Qualche disordinato appunto.
Domani alla casa della Cultura di Milano si svolgerà il secondo dei quattro appuntamenti del ciclo di incontri “Come cambia la cultura in rete”, organizzato da cheFare. Lavoro Culturale sarà presente a questo, intitolato “Social Network: comunicare la cultura”, e al terzo incontro, dal titolo “La rivista si fa in rete”.
In rappresentanza della redazione di Lavoro Culturale, Martedì 27 ottobre sarò ospite della Casa della Cultura di Milano per il ciclo di incontri “Come cambia la cultura in rete”, organizzato da cheFare. La serata – che oltre a me comprende anche due pezzi da novanta del social web italiano: Stefano Jugo (Einaudi) e Claudia Vago – è intitolata “Social Network: comunicare la cultura” e sarà moderata da Marco Liberatore.
Martedì 10 Novembre, invece, in occasione del terzo incontro del ciclo, intitolato “La rivista si fa in rete”, sarà Silvia Jop a intervenire a nome di lavoro culturale, insieme a Federico Novaro, Giorgio Mascitelli (Nazione Indiana), Roberto Gilodi (Doppiozero). In questa occasione sarà Jacopo Tondelli (Gli Stati Generali) a moderare la discussione.
Social Network: comunicare la cultura o produrla?
Per capire cosa significa davvero questa frase, le sue implicazioni profonde e le conseguenze che produce sarebbe necessario innanzitutto ripercorrere per sommi capi la storia dell’industria culturale, in modo da capire qual è la genealogia attraverso cui si è arrivati al presente. Cosa che ha fatto, meglio di quanto potrei fare io, Raffaele Alberto Ventura in un lungo e documentato articolo pubblicato qualche mese fa su Prismo.
Da Gutemberg ad Amazon, il più notevole cambiamento che ha interessato l’industria cultura è lo slittamento della funzione produttiva reso possibile dalle tecnologie digitali. L’abbassamento della soglia necessaria per accedere ai mezzi di produzione, e la conseguente “democraticizzazione” degli stessi, ha trasformato il pubblico in un produttore. O, meglio, in una figura ibrida, a metà tra il produttore e il consumatore, che la sociologia ha chiamato prosumer.
Gli editori hanno di conseguenza cessato di essere solo dei produttori di contenuti per diventare piattaforme che ne consentono la circolazione e, allo stesso tempo, i soggetti che la regolano. È quello che ha fatto in modo sorprendentemente chiaro Valve Software con Steam, integrando la produzione di contenuti (videogame) con una piattaforma di selfpublishing che è stata capace di aprire la sottocultura del modding al regole del mercato, creando di fatto, e dal nulla, l’intero comparto indie.
Data questa rapida premessa il titolo della serata, così com’è stato pensato, si presta a una piccola (e spero costruttiva) critica. Nella cornice dell’evento e nell’idea stessa di “comunicare la cultura” mi pare che si perda proprio questa dimensione sostanziale e imprescindibile che caratterizza la cultura digitale: ovvero la sua componente produttiva.
Il solo fatto che abitiamo quotidianamente una o più piattaforme digitali ha il potere di di trasformarci in prosumer. Questo il profilo che assumiamo tutte le volte che twittiamo, commentiamo, stelliniamo, condividiamo un contenuto in rete.
Nell’idea stessa di comunicare la cultura usando i social network mi pare si dia a intendere che la cultura sia qualcosa di altro rispetto alle reti digitali che dovrebbero servire solo a trasmetterla. Qualcosa che all’interno di esse viene travasato dall’esterno. Ecco perché per molti anni le istituzioni culturali (non tutte e non tutte allo stesso modo) hanno utilizzato i social network soltanto come canali per distribuire e diffondere informazioni su iniziative, eventi o prodotti culturali, tralasciando completamente la loro natura strumentale.
Perché i social, è innegabile, non sono e non devono essere soltanto megafoni in grado di amplificare la voce di un soggetto per farla arrivare lontano (dove, a chi, con quali distorsioni sono problemi che in pochi si sono posti, preferendo concentrarsi sul bruto dato numerico). I social sono, oltre che mezzi d’ascolto e relazione, anche strumenti per la produzione culturale. Strumenti coi loro codici e i loro linguaggi, le loro consuetudini e le loro regole che devono essere apprese per essere utilizzate.
È necessario (ri)partire da questo dato di fatto per poter pensare la comunicazione culturale in chiave social. Perché se oggi quest’ultima è diventata a tutti gli effetti una forma di produzione, essa rientra dunque nei confini dell’industria culturale e il suo statuto si fa più sfumato e complesso da decifrare. Non si tratta più, in questo caso, del lato “artistico” o creativo della comunicazione come propaganda. Come accade quando un artista presta la sua arte alla pubblicità (Depero e Campari, tanto per capirci).
All’epoca dei social l’istituzione culturale ibrida i propri linguaggi d’elezione con quelli delle piattaforme che usa per comunicare se stessa e nel farlo produce nuovi prodotti culturali. Quando questo circuito si chiude e dentro i suoi canali transitano le energie giuste i social network dispiegano tutte le loro potenzialità creative.
Se c’è un aspetto rivoluzionario della comunicazione contemporanea è senza dubbio questa coalescenza di produzione e comunicazione che le tecnologie digitali stanno rendendo possibile, giorno dopo giorno.