Cavalcando Stupidi Giocattoli di Legno nel cuore della Metropoli

Pubblichiamo un estratto da Stupidi Giocattoli di Legno. Lo skate nel cuore della metropoli, saggio sullo skateboarding e lo spazio urbano che esce oggi per i tipi di Agenzia X.

Copertina del libro Stupidi Giocattoli di Legno

Spazi da colonizzare: hey suburbia

Abbiamo già visto come lo skateboarding moderno sia nato intorno alla metà degli anni settanta, in California, quando una crew di surfisti, gli Z Boys, decise di trasferire la propria attitudine radicale dall’acqua all’asfalto, dal surf alle ruote. Una disciplina, lo skate, che già dieci anni prima aveva conosciuto un periodo di grande popolarità, tanto ampio quanto effimero.

Il salto evolutivo dal surf allo skate, cioè dall’acqua all’asfalto, proiettò di colpo gli Z Boys e gli skater che vennero in seguito, dagli spazi “naturali” dell’oceano a quelli artificiali creati dall’uomo. In particolare gli skater si appropriarono immediatamente di quella che viene chiamata suburbia (sobborgo).

Storicamente il sobborgo ha rappresentato quella fascia di urbanizzazione posta a metà tra gli spazi antropizzati della città e le zone della campagna. Un luogo lontano dalla confusione, dall’affollamento e dal sudiciume della città. Rifugio delle classi abbienti, ma anche spazio privilegiato per le sperimentazioni degli urbanisti alla ricerca di un modello di città sano sia per la mente sia per il corpo. Un modello protagonista di un declino tanto rapido, quanto irreversibile.

Mumford lo descrive con le seguenti parole:

Nato come meccanismo di evasione, il sobborgo finì col diventare esattamente l’opposto. La sola cosa che sia rimasta dell’impulso originale all’autonomia e all’iniziativa personale è il guidare l’automobile, che è però una condizione obbligatoria e inevitabile di questo tipo di esistenza; e del resto gli ingegneri già minacciano di sostituire al controllo individuale dell’auto un congegno di automazione. L’attuale costo di questo tipo di “libertà” per gli Stati Uniti – 40.000 morti all’anno, e più di un milione tra feriti e invalidi permanenti – deve essere in parte addebitato a questo movimento suburbano.

Il movimento costante dei cittadini verso la suburbia, secondo Mumford, aveva lentamente eroso, fino ad annullarli, i vantaggi che il modello urbanistico della città giardino comportava. Fu in questo scenario che fece irruzione lo skateboarding, con la sua carica eversiva.

Gli skater cominciarono a utilizzare le architetture urbane per le loro manovre: leggevano lo spazio in maniera imprevedibile, usando le lenti che avevano sviluppato praticando il surf. Le pareti inclinate dei canali, le grandi tubazioni in cemento abbandonate ai confini della città, le piscine senz’acqua a causa della siccità, le strade e i marciapiedi. Ogni elemento diventava una superficie su cui era possibile riprodurre le movenze e i trick imparati nell’oceano.

Ma poco a poco gli skater si resero conto che sui nuovi terreni appena colonizzati c’era bisogno di indossare nuove lenti. Pian piano lo skateboarding cominciò a sviluppare le proprie peculiarità. Nacquero così manovre che potevano essere eseguite soltanto sull’asfalto.

Fino a quel momento, i sobborghi non erano stati altro che una gabbia di disperazione da cui fuggire, dalla quale isolarsi, attraverso un ritorno alla natura, mediato proprio dal surf. Ma dall’alto di una tavola da skate quelle strade, quelle case, quei marciapiedi assumevano una nuova fisionomia.

Gli skater cominciarono ad attraversare gli spazi urbani con occhi nuovi, a vederli sotto una luce diversa. Giravano in gruppo, in auto, alla ricerca di spot adatti alla loro nuova disciplina. Impararono a riconoscere quei segni che testimoniavano la presenza di una casa abbandonata o di una piscina vuota, di un canale in secca o di un condotto fognario in disuso; se ne appropriavano in una tensione espressiva e creativa in cui il corpo, la tavola e lo spazio davano vita a una performance coordinata ed entusiasmante: perché contraddiceva in ogni istante le regole con cui quegli spazi erano stati vissuti fino a quel momento.

In parte flaneur, in parte cartografi, gli skater stavano dando vita a un modo innovativo di entrare in rapporto con luoghi che fino a quel momento erano stati abituali. Nuove letture di quegli spazi si dispiegavano sotto ai loro occhi, nuovi modi per esprimere una particolare forma di creatività corporea, un mondo nuovo che nasceva dall’esplodere di una percezione diversa, dovuta all’interazione tra un essere umano, un utensile tecnologico e una forma di organizzazione dello spazio.

Lo street skating nasceva così, come appropriazione e riscoperta dell’ambiente (sub)urbano, per diventare nel tempo il più influente stile di skateboarding, quello in grado di imporsi nell’immaginario di una cultura determinandone i canoni. Non ci volle poi molto tempo agli skater per portare le loro tavole dalle periferie suburbane al cuore delle metropoli. Mano a mano che cresceva come movimento e disciplina, sempre più spazi venivano colonizzati e davano vita a un numero maggiore di riletture. Dopo il balzo evolutivo che li aveva portati dall’acqua alle ruvide superfici d’asfalto, gli skater non si fermarono. Ma la loro corsa verso le nuove praterie fu tutt’altro che lineare: vi furono numerose deviazioni, perché altri spazi stavano nascendo contestualmente all’evoluzione dello skateboarding.

Il libro possiede anche una serie di declinazioni transmediali. Potete seguirlo su Twitter con l’hashtag #stupidigiocattolidilegno oppure su Pinterest, per rincorrerlo vi basta leggere Stupidi giocattoli di legno: tutto quello che c’è da sapere, il post di presentazione sul blog dell’autore. Sempre qui potete leggere #stupidigiocattolidilegno arriva lo #skatemolotov, piccolo manifesto del libro a metà tra memoria personale e riflessione.

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