La mafia, una potenza diabolica?

Alfio Mastropaolo rilegge il lavoro storiografico sulla mafia di Salvatore Lupo.

Una riflessione a partire dall’ultimo volume dello storico siciliano, “La mafia. Centosessant’anni di storia” (Donzelli 2019).

Joe Valachi

Salvatore Lupo ha scritto la sua preziosa Summa mafiologica. Pochi sono autorizzati a farlo come lui. Lo ha fatto scrivendo un libro di gran pregio, pieno d’informazioni, racconti, interrogativi, spiegazioni, riflessioni. Intorno a uno tra i fenomeni che più hanno inciso sulla storia dell’Italia unificata. Si è spesso inclini a rappresentare la mafia come una potenza diabolica, un superpotere inestricabilmente avvinghiato con la storia della Sicilia e del paese, che magari nutre aspirazioni globali. Lupo è uno studioso di scienze sociali e sgombra sin dalle prime pagine il campo da una simile rappresentazione. Demonizzare l’avversario è una delle armi più consuete per combatterlo. Lupo però, i cui sentimenti circa la mafia non sono in dubbio, fa storia. E una cosa è opporsi alla mafia da storico, un’altra da militante politico. Per uno storico la mafia non può essere “una cosa dell’altro mondo”. Purtroppo, è “una cosa di questo mondo”, che come tale va letta e come tale va contrastata. Ma come tutte le cose umane, contrastabile e destinata a finire.

Il lungo, complesso, circostanziato racconto di Lupo, frutto di ricerche condotte per decenni, precipitate in altri libri importanti, consente forse meglio di altri una ricostruzione idealtipica del fenomeno mafioso. Che tenga insieme le sue svariate trasformazioni occorse in un lasso di tempo lunghissimo. Cosa è la mafia? Lupo la definisce spesso un’organizzazione criminale, e contraddice così apertamente un’antica, e anche piuttosto illustre, tradizione che la definisce un effetto culturale. O il frutto di uno specifico clima culturale, va da sé arcaico, tipico della Sicilia occidentale. Forse sarebbe preferibile il termine istituzione. Tutte le organizzazioni sono istituzioni. Non tutte le istituzioni sono organizzazioni. Le istituzioni sono reti stabilizzate di relazioni. La mafia, Lupo spiega, a volte è ben organizzata, altre volte meno. Dunque è un’istituzione, e anzi una costellazione d’istituzioni, con le sue regole, i suoi valori, le sue parole, dunque la sua cultura, nonché i suoi abitanti, i suoi alleati, i suoi avversari, con le loro parole, idee e azioni. I suoi abitanti contribuiscono a farla e disfarla di continuo: interpretano regole e valori molto diversamente a seconda di chi sono e del mondo da cui vengono e in cui vivono; li ripropongono all’interno e li esportano all’esterno. Reagiscono ai loro alleati e ai loro avversari, che vedono la mafia altrimenti, sempre a seconda della contingenza, e anch’essi concorrono a farla molto attivamente. In questo non è così diversa da altre istituzioni: la chiesa, l’impresa, i partiti, la magistratura, l’accademia.

Storicamente, Lupo conferma, la mafia è una bolla di violenza, potremmo dire militare, che è sopravvissuta all’istituzione del monopolio legittimo della violenza da parte dello Stato. Non è un evento eccezionale. Succede. Specie all’indomani delle rivoluzioni e delle guerre, ma non solo. Il fascismo fu una bolla di violenza mostruosa. Le situazioni di crisi, di grave instabilità politica, suscitano bolle di violenza, o rivitalizzano e potenziano quelle che già ci sono: la storia della camorra, della ‘ndrangheta e della Sacra corona unita è la storia di bolle più modeste, che si sono sviluppate in momenti particolarmente delicati della storia repubblicana. Dalla sua la violenza mafiosa aveva i robusti precedenti. Quando divenne una bolla incistata nello Stato unitario, disponeva di una manodopera consistente di specialisti della violenza. I facinorosi di cui narrano tante storie.

