Esercizi di serendipity. Da un passaggio di 2666 di Bolaño all’asciugatura dei libri colpiti dall’alluvione di Firenze del 1966, da quei libri stesi a una fotografia di Mario Giacomelli, da Giacomelli a Burri che trasforma in museo quegli essiccatoi dei libri.
In un numero recente, la rivista Social Anthropology/Anthropologie Sociale (2/21, maggio 2013) dedica un’intera sezione al ruolo che nell’etnografia contemporanea ha la serendipity, termine che si sente tradurre sempre più spesso e con sempre più (sospetta) disinvoltura con “serendipità”. Nella storia di questa parola ci sono di mezzo le tre principesse di Serendip, isole dello Srī Lanka, e uno scrittore inglese del XVIII secolo, Horace Walpole, che su di loro scrisse una fiaba.
A voler definirla, la serendipità è l’arte di fare scoperte inattese, da non confondere con la natura accidentale e la sorpresa di qualcosa di semplicemente inaspettato (lo sa bene Lawrence Weschler, autore del meraviglioso Everything That Rises. A Book of Convergences). Il concetto attirava l’attenzione della rivista di antropologia per la possibilità di un’idea di serendipità come strumento euristico, ovvero come capacità metodologica di, attraverso appropriati percorsi di ragionamento e un idoneo sfondo teorico ed empirico, stabilire connessioni talvolta inattese fra gli elementi osservati nei mondi sociali sui quali gli antropologi pongono la loro attenzione. Ma si sa che gli strumenti metodologici si studiano e si allenano, e un buon campo di allenamento per la serendipità può essere la terra per eccellenza delle corrispondenze a vuoto: la letteratura. Ecco allora un episodio di allenamento involontario. Partenza da Roberto Bolaño.
La preoccupazione principale degli ultimi cinque anni di vita dello scrittore cileno Roberto Bolaño, morto a cinquanta anni nel 2003 per insufficienza epatica, fu quella di portare a termine la stesura della sua mastodontica opera 2666. Non fece in tempo. Morì prima della pubblicazione, che avvenne nel 2004 in Spagna e nel 2007 e 2008 in Italia (da Adelphi in due volumi, ora riuniti in uno singolo). L’opera, divisa in cinque parti, fece entrare subito Bolaño nel canone degli autori più importanti degli ultimi decenni. Nella seconda parte, La parte di Amalfitano, l’attenzione del narratore si concentra sulla vita di Oscar Amalfitano, professore di filosofia nell’università della violenta città messicana che Bolaño ha nominato Santa Teresa e che corrisponde alla Ciudad Juarez tristemente nota per aver reso famoso il termine “femminicidio”, che a differenza di “serendipity” non ha ricordi etimologici di principesse esotiche e fiabesche.
Amalfitano si è da poco trasferito in quella città ed è accompagnato da sua figlia Rosa. A un certo punto del racconto della sua vita a Santa Teresa succede qualcosa d’insolito. Senza ragione apparente, Amalfitano prende un libro (Testamento geométrico di un certo Rafael Dieste, poeta) e lo stende sul filo per la biancheria che lui e Rosa hanno installato nel piccolo cortile dietro casa loro:
Entrò nel casotto come se gli mancò l’ossigeno e da un sacchetto di plastica del supermercato in cui faceva la spesa ogni settimana con sua figlia estrasse tre mollette per i panni, che lui si ostinava a chiamare perritos, alla cilena, e con quelle attaccò il libro a un filo e poi rientrò in casa sentendosi molto più sollevato (p. 212 del volume unico Adelphi di 2666).
L’immagine del libro steso torna più volte in quelle pagine:
Il libro di Dieste era ancora steso insieme ai panni che Rosa aveva lavato quel giorno, panni che sembravano fatti di cemento o di qualche materiale molto pesante perché non si muovevano assolutamente mentre la brezza, che arrivava a tratti, faceva oscillare il libro da una parte all’altra, come se lo cullasse a malincuore o come se volesse cacciarlo dalle mollette che lo fissavano alla corda. (p. 218).
