Che ne è dell’utopia?

Recensione di Francesco Ceraolo a “Utopie vocali. Dialoghi con Paolo Fabbri e William J. Samarin”, un volume curato da di Lucia Amara (Mimesis, 2015).

utopia

Leggendo il recente Utopie vocali a cura di Lucia Amara – che, riprendendo il titolo di un noto saggio di Michel de Certeau del 1980, raccoglie le trascrizioni di dialoghi intercorsi a Roma nel 1977 tra lo stesso de Certeau, Paolo Fabbri e William J. Samarin sul tema della glossolalia – viene da interrogarsi sulla riflessione che il volume intende trasversalmente far emergere, declinandola in relazione alla questione della voce e delle sue espressioni parossistiche o pre-logiche come quelle glossolaliche.

Ovvero: che ne è dell’utopia nel mondo contemporaneo? E soprattutto, in che modo il tema dell’utopia, a cui de Certeau, come molti prima di lui, riconosce immediatamente un carattere storico-politico oltre che meramente astratto, è legato alla dimensione immanente dell’umano, cioè all’uomo e alle manifestazioni immediate del suo stare al mondo?

Ora, che la questione della voce possa essere affrontata seguendo categorie politiche, proprio in quanto prima manifestazione della soggettività e dunque principale veicolo dell’umanità dell’umano (inteso non in termini puramente logico-astratti ma specificamente comunitari), lo sappiamo sin dalla Naturphilosophie di Hegel. Dal momento in cui questa semplice «vibrazione» (Erzittern) del corpo è pensata come il mezzo fondamentale dell’espressione del corpo stesso, come ciò che è capace di trasformare la forma semplice e meccanica dell’organico in un’idealità, e renderlo dunque esistente «per sé stesso», la voce, ci dice Hegel, può essere considerata il «suono stesso dell’anima». 1 In altre parole, la voce è la principale forma di soggettivazione dell’uomo nella maniera in cui esteriorizza e temporalizza lo spazio dell’interiorità (Hegel scrive: «è una transizione dalla spazialità materiale nella temporalità materiale») 2, rendendo l’idealità di ognuno di noi oggetto per noi stessi e relazionandola agli altri – costruendo dunque vincoli comunitari tra interiorità diverse.

Ma se il piano del pensiero idealista ci permette di comprendere il significato della voce apparentemente all’interno di un regime «anti-utopico», in cui il pensiero si attesta quale pratica di conoscenza, di apprensione dialettica e a posteriori del reale, e non di sua anticipazione proiettiva, nell’impostazione di de Certeau sembra invece emergere un tratto originale e interessante che mette in connessione le qualità parossistiche della voce e quelle utopiche del reale. Facendo riferimento al Louis Marin di Utopi­ques: jeux d’espaces (1977), de Certeau ritiene per esempio che la pratica glossolalica – ovvero l’usare un linguaggio incomprensibile tanto a chi parla quanto a chi ascolta, che già San Paolo nella Lettera ai Corinzi definiva come un parlare «a Dio» – sia una «delinquenza vocale» e che la glossolalia stia «alla comunicazione orale come le utopie stanno allo spazio sociale e istituzionale».3 Quindi, come nota Lucia Amara nella sua introduzione al volume, per de Certeau «l’utopia della glossolalia» è linguistica proprio in quanto «politica, e viceversa».4 A questo proposito scrive de Certeau in Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione:

I progetti utopici (rivoluzionari) attribuiscono a un dire la forza di determinare un potere, o all’istituzione la capacità di diventare l’articolazione visibile di una “verità” detta o da dire […]. L’utopia […] a partire dalla Riforma e dall’Illuminismo, mette in scena la volontà di rifare le istituzioni (degradate) a partire da funzioni di “purezza” assunte come modelli.5

La posizione di de Certeau sembrerebbe dunque funzionale nel chiarire l’accezione politica del dicibile verbale, che, come egli scrive, rimanda alla possibilità dell’espressione di determinare un potere. Ci si potrebbe però qui legittimamente chiedere in cosa consista la carica utopica della glossolalia vocale e soprattutto in che modo essa può essere messa in relazione a quel presente utopico di cui parla Marin ripreso da de Certeau.

