TQ e comunicazione: quali rischi?

di Flavio Pintarelli

Sfogliando il “Venerdì di Repubblica” della scorsa settimana (2 settembre) mi sono imbattuto in un articolo di Paolo Casicci in cui si parlava del crescente protagonismo di alcuni “giovani” dirigenti del Partito Democratico.

Ma più che le manovre di Matteo Renzi e Debora Serracchiani a colpirmi è stato il titolo del pezzo: Pd, arrivano i TQ “Vecchi, addio. Tocca a noi”.

Chiunque segua con un minimo di curiosità intellettuale il dibattito culturale nel nostro paese saprà che la sigla TQ indica un ampio gruppo di intellettuali, operatori e professionisti del panorama editoriale e culturale italiano che si sono riuniti attorno ad un programma comune il cui obiettivo è quello di dare vita a nuove ed incisive forme di intervento sulla realtà.

Fin dalla pubblicazione del primo manifesto, l’attività di TQ ha potuto godere di una ampia copertura mediatica, riuscendo a conquistarsi spazi importanti anche sui principali quotidiani nazionali, solitamente non troppo attenti e curiosi nei confronti delle iniziative culturali che fioriscono al di fuori del mainstream.

Tuttavia l’attività pubblica del gruppo, complice forse la difficoltà di gestire il vasto numero di soggetti individuali e collettivi che hanno aderito ai manifesti, ha seguito un andamento altalenante, alternando a lunghi momenti di vuoto la pubblicazione di documenti.

Tra i documenti pubblicati ce n’è uno a cui bisogna prestare particolare attenzione, si tratta dell’intervento di Carlo Mazza Galanti intitolato Visibilità per TQ. Nel post si riflette sul ruolo e sulla nozione di visibilità alla luce della riflessione di pensatori come Benjamin e Debord. Mazza Galanti riconosce che in un’ottica “imprenditoriale” la notevole visibilità ottenuta da TQ e dalla sua proposta rappresenta certamente un vantaggio, ma l’autore si chiede se sia necessario

“continuare a sfruttare, anche criticamente, meccanismi che da decenni sociologi e filosofi e politologi che pure stimiamo e citiamo hanno individuato come responsabili di una grave perdita di partecipazione politica e di capacità, da parte degli individui e dei gruppi, di determinare il proprio destino?”

Insomma, Mazza Galanti si chiede se sia possibile e soprattutto corretto, per un movimento che si propone di elaborare nuove forme di intervento sul reale, assecondare i meccanismi di una comunicazione che ha come effetto quello di diluire la presa e l’intervento sul reale di un considerevole numero di soggetti politici, individuali e collettivi.

La proposta dell’autore è, dunque, quella di elaborare delle “strategie di occultamento”. Strategie che si dovrebbero concretizzare in una sottrazione “ai contesti e alle logiche che impongono la visibilità come un fine obbligato”.

Sfortunatamente l’invito di Mazza Galanti pare giungere con colpevole ritardo, come dimostra il titolo dell’articolo citato in apertura, e testimoniare “quella mancanza di padronanza e controllo dei mezzi di cui TQ dispone che ne ha caratterizzato anche la comunicazione esterna”.

L’indeterminatezza della sigla TQ ed il suo richiamo di carattere generazionale (trenta-quaranta, riferito all’età degli estensori del primo manifesto) uniti all’andamento altalenante dell’attività del gruppo – caratterizzato come si è visto da momenti di sovraesposizione mediatica alternati a silenziosi momenti di elaborazione – hanno determinato una progressiva perdita della capacità di controllo sulla sigla stessa. TQ ha dunque cominciato a diventare un brand, un’etichetta buona per ogni situazione. Non a caso, pochi giorni dopo l’uscita dell’articolo del “Venerdì”, un blogger de “Il Fatto Quotidiano”, Lorenzo De Cicco, scriveva: “forse per una sorta di relativismo generazionale (in Italia perfino il cinquantreenne Nichi Vendola di questi tempi riesce a passare per nuovo), o forse perché il nome che si sono scelti è davvero brutto: T/Q, ovvero trenta-quarantenni, la generazione che si è stancata di stare in fila dietro ai capicorrente ora vuole prendere il controllo del PD”.

Come è successo per il termine Black Bloc che alla fine degli anni novanta indicava una precisa strategia di piazza ed ha finito per diventare un termine con cui indicare qualsiasi manifestante coinvolto in scontri con la polizia ed allo stesso tempo capace di mobilitare il doloroso immaginario legato al G8 di Genova, il rischio è che anche TQ finisca stritolato nello stesso meccanismo, con la conseguenza di vedere diluita la sua proposta. Dalla generazione TQ di dirigenti del PD ad una generazione TQ di musicisti, registi o calciatori il passo è tristemente breve.

Se TQ può trarre uno spunto di critica costruttiva da questa breve riflessione, questo risiede sicuramente nella necessità di comprendere meglio i meccanismi della comunicazione a cui intende sottrarsi. A tradire TQ è stato, probabilmente, un eccesso di entusiasmo, giustificato e perdonabile, ma per poter rientrare in totale controllo della propria comunicazione è necessario agire in fretta e con intelligenza, perché i rischi sono concreti.

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