di Anna Bandettini su “Repubblica” che l’ha menzionata facendola precedere ad una lettera di alcuni attori.

Se tutte queste persone riprenderanno a lavorare con dignità e avranno misure di sostegno al reddito pensate al di fuori di una logica prettamente emergenziale, allora loro stesse potranno comporre il pubblico del 2021. Viceversa ne saranno tagliate fuori e al cinema ci andranno (e lo faranno) solo i più ricchi, che avranno probabilmente altri gusti e genereranno una domanda di cinema differente, venendo subito accontentati perché a comandare è pur sempre il mercato.

Per la prima volta si riconosce il lavoro intermittente

Pochi giorni dopo i David, con l’annuncio del Decreto Rilancio c’è stato un passo avanti di storica rilevanza per gli intermittenti. Fino ad aprile, infatti, chi non ha almeno un mese di contributi versati nel 2019 non aveva diritto a nulla, mentre ora la pressione esercitata dai lavoratori ha costretto ad abbassare da trenta a sette i giorni necessari, se iscritti all’ex Enpals (l’ente di previdenza dei lavoratori dello spettacolo) e con reddito inferiore a 35 mila euro.

Gli e le intermittenti sono per la prima volta state menzionate nel discorso di uno dei massimi rappresentanti delle istituzioni, ovvero quando il Presidente del Consiglio Conte, ha annunciato brevemente le misure a loro indirizzate dicendo  «Abbiamo un occhio di attenzione per i nostri artisti, che ci fanno tanto divertire e ci fanno tanto appassionare». Trenta giorni sembrano pochi a chi fa un altro mestiere, ma sono troppi per chi invece fa questo, considerando anche che spesso – per fare un esempio – i giorni che gli attori dedicano alle prove e ad altro lavoro connesso non sono pagati, quindi non conteggiati.  Quella annunciata dal governo, da cui si attendono in totale 98 decreti attuativi, è semplicemente una nuova prestazione per due mesi, ma un simile riconoscimento non c’era mai stato prima. Forse è arrivato il momento di battersi per una legge specifica che richiami quelle in vigore in altri paesi, Francia su tutti. Il cinema, inoltre, presenta delle specificità che non vengono considerate in molti degli appelli lanciati negli ultimi tre mesi (il sito Ateatro.it ne ha contati una settantina). Senza contare che molti film italiani vedono l’avvicendarsi di uno stesso gruppo stabile di grandi e noti attori, i quali si troveranno così a dover partecipare a più produzioni che appena possibile partiranno tutte nello stesso momento, ma che senza i doni dell’ubiquità e del teletrasporto dovranno far slittare.

Sono dunque vari i fattori che portano a ritenere che per oltre un anno potrebbe non esserci nessun film prodotto in Italia (contro i 193 distribuiti nel 2019; fonte: Anica) o comunque pochissimi rispetto a quelli che ci permettevano di essere tra i maggiori produttori al mondo e quarti in Europa (Fonte: The Numbers). Si tratta di industrie che ovunque generano qualche punto del PIL, per cui le confindustrie di ogni dove hanno tutto l’interesse a far ripartire il comparto locale e ogni paese vorrebbe avere questo primato.

Che cosa chiede il cinema indipendente

In tale panorama sembrava quasi utopico trovare delle proposte concrete, finché non è arrivata la lettera aperta scritta da alcuni esercenti (ossia gestori delle sale) indipendenti, consapevoli che potrebbe esserci una seconda ondata di contagi, che comunque non si raggiungerà la normalizzazione prima di un anno e mezzo e che avremo a lungo l’obbligo di mascherine e altri presidi sanitari. Nel Regno Unito, primo produttore europeo e tra i primi al mondo, un sondaggio ha previsto che i cinema indipendenti potranno sopravvivere con il social distancing non più di tre mesi, e questo ci anticipa qualcosa di quanto potrebbe accadere qui.

Nella lettera gli esercenti indipendenti italiani, cui il governo chiede di riaprire il 18 giugno senza curarsi del come, chiariscono alcuni problemi già esistenti nell’era pre-Covid e che riducono la loro libera scelta nella programmazione: «I media che in questi giorni pubblicano ragionamenti su cosa sia il cinema e su quale possa essere il futuro prossimo e il futuro tout court delle sale e del sistema cinematografico in generale, non sempre chiedono l’opinione a tutti i soggetti coinvolti e interessati: ne esce un’informazione parziale e sbilanciata sui grandi numeri e sui grandi gruppi». E rispetto ai film che saranno disponibili: «Non è comprensibile che ci siano centinaia di film che a un certo punto vengono eliminati dalla disponibilità delle sale. Che rimangono visibili in televisione, online, a casa ma non più in sala. Chiediamo che il cosiddetto “diritto theatrical” sia protetto permettendo così ai cinema di poter programmare anche film più vecchi all’interno di omaggi, retrospettive, cineforum. Chiediamo che i film prodotti per le piattaforme streaming o la televisione che sono stati distribuiti anche nei cinema rimangano proiettabili in sala nel tempo […] Sarebbe auspicabile inoltre rendere accessibile, previo accordo con gli aventi diritti, anche una parte di film e altri contenuti prodotti specificatamente per i servizi VOD alla fruizione in sala». Perché oltre alle limitazioni appena sottolineate c’è «un persistente conflitto di interessi all’interno della filiera distributiva-esercizio che privilegia sfruttamenti intensivi e rapidi che non tengono conto della possibilità di una curatela personalizzata dei cinema indipendenti. Rivendichiamo infine – last but not least – un mutamento di rotta rispetto al passato, chiedendo di liberare finalmente le potenzialità di una fetta di mercato che risente di condizioni inique incancrenitesi negli anni: minimi garantiti, teniture fuori scala, esclusive illimitate dei film in prima visione riservate a poche sale e senza limiti di data, quote di noleggio elevate, impossibilità di fare la multiprogrammazione (se non con i film dei distributori indipendenti).»