O:
Che esperimento è?, chiese Rosa. Quale esperimento?, disse Amalfitano Quello del libro appeso, disse Rosa. Non è un esperimento nel senso stretto del termine, ribatté Amalfitano. Allora perché è lì?, disse Rosa. Mi è venuto in mente all’improvviso, spiegò Amalfitano, è un’idea di Duchamp, lasciare un libro di geometria appeso alle intemperie per vedere se impara quattro cose della vita reale (p. 218).
Leggevo di quel libro steso e c’era un’immagine che mi si affacciava in testa, solo che non riuscivo a capire quale fosse. C’era qualcosa di cui sentivo di dover ricordarmi, ma non sapevo cosa. Un legame da stabilire e che però rimaneva sospeso. Un libro steso. Ma certo, mi dissi: l’alluvione di Firenze nel 1966, cioè 700 anni prima di quel 2666 che Bolaño aveva scelto per il titolo del suo capolavoro.
Il 4 novembre del 1966, l’Arno straripò a seguito di lunghi giorni di pioggia. I danni furono immani, e anche la Biblioteca Nazionale non sfuggì all’acqua limacciosa del fiume in piena. Una cospicua fetta della collezione libraria venne sommersa. Alla direzione della Biblioteca Nazionale arrivò un’offerta d’aiuto da un partner inatteso: gli essiccatoi del tabacco dell’Alta Valle del Tevere, in particolare quelli di Città di Castello. L’economia di quella vallata si reggeva sulla coltivazione e preparazione del tabacco e in quei grandi capannoni attrezzati venivano appese le foglie di tabacco che, attraverso un sistema di riscaldamento e ventilazione, venivano essiccate e preparate alle successive fasi della lavorazione. In quei giorni però non furono più delle foglie di tabacco a venire stese, ma libri e giornali e altri documenti cartacei della Biblioteca nazionale di Firenze.
All’operazione parteciparono circa 300 “tabacchine”, come venivano chiamate le tante donne della vallata che lavoravano nell’industria locale del tabacco (mia nonna, per esempio). C’erano soprattutto quotidiani, ma gli essiccatoi erano pieni anche e soprattutto di libri stesi: roba da far impazzire Amalfitano e Bolaño, ma da far impazzire anche il lettore in cerca di corrispondenze a vuoto e di strade euristiche felicemente senza uscita.
Ed è in questo clima di permissività che quel lettore si concederà nel procedere per accostamenti – arbitrari ma urgenti – che non potrà trattenersi dall’affondare ancora di più il colpo e perseverare in quell’attacco di mania da accostamento. Di fronte a quel passaggio di 2666 di Bolaño e al suo richiamo ai libri fiorentini stesi ad asciugare negli essiccatoi del tabacco di Città di Castello, appare alla memoria una delle serie più belle e importanti della storia della fotografia italiana, Il teatro della neve di Mario Giacomelli, in particolare una delle immagini che la compongono. Lì, i lievi panni stesi appaiono come un anello che unisce il libro messo all’aria del personaggio di Bolaño e le pagine aperte ad asciugarsi dall’acqua fangosa dell’Arno. Giacomelli scattò questa fotografia e le altre della stessa serie ispirandosi a delle poesie di Francesco Permunian, con cui collaborò negli anni Ottanta, e che oggi sono raccolte in un volume edito da L’Obliquo, Il teatro della neve – Poesie per Mario Giacomelli 1983-1986:
Bianchi lenzuoli in un labirinto di specchi
sono i giorni che un vento malsano sbatte
e ribatte quali bandiere di sconfitta.
Ci si potrebbe fermare qui e già accusarsi di essersi spinti troppo oltre, troppo al di fuori dal recinto già di per sé precario come quello delle suggestioni da corrispondenza. Andare oltre significherebbe disinteressarsi delle piste d’intelligibilità del mondo che da questi accostamenti potrebbero derivare, per sconfinare in territori dove ci si potrebbe aggrappare solo ai Baudelaire e a quegli artisti, poeti e teorici che talvolta paiono essere esistiti solo come grandi princìpi giustificativi di sconfinamenti irresponsabili.
