14 maggio 1977

La sovversione nel mirino.

 

Per gentile concessione degli autori, Paolo Fabbri e Tiziana Migliore, pubblichiamo questo articolo contenuto nel testo di recente uscita curato da Sergio Bianchi Storia di una foto (DeriveApprodi, Roma, 2011).

Un segno rischioso

Raccontare un clima politico italiano a partire dalla «storia di una foto». L’esercizio di Sergio Bianchi è un trattamento ricostituente per la memoria, pensiero esteriore che non va custodito, ma disseminato. E, col senno di poi, riveduto e corretto. Accogliamo l’invito dell’autore a esercitarlo, attraverso un’analisi ravvicinata.

Una foto, fra tante del ’77, è divenuta «immagine iconica» e «simbolo» del movimento rivoluzionario. Per molti, questo è un risultato e una risposta pronta: se c’è un simbolo, allora vuol dire (inferenza), che si è fissata una convenzione collettiva. Pochi sollevano invece la domanda: perché quel fotogramma in particolare? Il simbolo è un segno rischioso. L’effetto che ottengono le grandi Icone, e soprattutto i Simboli di un’epoca o una data cultura, è l’opacità. Un’istantanea, dinamica e intricata, nel farsi simbolo diventa statica e compatta.

L’immagine assurta alla condizione di simbolo slitta dalla sua occorrenza concreta, che implicava densità, per la sopravvivenza delle cose nel segno, all’astratto, che le dirada. Si diffonde così tanto, ed è talmente riprodotta, che il consumo ha la meglio sul senso: ne sigilla i contenuti, determina un passaggio, dalla «specie» al «genere», che la rende «vaga», e provoca l’usura. L’immagine in questione prende una consistenza difficile da articolare e appare dunque indecifrabile, «misteriosa», aperta a tutte le letture possibili. Per recuperarne l’intelligibilità, e salvarla da eventuali derive, occorre risalirne il corso, sbrinando, con la mediazione segnica, la sua capacità simbolica.

Una foto di gruppo

Di 14 maggio 1977 circolano più versioni: alcune si correlano, per spazio, tempo e attori, allo scatto pubblicato l’indomani nel «Corriere d’informazione», ma non ne hanno la pregnanza né l’esaustività. Altre sono invece esemplificative delle pratiche di fruizione dell’immagine. Strettamente connessa alla fortuna della foto è infatti l’intensa attività di manipolazione che l’ha investita, con interventi di cropping e zooming. Frammenti di una totalità perduta? No, soluzioni corrette o scorrette – il perché lo vedremo. In ogni caso la foto appare già un funtivo di relazioni, testo tra altri testi, un paradigma.

Lo scatto del «Corriere», il migliore della serie, è il frutto di un’inquadratura riuscita, a grandangolo (fig. 1). Deve forse il suo successo a una cattura del tempo, fotografica, aggiustata su una composizione che è un piccolo capolavoro di arte scenica. Un’istantanea dove l’atto è colto in flagrante, ma che filtra l’effetto di reale con uno scorcio, un campo e un taglio pittorici. Una foto-sintesi.

In una strada urbana a doppio senso di marcia, sulla corsia più vicina all’angolo di osservazione, un giovane, di profilo e in passamontagna, sta per sparare un colpo di pistola. Questa aspettualizzazione1 si coglie dalla sua postura: braccia tese e gambe piegate, l’uomo si tiene in surplace, in direzione di un avversario collocato a destra ma che non vediamo, è nel fuori quadro. Un piano americano staglia lo sparatore contro il campo ampio in cui è inserito.2 Sapeva di essere ripreso? Sullo sfondo, ai lati estremi, due automobili fanno da quinta allo spazio: incomplete, marcano l’assenza di margini netti e dunque la continuità con l’immaginario spazio adiacente; simmetriche, centralizzano la figura dell’esecutore. La prospettiva è obliqua, a due punti di fuga esterni; il punto di vista, del fotografo e nostro, è a focale media, dal basso e leggermente a destra rispetto al focus del processo. Si trova però in perfetto asse con un tiglio che sta in mezzo al marciapiede. La banchina della strada – Milano, «via De Amicis», come si legge nel cartello sul muro, in alto a sinistra – è popolata e non da semplici passanti. Ciascuna delle figure che vi transitano è d’aiuto nella definizione narrativa e ritmica della scena, assumendo un ruolo da informatore e/o da osservatore.

