Democrazie della ricostruzione

L’Aquila. 900 giorni dopo.
Oltre 35.300 le persone ancora fuori dalle loro abitazioni.
Le scosse continuano, seppure con minore intensità e frequenza.
La ricostruzione delle abitazioni danneggiate dal sisma fuori dal centro storico procede faticosamente.
Il centro storico, uno dei più grandi e preziosi d’Italia, resta per lo più inaccessibile.
La comunità, sfaldata. Certamente forte, a tratti stanca.
Le Istituzioni, confuse. Almeno in apparenza.

Il drammatico evento che ha colpito la città dell’Aquila ha fatto emergere nel suo significato più profondo il concetto – e l’urgenza – di interesse generale della collettività, considerato come promozione di una società civile veramente democratica, di una comunità di persone che sappia riconoscere nella persona umana il fondamento del suo costituirsi e del suo funzionare. Una polis democratica, cioè, formata da cittadini responsabili e da corpi intermedi che in essa trovino il terreno favorevole per esprimersi e per operare, per rinascere e crescere.

I profondi, rapidi e complessi mutamenti territoriali, sociali, culturali ed economici che, a seguito del sisma del 2009, hanno sconvolto il territorio impongono a tutta la pubblica amministrazione un salto di qualità nei percorsi di coinvolgimento dei cittadini nel funzionamento del sistema democratico e nel processo di ricostruzione.

La posta in gioco è evidentemente troppo alta perché si proceda con la faticosa confusione e gradualità cui siamo -ahimè- abituati. Quel processo di evoluzione delle pubbliche amministrazioni teso a porre il cittadino al centro delle azioni e dei servizi pubblici, che affonda le sue radici negli ormai lontani anni ’90, necessita cioè sul territorio aquilano di un’urgente accelerazione.

L’esigenza è solo apparentemente duplice: quella dei cittadini di essere informati, di conoscere e di partecipare ai processi pubblici decisionali della ricostruzione e quella della pubblica amministrazione di garantire trasparenza e raccogliere e far fruttare tutte le potenziali risorse che il territorio offre. Due facce della stessa medaglia ma un unico obiettivo: mettere in comune le informazioni, far dialogare la città e attivare operativamente una ricostruzione efficace e partecipata.

Le Istituzioni sono chiamate a una responsabilità non più rinviabile: essere in grado di gestire il capitale sociale del territorio, aggregando e moltiplicando, cioè, quel “quarto istinto”, per dirla con la definizione di Rifkin, che spinge ad andare oltre i desideri meramente egoistici e d’ambizione includendo nella prospettiva d’interessi di ciascuno anche la comunità in cui si vive. Secondo la prospettiva europea si parla a questo proposito di innovazione sociale, intesa come la capacità di una società di affrontare e risolvere i suoi problemi socio-ambientali facendo leva sull’intelligenza collettiva che è presente in ciascuna di esse.

Questo “democratizzare” la democrazia dovrebbe tradursi innanzitutto nella capacità di generare open data, vale a dire trasparenza e coinvolgimento diretto dei cittadini, fino ad arrivare a un vero e proprio open government della ricostruzione. Con l’espressione “governo aperto” si identifica una nuova etica di governance che garantisca l’apertura e la trasparenza delle amministrazioni nei confronti dei cittadini mediante un ripensamento dei modelli e degli strumenti, primi fra tutti le nuove tecnologie, elementi imprescindibili per l’attuazione di una simile impostazione di co-working.

La promozione del confronto pubblico sulle decisioni da prendere e da portare avanti per ridare vita al territorio aquilano risulta quindi la tappa fondamentale per trasformare i cittadini da semplici destinatari di azioni e decisioni ad attori sociali di un processo realmente bottom-up, che si snoda e si sviluppa, cioè, dal basso verso l’alto: un grassroots movement, come alcuni preferiscono recentemente chiamarlo per evitare qualsiasi tipo di giudizio di valore e porre le istituzioni e la comunità locale sul medesimo piano.

In tale prospettiva ogni processo decisionale si fonderà su almeno tre elementi: la partecipazione dei cittadini, l’uso delle nuove tecnologie e l’attivazione di strumenti di verifica e di controllo.

Non è banale sottolineare che la precondizione a che ciò si verifichi è l’esistenza di un rapporto di fiducia tra istituzione e cittadino, dal momento che nessuna comunicazione può essere efficace a prescindere dalla credibilità della fonte della comunicazione stessa.

La ri-costruzione della fiducia a sua volta passa inevitabilmente, da parte della pubblica amministrazione, non solo in una consapevole assunzione del rischio insito nel concetto di apertura e disponibilità alla condivisione (quindi anche a forme di monitoraggio e di controllo), ma anche in un investimento di risorse verso la professionalizzazione e la creazione/modificazione delle strutture organizzative necessarie, elementi indispensabili a garantire la non episodicità della relazione con la comunità locale, ma anzi la continuità del partenariato.

Gli strumenti esistono, ma è ancora necessario investire sull’abbattimento di quella barriera di natura culturale che ostacola la messa in moto del cambiamento di prospettiva. Un cambiamento che, usando l’espressione dell’ultimo libro di Marianella Sclavi, esperta di gestione creativa dei conflitti e di arte di ascoltare, faccia leva su un confronto creativo e sul passaggio dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati.

Una ricostruzione efficace della città difficilmente potrà non fare leva su un’alleanza di risorse e di pensieri che si organizzano e che, sulla base di patti trasparenti e regole condivise, dia impulso a un serio e competente lavoro di pianificazione.

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