Recensione al volume “La strategia della farfalla” di Marco Belpoliti (Guanda 2016, illustrazioni di Giovanna Duri).
Al noto proverbio per il quale, si sa, il diavolo si nasconde nel particolare, Flaubert, si sa un po’ meno, rispondeva che è Dio, semmai, a celarsi in esso. Ce lo aveva ricordato, nell’età dell’oro, Carlo Ginzburg nei suoi studi sul paradigma indiziario.
E in un modo come nell’altro, secondo Marco Belpoliti, lo sguardo verso la minuzia, l’estremamente piccolo, la sottigliezza mal percepibile apre orizzonti imprevedibili alla conoscenza di uomini e cose. Il dettaglio, per lui, non è mai un dettaglio. Ormai da tempo questo scrittore e saggista dai plurimi interessi ci ha convinto che, se vogliamo capire quel che ci accade, dobbiamo ispezionare con curiosità ciò che nessuno, di solito, per incuria o disinteresse, sa nemmeno vedere. Lavorando su Calvino o Celati o Ghirri, sui tratti fisiognomici di un uomo politico o su quelli di vestiario di un suo comprimario, sulla grafica di una copertina o sui segni casualmente distribuiti nel quotidiano, Belpoliti coniuga osservazione etnografica e scrittura letteraria, mostrando come queste due pratiche, se fatte bene, sono in realtà una sola. La sua.
Non poteva mancare, nella sfera di interessi coltivati da un tale cultore dell’infra-ordinario, il mondo assurdo e feroce, falsamente banale e ingiustamente dimenticato degli insetti. Belli e brutti, simpatici o anticipatici che siano: formiche, api, farfalle, coccinelle, lucciole, ma anche scarafaggi, pulci, pidocchi, cimici, zecche, ragni e via dicendo. In una serie di articoli pubblicati lo scorso anno da «La Stampa», adesso raccolti nel bel librino La strategia della farfalla, l’esplorazione entomologica è a tutto tondo. Di modo che, manco a dirlo, per Marco Belpoliti esaminare la vita degli insetti, i loro linguaggi e comportamenti, le loro azioni e passioni appare come un ottimo modo per interpretare noi stessi. O quanto meno per ridimensionare parecchio certe nostre manie – chiamiamole giustamente così – di grandezza.
Non a caso, ad accompagnare Belpoliti in questa minuziosa esplorazione dei nostri piccoli, ostinati, numerosissimi compagni di strada sono autori molto diversi: naturalisti, etologi e zoosemiotici, ma anche scrittori e filosofi. Così, accanto a nomi come von Frisch e Lorenz, Wilson e Celli, Gould e Fabre, rigorosi studiosi del mondo infra-animale, c’è Pasolini con le lucciole, Kafka con gli scarafaggi, Calvino e le formiche, Nabokov e le farfalle. Ma incontriamo ancora, un po’ meno evidenti, le pagine di Faulkner sulle zanzare, quelle di Callois sulla mantide religiosa, di Michelet sui ragni, di Deleuze sulle zecche. Quest’ultimo, per esempio, nel suo geniale “Abbecedario” sembra detestare gli animali domestici più tradizionali come cani e gatti, portatori di valori in fin dei conti piccolo-borghesi, e amare invece bestie ridottissime come pulci, ragni e, appunto, zecche. La zecca è per Deleuze un animale bergsoniano: dilata o restringe il tempo a seconda delle proprie esigenze alimentari e riproduttive, seleziona il mondo a suo uso e consumo grazie a un olfatto potentissimo, ma lascia al caso l’individuazione delle sue prede a sangue caldo.
Un posto importante, nel libro di Belpoliti, non può non avere Primo Levi (è in uscita a ottobre una nuova edizione einaudiana delle “Opere complete” da lui curata), grande osservatore della vita degli animali, degli insetti soprattutto, e loro grande narratore. Agli occhi curiosi e sbigottiti di Levi, l’etologia è una macchina retorica, e perciò fonte inesauribile per la creazione letteraria: non solo a causa dei banali paragoni psicologici (la formica e la pazienza, la volpe e la furbizia…), ma per la miriade di sfumature, diciamolo, psicologiche che il comportamento animale fornisce agli umani. In un testo intitolato “Romanzi dettati dai grilli” (adesso nell’Altrui mestiere) lo scrittore torinese è molto chiaro su questo punto.
L’etologia moderna, vi leggiamo, insegna che non è bene né attribuire agli animali meccanismi mentali umani né descrivere l’uomo in termini zoologici, ma, semmai, «entrare in comunicazione» con gli animali: «non in vista di un traguardo scientifico» «per simpatia»; così, se «negli animali si trovano tutti gli estremi» (enormi o minuscoli, audaci e fuggitivi, astuti e sciocchi etc.), «lo scrittore non ha che da scegliere, non ha da curarsi delle verità degli scienziati, gli basta attingere a piene mani in questo universo di metafore»; «proprio uscendo dall’isola umana, troverà ogni qualità moltiplicata per cento, una selva di iperboli prefabbricate».