Da quel lato della carreggiata c’è un uomo, ancora sulla strada, ma già in prossimità del marciapiede. Sbuca dietro allo sparatore e, giunto in sua difesa con una Molotov, ne ricalca la postura, pronto a lanciare. In termini semiotici è un adiuvante, oltre che un rilevatore, a livello cognitivo e timico, dell’acme dell’evento. Alle sue spalle si notano almeno quattro testimoni o «astanti», fermi a guardare mentre un gruppo compatto fugge in lontananza. Un secondo adiuvante, armato e con passamontagna e occhiali, vigila all’angolo della via, fungendo da «attante di controllo». Seguono, sempre da sinistra, una donna di schiena, che scappa, e un uomo impegnato a coprirsi il volto con un fazzoletto, per celare la propria identità o proteggersi dai fumogeni. A destra, nei pressi dell’auto bianca, sosta una figura anch’essa incappucciata e con pistola. È il terzo adiuvante, un «assistente partecipante», che osserva gli spostamenti dello sparatore, ma senza intervenire. Alla durata dispersiva dei dimostranti in fuga si contrappone la puntualità concentrata dei militanti, che però non attaccano, ma resistono a un’azione offensiva, presupposta ma non rappresentata. La scena ha una dinamica enunciativa plurale, caratterizzata da moti di adesione o repulsione e, tra gli aderenti, da differenze di approccio allo scontro.

Si osservi da vicino la distribuzione spaziale di questi attanti. A ben guardare, la struttura figurativa di posizioni e sguardi dà molti appigli per l’orditura di diagrammi di forza. Nella topologia della foto i «guerriglieri in divisa», tre e in uniforme – calzamaglia e arma da fuoco – disegnano uno schema d’attacco triangolare, che diventa poligono se lo si estende all’«adiuvante» a sinistra, nelle retrovie. I due in profondità sono di faccia, i due più in superficie di profilo.

Li accomuna un fare intimidatorio, ai danni delle forze dell’ordine, ma influente anche sullo spettatore. Esibisce un gradiente passionale che va dalla temerarietà dell’esecutore alla titubanza dei dissidenti a sinistra, fino alla ritrosia del compagno a destra. Uno scatto precedente a questo mostra il corteo che si allontana (fig. 2) e documenta l’audacia dello sparatore, ripreso mentre scalcia un fumogeno (fig. 3). Un altro sparatore punta la pistola sulla corsia opposta della strada (fig. 4). Altri manifestanti, accanto a lui, hanno in mano delle spranghe. Sull’asfalto si vedono tracce del passaggio collettivo: dei volantini e due trombette, utilizzate come oggetti contundenti, armi improprie ma vere. Sono l’antonimo di due delle tre pistole individuabili, il cui concorso proprio è solo formale.

Non è l’unica squadra. Nello scatto del «Corriere» (fig. 1) due termini finora trascurati permettono di enucleare un’altra rete: il fotografo di fronte a noi, al centro in fondo, che sta fissando la scena da dietro il tiglio (Antonio Conti), e il suo fantasmatico doppio, l’enunciatore, speculare a lui e in un «posto vuoto», che coincide col nostro. Si disegna un chiasmo spaziale che incrocia, sull’asse sinistra/destra lo sparatore e il suo terzo alleato, sull’asse destra/sinistra l’autore assente e il cameraman che lo presentifica, poli di un dispositivo a specchio. Queste due ultime figure si distinguono dalle altre in quanto istanze non dell’enunciato, ma dell’enunciazione. Il cameraman e il suo alter ego alluso, infatti, infrangono il passato del racconto per inaugurare un tempo di compresenza con lo spettatore. Sono marche del momento di produzione del discorso, e lo richiamano a ogni nuovo rapportarci con la foto. La foto simbolo, iscritta nella memoria, continua ad essere un’istantanea.

In sé l’immagine appare senza esito: informa su un’esercitazione o al massimo espone una minaccia. Ma sfrutta in realtà una tattica di significazione per ellissi. Estromette il controcampo. Non fa conoscere l’antagonista né i margini di manovra degli attentatori, così come implica in negativo la sfera d’azione nostra e dell’enunciatore della foto. In questo senso, il singolo scatto tende a divenire pezzo di un montaggio dialettico. Se l’avversario dello sparatore resta impercettibile, l’alter ego del cameraman si avverte.

L’operatore con macchina, frontale, funziona infatti come un «simulacro» complice dell’enunciatore della foto: apostrofa lo spettatore perché vada in cerca del frame rovesciato, quello che parte dal punto più lontano dell’immagine per arrivare fino a noi. L’inquadratura, quindi, prefigura i suoi intertesti e rimanda da sé all’adeguato co-testo.