Una lettera che denuncia insomma la mancanza di libertà che ogni operatore culturale, programmer in testa, dovrebbe poter esercitare e che è invece negata da altre figure professionali che operano in modalità gerarchica. I firmatari scrivono poi che «la sala è anche il dibattito, l’esperto che racconta e integra, il critico che approfondisce, il regista che spiega, il cast che racconta, il curatore che propone una rassegna, l’appuntamento settimanale con la cultura, l’intelligenza, il pensiero critico. Ma, soprattutto, la sala è il suo pubblico. Pubblico che condivide emozioni, dubbi, pensieri, insieme.» A riguardo va solo aggiunto che esistono purtroppo spettatori cui tutto ciò è impedito per il fatto di vivere in quelle che nell’ambiente chiamiamo “zone desertificate”, dove il cinema non c’è e quello più vicino è lontano chilometri, magari all’interno di un centro commerciale dove autori e cast passano raramente e solo quelli dei film mainstream. Al pubblico va chiarito inoltre, e la lettera qui citata lo fa, che gli indipendenti usufruiscono «in modo inversamente proporzionale dei finanziamenti per lo spettacolo, che premiano le società più grandi e con ricavi commerciali già di per sé elevati».

Perché non andiamo al cinema tutto l’anno?

Ci sono altre questioni che rimangono in sospeso pur ripresentandosi ad ogni incontro professionale a Mantova o a Sorrento, come ad esempio la destagionalizzazione, ovvero il fatto che di norma le presenze in sala calano sensibilmente ad aprile e riprendono solo a partire da fine agosto. Per sopperire alla scarsità di incassi durante il periodo estivo, la scorsa estate è stata lanciata Moviement, una campagna della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo presso il Mibact che aveva come claim «Per la prima volta in Italia tutto il mondo dell’industria cinematografica si è unito in modo compatto per rilanciare il cinema». Peccato sia falso. Innanzitutto, ha partecipato solo chi ha ritenuto che certi film imposti – cito Godzilla 2, Pets 2, Toy Story 4, Annabelle 3, Men in Black: International, Fast & Furious – Hobbs & Shaw – fossero tra quelli che necessitavano di un simile aiuto. La campagna, poi, ignora ogni regola di marketing e comunicazione, a partire da un sito senza contenuti che ricorda altri esperimenti falliti, come il flop clamoroso di Very Bello, lanciato durante il primo mandato Franceschini : all’epoca – era il 2015 – si trattava di favorire il turismo attraverso un sito dedicato con informazioni sulle bellezze italiche. Il sito si rivelò costoso, brutto, inutile, senza partecipazione dal basso, senza un’app collegata, e fu inaugurato senza nemmeno una traduzione inglese. Niente di più sbagliato quando si tratta di promuovere siti turistici. Similmente, la pagina Facebook di Moviement raggiunge con il post più importante il 5 maggio scorso la vetta di 13 like. E agli addetti ai lavori non è mai stato possibile consultare i dati dell’operazione (ammesso che oltre a chi scrive qui altri abbiano chiesto di poterli analizzare).

In che modo manterremo il nostro rapporto con il cinema?

Al di là delle criticità di Moviement, non è ancora chiaro se si avranno cine-drive o drive in, ma nel dubbio alcuni esercenti riuniti hanno lanciato #iorestoinSALA, e altri MioCinema, due nuove modalità per vedere film online, che hanno già un vincitore sicuro: MyMovies.it, partner di entrambe. Oltre a loro ci sono alcune piattaforme italiane che hanno saputo farsi conoscere sempre più negli ultimi mesi grazie a cataloghi affatto ordinari, come OpenDBB, Indiecinema o Streeen, le quali hanno dato spazio a prodotti indipendenti e documentari molto più di quanto faccia la Rai in un anno, nonostante l’obbligo a rispettare il contratto di servizio e la Legge Franceschini (220/2016). Tocca rilevare anche l’assurda presa di posizione dell’associazione degli esercenti ANEC in Lazio, che individuano il proprio nemico nei Ragazzi del Cinema America, rei di organizzare a Roma con il contributo del Mibact tre seguitissime arene alla presenza di autori e ospiti internazionali. Rassegne di cui parla mezzo mondo, e non a caso oggetto di attacchi squadristi che hanno mandato alcuni di loro all’ospedale solo perché antifascisti. La presidente regionale dell’Anec Piera Bernaschi, che gestisce il cinema Politeama di Frascati, arriva a scrivere: «Riteniamo che queste manifestazioni creino una grave distorsione delle regole di mercato», quando è vero piuttosto che nel panorama attuale a questi giovani dovremmo solo gratitudine e che i problemi del nostro cinema sono ben altri, da troppo tempo, tra cui quelli descritti dagli indipendenti.

Un’amica produttrice di documentari mi ha detto schietta: «Se non mi pagano gli ultimi tre bandi, chiudo per sempre». Crisi ed emergenza non sono termini intercambiabili ed è ormai chiaro che il futuro prossimo del nostro cinema dipenderà dalla volontà di prendere in considerazione le esigenze dei suoi lavoratori, in primis quelli che non badano unicamente alle logiche di mercato ma che con i loro presidi sul territorio insistono a fare resistenza culturale.

Fonte: il profilo Instagram di Nanni Moretti



 

Print Friendly, PDF & Email
Close