Poi però, ammaliati da quella fotografia, può succedere di voler interessarsi alla biografia del suo autore, Mario Giacomelli, vissuto sempre nella sua Senigallia. Si scopre così che una delle sue prime mostre ebbe luogo nel 1983 proprio a Città di Castello, nella Biblioteca comunale. Ritrovato il breve catalogo, vidi che la maggior parte delle opere esposte erano i Landscapes, scattate negli anni Settanta.
Il testo che accompagna le foto ne parla come un tributo che Giacomelli fa ad Alberto Burri, che di Città di Castello è, ma fare una mostra a Città di Castello e inserirci un tributo ad Alberto Burri appare come qualcosa non di dovuto ma quantomeno di prevedibile, per certi versi. Molto meno prevedibile è invece aprire un libro su Mario Giacomelli pubblicato nel 1980 da Feltrinelli e, nel saggio del critico Arturo Carlo Quintavalle, trovare un esplicito accostamento fra Giacomelli e Burri. E il libro uscì tre anni prima della mostra di Città di Castello.
E non ci si può fermare qui, perché nel 1989 succede che ad Alberto Burri vengono ceduti gli essiccatoi del tabacco, ormai dismessi: sono quegli stessi edifici in cui vennero messi ad asciugare i libri della Biblioteca di Firenze e, ormai ce lo possiamo dire, il libro dell’Amalfitano di Roberto Bolaño. Burri fece dipingere i capannoni di nero, facendone una sorta di sua grande installazione artistica, e v’insediò il museo delle sue opere più grandi (quelle di dimensioni più piccole si trovano in un altro museo a lui dedicato nel centro storico di Città di Castello).
Come si dice, il cerchio sembra chiudersi: da un passaggio di 2666 di Roberto Bolaño all’asciugatura dei libri colpiti dall’alluvione di Firenze del 1966, da quei libri stesi a una fotografia di Mario Giacomelli, da Giacomelli ad Alberto Burri che trasforma in museo quegli stessi essiccatoi dei libri.
Ora basta, mi dico, fermiamoci qui. E allora, in momenti come questi, conviene andare a dormire, ormai a notte inoltrata. Con la testa sul cuscino, prendo il libro che quel giorno stesso ho poggiato sul comodino. È arrivato per posta poche ore prima. È un libro di poesie ed è appena stato pubblicato. Come fosse una monomania (ma è solo una coincidenza che stavolta ci possiamo permettere di trascurare), si tratta della raccolta di tutta la produzione poetica di Roberto Bolaño, ancora lui. Si chiama La Universidad Desconocida, è da poco uscito negli Stati Uniti per New Directions con il titolo The Unknown University e io, purtroppo ignorante di spagnolo, mi sono procurato quella edizione bilingue spagnolo/inglese, perché in Italia chissà quando uscirà. Il tomo è bello spesso, lo apro e, letta la nota della traduttrice e poi quella della moglie dell’autore, trepidante ma allo stesso tempo pronto ad addormentarmi, volto pagina e m’imbatto nel titolo della prima sezione del volume: è Novela-Nieve, Romanzo-Neve. La neve. Proprio come la fotografia di Mario Giacomelli, e proprio come le poesie che lo hanno ispirato. Che tutto il sapere sulla geometria venga rivisto, perché c’è da credere che i cerchi sono fatti per non chiudersi mai.
Sono momenti in cui ci si sente detective abili, selvaggi e abili, ma detective del niente, perché poi, non appena le si tira giù fra gli ingranaggi del mondo della ricerca e del mondo tout court, queste sono corrispondenze che si dissolvono con la stessa drammaticità di una bolla di sapone che esplode, qualcosa che più irrilevante di così non si può. Eppure, poi quando si sarà di nuovo alle prese con una ricerca vera, e quando succederà di giungere a risultati importanti anche grazie a quello strumento metodologico di quella serendipità di cui parla la rivista d’antropologia di cui dicevamo in apertura, allora ci sarà da essere grati alla perdita di tempo e spazio mentale delle corrispondenze a vuoto e magari, di fronte al computer con cui si sta lavorando al proprio vero articolo scientifico, recitare bisbigliando quelle certe poesie con la neve nel titolo.