Ti do i miei occhi di un tempo fa

Filippo Bologna sul libro fotografico di Marco Dinoi.

Marco Dinoi

È appena uscito in libreria Ti do i miei occhi di un tempo fa di Marco Dinoi, curato da Giacomo Tagliani e Vincenzo Cascone ed edito da Silvana Editoriale. Il libro raccoglie fotografie e scritti inediti che rendono testimonianza di un percorso intellettuale per molti versi unico in Italia; la loro natura di appunti restituisce appieno il pensiero di Marco, per il quale la ricerca era sempre in divenire, sempre pronta a essere messa in discussione. Dietro gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la premessa di Filippo Bologna insieme ad alcuni dei materiali che compongono questo particolare taccuino dove parole e immagini si rincorrono e si intrecciano.

In fondo ogni foto è la testimonianza di un’assenza. Assenza del soggetto, del luogo e dell’istante in cui è avvenuto lo scatto, fulminante e irripetibile incrocio di tre coordinate che intersecano la realtà per convergere in un clic. Miracolo che dalla risultante di tre assenze scaturisca una presenza. Viva, erratica: quella dello sguardo, un ponte mobile tra passato e presente, breve come un battito di ciglia. La chiusura di un circuito immaginario che permette di andare avanti e indietro, invertendo, anche solo per un istante, la tirannia del tempo.

Marco Dinoi

In questo caso il passato è Via di Fieravecchia, dove se chiudo gli occhi vedo ancora Marco aggirarsi per i corridoi della facoltà con le sue giacche scure e le clarks alla Dylan Dog, in una mano il tabacco, nell’altra una cartina sottile e trasparente come i suoi ragionamenti.

Il presente invece è questo libro che tenete tra le mani, con queste foto che ho salutato con l’emozione di chi ritrova nella tasca di un cappotto o nel fondo di un cassetto qualcosa che ormai si è rassegnato ad aver perso per sempre. Qualcosa che somiglia molto al privilegio della sua amicizia, al conforto della sua intelligenza.

Marco Dinoi

Non conosco la storia di questi scatti ma da subito ho avuto come la sensazione che non ne volevo sapere di più. Mi bastavano le immagini; come entrando in un cinema ci dovrebbe bastare un film, senza averne prima letto trama e recensioni. Una scopa abbandonata sulle scale, tre donne marinaio che attraversano una strada, lo sguardo di un bambino. Siena, New York, Palestina: un viaggio senza rotta e senza destinazione, senza bagagli, leggeri ma concentrati, come quella specie di attenta delicatezza che le immagini si portano dentro. Vedere in sequenza le foto di Marco è stato come indossare un casco per la realtà virtuale, realtà aumentata, si direbbe oggi. Viaggiando da fermo ho visto il mondo con i suoi occhi, l’ho percorso con i suoi piedi.

Marco Dinoi

Mi sono interrogato davanti a ogni scatto: perché quegli acrobati o quegli anziani all’ombra degli alberi? E quell’anfiteatro deserto? E quelle donne chine sulle lapidi? Ho cercato di ingrandire dettagli e scovare particolari sfocati sullo sfondo, come fossi finito in un giallo, senza delitti e senza colpevoli. Mi sono chiesto perché quel soggetto e cosa si nascondeva in quell’inquadratura; in ogni foto era come se ci fosse un non detto, un innocente mistero che mi spingeva ad andare avanti. Poi ho capito: era il non detto dell’assenza. Assenza di un’assenza in questo caso. E quel non detto era la voce di Marco, che mi suggeriva di non smettere di farmi domande, di non fermarmi alle prime risposte. Che più di un rullino ritrovato, è il negativo più prezioso che possiamo sviluppare al buio di quella camera oscura chiamata coscienza.

Marco Dinoi

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