Tempi di lotta

Una lettera ai visitatori della Biennale Arte.

Pubblichiamo la traduzione italiana, a cura di Nicola Perugini e Francesco Zucconi, della lettera di Judith Butler inserita nel giornale del Padiglione Svizzera “Moving Backwards”, presso la cinquantottesima edizione della Biennale Arte di Venezia dal titolo “May You Live In Interesting Times”.

 

Berkeley, gennaio 2019

Tu che visiti questa mostra,

sai in che tempi viviamo? In tempi migliori dei precedenti, oppure nettamente peggiori e che ti riempiono di pessimismo? Come sappiamo, c’è sia chi dice che questi sono i tempi migliori sia chi dice che sono i peggiori, e la verità è che non siamo in grado di rispondere a questa domanda. La ragione è che il mondo che conosciamo esiste contemporaneamente all’interno di temporalità differenti.

Con questo non voglio dire che ci siano società avanzate e società arretrate. Questa concezione appartiene a un ordine coloniale che immagina sé stesso come fine di tutte le forme storiche di lotta. Non c’è alcun bisogno di tornare alla concezione coloniale del tempo secondo la quale i cosiddetti popoli arretrati andrebbero educati alla modernità. Questa era per esempio la strategia di “sbiancamento” adottata in Australia nelle pratiche di “modernizzazione” degli aborigeni: una strategia di educazione coloniale che cerca di far prevalere le proprie norme e imporsi sulle norme sociali del Sud Globale. Chi resiste a queste strategie diventa automaticamente “arretrato” dal punto di vista di chi concepisce quel tipo di storia dello sviluppo.

Dunque, se la nostra resistenza è “arretrata”, allora possiamo creare alleanze tra popoli di diverse regioni del mondo che, da tale punto di vista, saranno sicuramente considerate “alleanze arretrate”, ma che secondo la prospettiva che vogliamo affermare saranno invece alleanze proiettate verso il futuro: alleanze avanzate.

Viviamo in un mondo in cui coesistono diverse temporalità. Alcune di esse convergono. Altre si muovono parallelamente. Dipende dalla propria posizione: se si proviene da Paesi che sono appena riemersi da un periodo di dittatura o di schiavitù, oppure da Paesi che lottano ancora per liberarsi dal dominio coloniale. L’orizzonte temporale della storia è dunque pieno di passati, di presenti e di futuri immaginati che appartengono a specifiche storie di oppressione e lotta.

Dobbiamo avventurarci nei percorsi verso la libertà e l’uguaglianza intrapresi da altri popoli per comprendere come questi abbiano resistito a condizioni di terribile oppressione. I racconti di questi percorsi sono anche i nostri racconti, nonostante le differenze. Non esiste storia senza questi racconti che ci conducono a un senso più grande di libertà e uguaglianza, a un senso più intenso di giustizia.

La storia non è ciò che se ne va, ma ciò che rimane, dentro il presente. La storia è una risorsa e un potenziale, un’alleanza tra temporalità. Le lotte di una parte del mondo dipendono da altre lotte che hanno luogo altrove. Le donne curde che hanno perso le loro famiglie sono alleate delle famiglie argentine che ancora chiedono di sapere la storia dei desaparecidos. Chi si oppone alla violenza della guerra in una parte del mondo prende allo stesso tempo in prestito e rivitalizza il linguaggio, le strategie e gli ideali di altre persone in altre parti del mondo. La solidarietà richiede una traduzione non solo tra linguaggi, ma anche tra zone temporali, storie di oppressione, di paura, di speranza.

Così, nel migliore dei tempi possibili, le nostre lotte storiche sono interconnesse. Se registriamo queste temporalità attraverso le nostre pratiche di solidarietà e le nostre azioni, allora non viviamo più solo nel tempo della nazione, nel tempo della lingua o nel tempo della nostra storia.

Siamo trasportati dal tempo di un’altra lotta e quindi è un buon segno se non sappiamo che ore sono. Perché nel mondo della lotta non c’è semplicemente il presente o il futuro, ma la convergenza di distinte temporalità storiche in una lotta che potremmo chiamare “globale”.

Cordialmente,

Judith.

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