Territori vulnerabili

Resilienza, partecipazione e capitale sociale per sopravvivere a un disastro.

territori vulnerabili

Pubblichiamo una recensione al volume “Territori vulnerabili. Verso una nuova sociologia dei disastri italiana”. Il tema dell’utilità e della spendibilità delle scienze sociali prima e dopo un disastro è sicuramente uno stimolo importante alla discussione pubblica che questo volume propone, in sintonia con molte altre riflessioni che anche Sismografie ha proposto in questo spazio.

Sul rapporto tra scienze sociali e disastri il discorso saggistico e pubblico inizia a farsi corposo; ci sono diversi studi sia italiani sia internazionali che si interrogano e analizzano come uno scienziato sociale, sia esso antropologo, geografo, storico, sociologo o altro, possa agire anche con atti concreti per attenuare, pianificare, rendere consapevoli i territori soggetti a disastri.

Di questo rapporto, declinato in vari casi di studio, parla Territori vulnerabili, curato da Alfredo Mela, Silvia Mugnano e Davide Olori per le edizioni Franco Angeli.

Emergono in maniera lampante, nei quindici saggi che fanno parte del libro, l’importanza della resilienza, della partecipazione e del capitale sociale per mitigare i danni troppo onerosi che soprattutto l’Italia si sobbarca periodicamente; anche i casi di studio dettagliatamente descritti sembrano sostenere la necessità di un salto di qualità sia nella previsione, sia nella fase emergenziale. Nel volume ci sono diversi suggerimenti utili a compiere questo passaggio necessario, in termini di consapevolezza e educazione collettiva sul rischio.

I tre studiosi hanno curato ciascuno una delle tre parti in cui il volume è diviso: Prospettive resilienti, Disastri e questione meridionale, Il capitale sociale dei disastri.

La prima parte del libro si snoda attorno alla questione della resilienza, intesa in termini sociologici. La precisione sul termine è dovuta perché di resilienza si parla ormai in svariati ambiti e situazioni, spesso senza cognizione di causa. Nei contributi di Mela, si parla della resilienza come catchword che sta tracimando dal linguaggio scientifico a quello comune e mediatico; in questo passaggio possono facilmente insorgere rischi e contraddizioni.

Anche in termini politici la resilienza è sottoposta a duplice interpretazione: Pellizzoni nel suo contributo sostiene che se intendiamo la resilienza come flessibilità e adattamento, il termine legittima il mantenimento dello stato di cose esistenti, non la sua trasformazione. È il tentativo compiuto dall’Ecomodernist manifesto, una piattaforma neoliberale chiaramente antiecologista. In altri casi la resilienza ha riguardato una fase difensiva, la risposta a un evento invece che la sua prevenzione.

Altra definizione di resilienza in termini sociologici la offre Barbara Lucini, che parla di

un processo sociale interattivo e multidirezionale, consistente di un insieme di pratiche di comportamenti di risposta preesistenti e appresi nel corso dell’evento stesso.

Nel caso del terremoto dell’Aquila, l’anomia, il sistema delle relazioni, i codici linguistici, la situazione delle minoranze (anziani, diversamente abili e immigrati) e l’espulsione dal centro storico dei suoi abitanti sono stati elementi che hanno creato dispersione e frammentazione. La partecipazione come proposta integrativa è, quindi, essa stessa una forma di resilienza.

Lina Calandra e Serena Castellani compiono nel loro saggio una riflessione sulla resilienza in ottica geografica (“dall’individuo alla comunità al passando dal territorio”) con una precisa carrellata bibliografica sulle ricerche in merito. Il percorso di ricerca compiuto da geografi e scienziati sociali del Laboratorio di Cartografia dell’Università dell’Aquila è stato definito RAPP (Ricerca-azione partecipativa/partecipante) e ha condotto a risultati interessanti poiché la RAPP ha sicuramente rappresentato una strategia di resilienza e resistenza post-disastro per le persone, i ricercatori e gli studenti impegnati e coinvolti.

Il tema dell’abitare emerge in maniera forte: capire l’abitare corrisponde a capire “come gli individui fanno con i luoghi”.

Sulla concezione dell’abitare una casa nuova dopo un terremoto si concentra Gabriele Moscaritolo; il terremoto preso in considerazione è quello del 1980 in Irpinia e Basilicata. Attraverso una serie di interviste e la loro contestualizzazione è possibile esaminare come il concetto di spaesamento, in maniera letterale (cioè senza paese), così come quello di perdita segnino indelebilmente il destino degli individui e delle comunità, rimandando a un periodo, quello precedente al disastro, idealizzato e privo di problemi, in contrasto con un dopo negativo e pieno di incognite.

Nella seconda sezione del volume la subalternità come categoria interpretativa viene associata alla questione meridionale, con una carrellata di casi recenti di disastri avvenuti nel Sud Italia (Giampilieri 2009, Irpinia 1980, Vesuvio e Etna).

Davide Olori utilizza una serie di esempi, come il terremoto del 1980 a Napoli, le Torri Gemelle a New York nel 2001, Katrina a New Orleans nel 2005, per dimostrare che il disastro si possa utilizzare per “evidenziare i rapporti di subalternità che anche nella dimensione sociospaziale si esplicitano”, con elementi che variano al variare dell’evento ma che rispondono a una logica comunque ben definita, quella del capitalismo dei disastri.