Autonomi e anonimi

Quale versione avrà visto Umberto Eco per descrivere la foto come espressione di «mancanza dell’elemento collettivo», «gesto individuale di un eroe che non è più quello dell’iconografia rivoluzionaria, ma invece ha la posa, il terrificante isolamento degli eroi dei film polizieschi americani (la Magnum dell’ispettore Callaghan) o degli sparatori solitari del West?».3 Viene da chiederselo nello scoprire la ricca fenomenologia di inquadrature a cui quel token ha dato adito.

Dunque Eco è stato tratto in inganno da una versione scorretta? No. È il contrario. Menziona una foto che «ha fatto il giro di tutti i giornali dopo essere stata pubblicata dal “Corriere d’Informazione”» e afferma: «tutti la ricorderanno, la foto dell’individuo in passamontagna, solo, di profilo, in mezzo alla strada, con le gambe allargate e le braccia tese, che impugna orizzontalmente e con ambo le mani una pistola. Altre figure si vedono sullo sfondo, ma la struttura della foto è di una semplicità classica; la figura centrale domina isolata».C’è n’è una specialmente, ed eccelle per fotogenia, dove l’esecutore in effetti campeggia solo (fig. 5). Qui lo scatto del «Corriere» viene rimaneggiato nel taglio, così da ottenere una «valida» messa a fuoco: si esclude l’ambiente, e il militante, estratto dalla «massa», si muta in un monumento al terrorista. Si piega l’immagine a una diversa semantizzazione. Trovare questa variante «traditrice» è facilissimo. Appare sotto la voce di Wikipedia «anni di piombo», con tanto di norme e cavilli sulla licenza d’uso (mistificazione della mistificazione!), e sta a significare «un’estremizzazione della dialettica politica che si tradusse in violenze di piazza e terrorismo» [4]. Fortunatamente, una fotografia non serve a dire la verità sul reale, a volte è in grado di smentire duplicati non congruenti, scorretti, ma di grande efficacia.

Intanto la figura isolata è l’opposto di una delle immagini mitiche annoverate da Eco, il «miliziano spagnolo» di Robert Capa, il quale non spara, cade colpito, l’arma in pugno, ma a viso scoperto. Per una ideologia benpensante, è un eroe non in quanto combattente, ma perché vittima. L’eroe, oggi, lo fa la compassione non la gloria. Lo scatto degli anni di piombo immortala invece un antieroe.

Inoltre, se «altre figure si vedono sullo sfondo», allora (inferenza) la foto citata non è quella del ritaglio con lo sparatore. L’interpretazione di Eco, però, vi corrisponde. Cos’è accaduto? Eco usa l’immagine del 14 maggio per esemplificare la sua lettura del declino della lotta di massa. Vuole inferire dei sintomi distraendoli dai segni manifestati. Il referto è l’isolamento dei pitrentottisti. La foto, però, sembra invalidare il teorema; da quel che si è visto, non mostra singoli individui, ma «comitati» d’azione.

Non va dimenticato il «dettaglio» (fig. 5). Il «frame» interpretativo di Eco ha provocato poi il re-frame della foto! Luminosa intermittenza tra verbale e visivo. Eco ha fatto uso dell’immagine per la sua interpretazione, e questa interpretazione, sedimentata, è a sua volta stata usata e tradotta in una pratica. A Eco si è creduto, tanto da ritoccare lo scatto e ripulirlo dalla partecipazione collettiva, spacciata per superfluo. Qualcuno, in sordina, ha creato una trasposizione fotografica ad hoc di quel verbo, che ha preso a sostituire la versione ufficiale della foto. Quando si dice che l’esegesi (verbale o visiva) ha nella sua radice etimologica l’egemonia…

Meno male che, secondo le stesse parole di Eco, ora ironiche, «la foto è un ragionamento […] e funziona».

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Note

  1. L’aspetto è il punto di vista sul processo, cioè la focalizzazione dell’atto, in questo caso temporale. La lettura della foto fa emergere molto bene che l’uomo non «ha sparato», non «sparerà», non «sta sparando», ma precisamente «sta per sparare». È in procinto o si accinge a colpire. Il visivo ha i suoi mezzi per esprimere l’imminenza di un’azione.
  2. Solo dopo sapremo che si tratta di Giuseppe Memeo, in un corteo di protesta contro la polizia, e conosceremo il nome della vittima, il vicebrigadiere di polizia Antonio Custra.
  3. Vedi Umberto Eco, Una foto, «L’Espresso», 29 maggio 1977; ora in Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983.
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