Paolo Fabbri in Le forze del segno, saggio del 2005 apparso nel catalogo della mostra “Antonin Artaud” presso il Padiglione Arte Contemporanea di Milano, ci spiega come l’utopia glossolalica attenga da un lato alla sua componente fonica, in cui «si tratta di esplorare tutti i suoni d’ogni possibile idioma, producendo, per combinatoria sillabica, ogni parola umanamente possibile»; mentre dall’altro a quella somatica, che corrisponde all’attivazione «carnale dell’intero apparato fonatorio».6

Il punto che sembrerebbe importante evidenziare, a partire dall’esempio dell’espressione glossolalica usato da de Certeau, è dunque questo: affinché un progetto utopico si realizzi, esso necessita di una nuova voce, una nuova forma del discorso che ridefinisca le regole del presente a cui quell’utopia si riferisce; l’utopia non è l’apertura chimerico-onirica di uno spazio futuro, ma la ridefinizione di un modello reale che l’uomo, attraverso una qualsivoglia espressione del linguaggio, è capace di articolare.

In effetti, la prospettiva semiologica di de Certeau, pur partendo dai modi del linguaggio per arrivare alle forme del sociale e non viceversa (numerosi nel libro sono i riferimenti ad un autore centrale come Artaud, specialmente alla sua ultima produzione, che proprio a partire da un «addio» al linguaggio ha inteso ripensare la realtà), non sembra discostarsi molto dalle letture della forma utopica interne alla filosofia politica proposte negli ultimi anni.

Qualche tempo fa, solo per fare un esempio, Fredric Jameson nel suo Desiderio chiamato utopia (Feltrinelli, 2007) cercava di svincolare il concetto di utopia dal sospetto di chi lo squalificava come una «forma di progettualità non sufficientemente asservita a un principio di realtà», proponendo una tesi secondo cui l’utopia rappresenta «una significativa riflessione sulla differenza, sull’alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità sociale».7

In altre parole, e mi pare questo un punto di fondamentale importanza su cui parte del pensiero contemporaneo si sta attestando e dove sembra inserirsi bene anche la proposta di de Certeau: bisogna considerare la forma utopica non messianicamente come un intervallo temporale tra il presente e un futuro auspicato o atteso; nemmeno ritenere l’utopia l’esito estremo di un movimento interno della Storia, il prodotto di leggi empiriche più o meno determinabili; al contrario, la si deve pensare come una riflessione sul presente, una sua radicale messa in discussione capace di rovesciare qualsiasi principio di realtà per riconfigurare la realtà stessa.

Ecco dunque che la forza di quanto ci dice de Certeau sembra emergere chiaramente. Perché far coincidere l’utopia vocale con quella sociale non è altro che uno dei numerosi modi per far muovere il pensiero a partire da una realtà intesa come la totalità interconnessa di dinamiche storiche, simboliche, politiche, immaginarie. Nell’epoca dei «nuovi realismi» o dei «cognitivismi» di ogni sorta una simile proposta non può che essere salutata positivamente.

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Note

  1. G.W.F. Hegel, Filosofia della natura, Utet, Torino 2006, p. 219 e Id., Estetica, Einaudi, Torino, 2008, p. 1030.
  2.  G.W.F. Hegel, Filosofia della natura, Utet, Torino 2006, p. 219.
  3. M. de Certeau, Utopie vocali. Dialoghi con Paolo Fabbri e William J. Samarin, a cura di L. Amara, Mimesis, Milano 2015, p.23.
  4. M. de Certeau, Utopie vocali. Dialoghi con Paolo Fabbri e William J. Samarin, a cura di L. Amara, Mimesis, Milano 2015, p. 43
  5. M. de Certeau, L’istituzione dell’immondo: Luder, in Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 201 e 205.
  6. P. Fabbri, Le forze del segno, in Catalogo della mostra “Antonin Artaud”, a cura di J. Lebel e D. Paini, PAC, Padiglione Arte Contemporanea, Milano, 2005.
  7. F. Jameson, Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli, Milano 2007, p. 11.
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