Perché la mafia è sopravvissuta per tanto tempo? La risposta è forse più semplice di quanto non sembri. Non certo unicamente in ragione delle sue capacità. Ma piuttosto perché lo Stato non aveva la forza di sradicarla, come ha fatto con altre bolle analoghe che si erano sviluppate nella turbolenta stagione degli anni ’59-’60 del secolo XIX. Oltre a non avere la forza, le classi dirigenti nazionali e locali – meglio: la parte di esse più direttamente coinvolte nel governo del paese – non avevano convenienza a sradicarla: era un tramite per assicurarsi l’acquiescenza dei potentati locali, e dei loro sottoposti, in alcune aree di una regione che se in origine era remota e turbolenta, col tempo conquisterà, per varie ragioni, uno spazio nella vita nazionale. Che sia chiaro perciò: non è, dice Lupo, una storia di “naturale tolleranza”. Di naturale in società non c’è nulla. Quella della mafia è piuttosto una storia, come succede nelle relazioni sociali, di reciproche e banali convenienze.

Come hanno mostrato molti altri studiosi del fenomeno (per tutti Umberto Santino), la bolla di violenza mafiosa è sopravvissuta anzitutto grazie ai servizi che rendeva allo Stato, alla politica e alle classi dirigenti; anche alla Chiesa, a leggere la citazione del cardinale Ruffini citata nel libro. La mafia, che ha pertanto un’incontestabile vocazione politica, assolve, dice Lupo, una funzione “vicaria”. Assicura l’ordine. Non un ordine perfetto e nemmeno quello che sta scritto nelle leggi dello Stato. Serve a mantenere sotto chi deve stare sotto e sopra chi ha il destino di star sopra. Offre altri mezzi, non ortodossi, per contrastare gli oppositori di chi governa lo Stato e delle classi dirigenti e per favorire gli affari di queste ultime. È storia lunghissima: all’indomani dell’unità servirà alla Destra per contrastare i democratici; servirà più volte a reprimere le ribellioni contadine; servirà a arginare i comunisti; anche più avanti servirà a contrastare tentativi di rinnovamento politico che andavano oltre la lotta alla mafia. Una pagina emblematica è quella dell’assassinio di Mattarella, la cui azione di presidente della regione andava ben oltre il contrasto alla mafia. Ovviamente la mafia, o le mafie, nel frattempo facevano pure i loro affari.

La mafia ha il pregio di essere un’istituzione flessibile. Ha mostrato una considerevole capacità di cambiare tattiche e strategie, di mimetizzarsi e di esibirsi a sua convenienza. C’è da supporre che questo sia uno dei segreti della sua tanto prolungata riproduzione. Ha saputo estendere i propri affari, che sono semplici: guadagnare potere e arricchirsi. Checché qualcuno ne dica, non è entrata in politica. Anche se ha fatto politica alla grande, tanto quanto ha fatto affari. Ha usato la politica ufficiale e si è fatta usare da essa. Come ha sfruttato le opportunità di arricchimento. La stretta associazione tra le fortune italiane e quelle nordamericane – non ci sono solo quelle – che il libro sottolinea è la dimostrazione di quest’ultima capacità. Verrebbe perfino la tentazione di dire che le mafie sono le istituzioni e le filiere imprenditoriali più durature del paese.