Per esempio, continua Levi, i rituali di corteggiamenti dei grilli (dove già il “corteggiamento” è una metafora), con i loro complicatissimi richiami vocali, sembra dipendano anche dall’ambiente in cui questi animaletti si trovano a interagire: «se si riscalda la femmina (o il maschio) anche solo di due gradi, il suo canto sale di un semitono, e il partner non risponde più: non ravvia più in lui (o in lei) un possibile compagno sessuale». Ed ecco la conclusione di Levi: «non c’è il germe di un romanzo?». Per non parlare dei ragni in delirio, chissà in quale esperimento scientifico, per aver assunto Lsd: «cambiano il modo di tessere la loro tela, la fanno non più geometricamente perfetta ma mostruosa, storta, deformata, come le visioni dei drogati umani».
La posta in gioco non è da poco: la domanda cruciale che il Lager non cessa di inviarci – cos’è un uomo? – genera difatti interrogativi complementari: cos’è una bestia? cos’è la bestialità di cui erano capaci gli aguzzini nazisti? e cos’è la condizione inversamente bestiale a cui erano soggette le loro vittime?
Avere contezza del mondo dei ragni, finissimi esteti e predatori spietati, può aiutare a trovare, se non risposte definitive, una via adeguata per rintracciarle. L’aracnofobia, capiamo, non è una paura come tutte le altre. Levi ne era perseguitato, e ritrovava l’origine di questo suo disagio in una incisione vista da adolescente del canto XII della Commedia proposta da Doré. In quell’immagine la fanciulla Aracne, per trasformarsi in ragna, assume sei braccia pelose accanto alle due umane già presenti. Una metamorfosi parziale produce una prossimità mostruosa: quel che turba è la coesistenza di generi, la continuità fra regni della natura. Ma il ragno, osserva Belpoliti, non è in senso stretto un insetto: nutrendosi di essi, è semmai un essere loro complementare. Un essere più vicino a noi di quanto non si creda. Come Levi sapeva bene.
Il respiro del libro di Marco Belpoliti, proprio passando attraverso lo sguardo minuto dell’entomologo rifigurato dallo scrittore, è insomma assai ampio. Di soppiatto, ma con grande determinazione, il testo entra a gamba tesa nel vasto dibattito odierno (ma forse di alcuni secoli) sul declino dell’antropocentrismo, in vista di una nuova concezione, non tanto e non solo dell’idea di natura, ma della natura in quanto tale.
Sappiamo da tempo che, per più ragioni e con differenti accentuazioni o derive, l’opposizione fra natura e cultura, apparentemente ovvia, è un’invenzione culturale recente, e non condivisa da tutte le culture del pianeta: così come l’idea antropologica di cultura è ottocentesca, anche quella complementare di natura è di due secoli fa. C’è chi parla allora, e giustamente, di multinaturalismo. Il che comporta, per limitarci per adesso a questo aspetto del problema, accanto a un ripensamento del posto dell’uomo nel pianeta, una ridefinizione di quello degli animali, e dunque della relazione reciproca fra specie umana e altre specie viventi.
Ecco allora Belpoliti:
Come uomini ci riteniamo al culmine della scala degli esseri viventi. Lo facciamo perché siamo dotati di ragione, mentre gli animali, gli insetti in particolare, non posseggono uno strumento altrettanto potente e decisivo. Siamo da questo punto di vista straordinariamente egocentrici; giudicare gli altri esseri viventi solo in rapporto alle proprie capacità intellettuali è un atto di presunzione. Se al criterio dell’intelligenza – strumento di cui si può sempre dubitare, visto lo stato in cui è ridotta la Terra – sostituiamo, come sostengono gli entomologi, quello numerico, ci rendiamo facilmente conto che gli Artropodi sono i veri protagonisti di quella evoluzione che Charles Darwin ha individuato solo di recente (rispetto ai tempi di esistenza degli insetti). Apparso centinaia di milioni di anni fa, il grande phylum animale degli Artropodi, che comprende oltre agli insetti anche i crostacei, i miriapodi e i chelicerati, domina l’intero globo terracqueo, dai mari alle terre emerse.
Così,
gli insetti sembrano più adatti di noi a scampare ai mutamenti climatici e alle evoluzioni del Pianeta. Ovunque ci giriamo, in qualunque parte della Terra ci troviamo, la potenza degli insetti ci appare incredibile. Noi siamo comparsi di recente: due milioni e mezzo di anni fa come genere Homo, duecentomila come Homo sapiens. Gli insetti abitano questo Pianeta da trecento milioni di anni; nell’età carbonifera le blatte, che oggi frequentano le nostre case, scorrazzavano per foreste di felci e di equiseti. Sessanta milioni di anni fa gli insetti ebbero una straordinaria fioritura.
Ne consegue una constatazione imbarazzante – «cosa sappiamo di loro? Ancora molto poco» – che motiva l’esistenza e la ragione di un libro come questo, e dei tanti che cita fra le sue pagine. È, appunto, la strategia della farfalla: bellissima da lontano, orrida da vicino, frutto di due metamorfosi, cioè due nascite e due morti. Più che una metafora, allora una parabola.