Il caso dell’alluvione di Giampilieri nell’ottobre 2009, analizzato da Marilin Mantineo e Sergio Scarfì, si colloca nel peculiare contesto italiano di quell’anno, quando il terremoto dell’Aquila ad aprile aveva dato il via a un modello di gestione dell’emergenza centralizzato e gestito dal capo dipartimento della Protezione Civile, Guido Bertolaso, e dal premier Berlusconi. Anche a Giampilieri, come a L’Aquila, si propone di delocalizzare e costruire nuovi moduli abitativi, facendo nascere comitati di cittadini nelle varie zone coinvolte, tra i quali “Salviamo Giampilieri”; le interviste fatte agli abitanti e agli attori istituzionali evidenziano un corto circuito evidente tra burocrazia e mediazione. Giovanni Gugg indaga nel suo saggio sul rapporto degli abitanti dell’area vesuviana con il rischio vulcanico, che non può essere ridotto a stereotipi; spesso emerge un’immagine di quel luogo caratterizzata da indifferenza, spregio delle regole, ritardo e rozzezza; il tutto si unisce, poi, a una colpevolizzazione delle potenziali vittime della catastrofe annunciata.

Le interessanti ricerche di Gugg sull’area vesuviana evidenziano quattro atteggiamenti: chi rifugge l’argomento, chi lo considera ipotesi remota, chi si preoccupa più della situazione degli elementi naturali inquinati e dell’abuso di territorio, chi crede che il rischio sia urgente. Per dare un senso alla prevenzione, appare chiaro che la gestione attuale del territorio deve essere il risultato di un costante processo di ascolto, il punto d’incontro di una realtà complessa, eterogenea e multivocale.

Un’altra area vulcanica in cui il rischio è presente e quotidiano è quella dell’Etna, analizzata da Carlo Colloca in termini geofisici, paesaggistici e sociali. In particolare, si deve difendere dai traumi a cui il paesaggio etneo è sottoposto (elettrosmog, abusivismo, rischio idrogeologico, discariche) e per farlo si deve puntare ad un’interazione tra i diversi saperi.

Nella sezione sul capitale sociale dei disastri, Silvia Mugnano indica tre fasi cruciali nel ciclo del disastro: preparazione, risposta e ricostruzione. Nella gestione di una comunità la linea di comando e controllo è stata dominante e assoluta rispetto a una capacità di adattamento più creativa; la visione top-down, in sostanza, non soddisfa le esigenze di tutti gli attori in campo nell’emergenza.

Tra i casi di studio presenti nella sezione, quello di Andrea Volterrani ha riguardato le vulnerabilità di persone anziane e disabili in quattro storie e luoghi (Chiusa in Alto Adige e Saponara in Sicilia, Vogtland County in Germania e Nykobing in Danimarca), con la conclusione che il valore sociale aggiunto nelle attività di volontariato della prevenzione colma i buchi nelle maglie larghe della vulnerabilità.

Il tema dell’aggregazione giovanile a L’Aquila, nello studio di Barbara Morsello, ha analizzato le nuove forme di socialità volte a compensare la mancanza del centro storico, lo spaesamento e l’addomesticamento dello spazio giovanile. Le interviste a dieci studenti universitari hanno dimostrato che si sono creati nuovi spazi, come la dimensione privata delle case o strutture polifunzionali (l’Aquilone, Canada, Agorà), mentre il centro storico è definito “immenso cantiere” o “senza vita”.

Il tema dell’insegnamento dei disastri del passato (l’alluvione di Firenze del 1966) messo a confronto con le politiche territoriali attuali (il contratto di fiume) è al centro del contributo di Antonella Golino e Rossano Pazzagli.

Di nuovo la resilienza e la partecipazione trovano spazio e approfondimento nel saggio di Giulia Allegrini, Alice Lomonaco e Giuliana Sangrigoli su Mirandola e il terremoto in Emilia del 2012, mettendo in evidenza come l’adattamento e l’amore per i luoghi sono stati complementari alla partecipazione, in quel caso. Dall’analisi dei termini presenti nella legislazione post sisma in Emilia emergono quattro elementi: ricostruzione, centro, giovani, commercianti.

Nel caso di una ricerca compiuta nelle scuole di Mirandola, sono emersi, attraverso una analisi SWOT, i punti di forza e di debolezza della comunità. Gli spazi, ad esempio, mancano e sono mutati, ma allo stesso tempo la presenza giovanile è uno slancio che potrà aiutare la comunità.

Senso di comunità, attaccamento ai luoghi e partecipazione, assieme alla competenza di comunità intesa come capacità di azione e presa di decisione collettiva, sono quindi gli elementi caratterizzanti nel caso preso in esame a Mirandola.

Territori vulnerabili è una lettura molto stimolante, quindi, per capire lo stato dell’arte della situazione italiana riguardo ai disastri in prospettiva sociologica. A partire dal terremoto dell’Aquila del 2009 sembra infatti che siano aumentati in modo cospicuo gli studi e gli studiosi interessati alle conseguenze e alle dinamiche che un disastro introduce in una comunità; questi lavori fatti sul campo hanno anche posto problemi di merito e di metodo che rivelano un’urgenza ancora irrisolta, quella della cultura della prevenzione. Ogni evento che più o meno di frequente interessa le regioni italiane riporta all’ordine del giorno questo problema e di sicuro va in questa direzione e offre nuovi spunti di riflessioni i vari casi e le differenti questioni teoriche proposti da Territori vulnerabili.

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