Se però la mafia ci mette molto di suo, essa è sopravvissuta soprattutto per gli intrecci che le hanno consentito lo Stato, la politica elettiva, i ceti dirigenti e imprenditoriali. Non lo si ripete mai abbastanza. I quali le hanno permesso di esercitare perfino una formidabile azione culturale. Non c’è istituzione che non produca cultura: verso l’interno e verso l’esterno. La mafia, che non è appunto soltanto una banda di delinquenti di periferia, l’ha prodotta su vasta scala e in maniera raffinata, l’ha interiorizzata e l’ha esportata, occultando o minimizzando la sua dimensione violenta. Ha profittato di motivi culturali prodotti dalla società locale di cui era parte, le sciagurate pulsioni sicilianiste, insieme a tradizioni massoniche e liturgie religiose, la cultura ottocentesca delle società segrete. Ma è stata anche aiutata a rielaborare tutti questi apporti culturali. Lupo abbonda in citazioni di corresponsabili, il che non vuol dire però complici: il grande etnologo Pitrè, il grande giurista e personalità politica Vittorio Emanuele Orlando, le stesse sentenze della magistratura, che hanno accolto e legittimato la lettura culturale. A elaborare l’immaginario mafioso ci si mise persino, forse più involontariamente di tutti, il romanziere repubblicano Luigi Natoli, scrivendo i suoi romanzi dedicati di Beati Paoli. Perché un osservatore della società  come Pitré riducesse la mafia a fenomeno culturale è una questione interessante. Era una questione di solidarietà politiche, di orgoglio sicilianista, o rimase solo imprigionato dal mondo che osservava?

Il dilemma vecchia/nuova mafia, una talora brutale ma dopotutto bonaria, l’altra efferata, che Lupo evoca molto spesso, appartiene a questa dimensione culturale della mafia, la quale per prima cosa nel suo discorso, diciamo pubblico, ridimensiona l’impiego della violenza. Meglio: quelli che si pretendono eredi della vecchia mafia la accreditano come una tecnica estrema, da usare con parsimonia, in circostanze di particolare gravità. I conti, tutto sommato, tornano. Tutte le istituzioni che detengono un potenziale coercitivo sanno bene che la coercizione va dosata. L’azione culturale è un sostituto formidabile della coercizione. Bourdieu non casualmente la chiama violenza simbolica. Quando la mafia ha sbagliato il dosaggio ha segnato la sua grande sconfitta.

Quale sia la potenza della cultura lo dimostra a contrario la vicenda dell’antimafia, che è divenuta fatto politico da una resistenza originariamente d’ordine culturale. Lentamente, con fatica, tra grandi contraddizioni, gli avversari della mafia sono divenuti anche loro una poderosa emittente culturale. È un progressivo accumulo di tasselli, prodotti da – alcuni – magistrati, poliziotti, politici d’opposizione, intellettuali, unitamente, a lungo al mondo cattolico postconciliare, alla cosiddetta società civile, alla stessa attività di ricerca, di cui Lupo è brillante ma non esclusivo esempio. Finalmente, quando la mafia ha esagerato con la violenza, ne è scaturita una resistenza ineludibile che ha travolto ogni understatement e ogni complicità politica. Nel comune sentire la mafia è divenuta una violenza e un’ingiustizia inaccettabile. L’antimafia uno degli attori che hanno fatto crollare di schianto la cosiddetta Prima Repubblica. Che ha reso insopportabile, oltre all’azione violenta, quella di soccorso elettorale, i traffici loschi, gli intrecci con la politica. Che ha reso evidenti cose che non si vedevano, o che si riusciva a dissimulare. Messo alle strette, anche lo Stato, o chi era in carico di esso, ha revocato ogni reticenza, ha dispiegato mezzi eccezionali, ha lasciato spazio alle sue componenti più determinate a contrastare la mafia – nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nella stessa politica – e l’ha messa all’angolo. È stata una svolta, lo sappiamo, sanguinosissima. Che è costata la vita a tantissimi. Lupo li ricorda e rende onore a chi lo merita. Non senza discutere, criticamente, com’è compito di uno studioso, anche l’azione di contrasto. Niente è indiscutibile e anche l’azione di contrasto, e la polemica politica, possono produrre eccessi: la demonizzazione di cui si è detto all’inizio. Pagine molto stimolanti nel libro sono dedicate alla polemica, non priva di ambiguità, di Leonardo Sciascia contro i professionisti dell’antimafia.

Due considerazioni per concludere. La mafia raccontata da Lupo non è figlia dell’arretratezza. Tolta qualche liturgia, non ha niente di arcaico. Il problema dell’arcaismo non è suo, ma semmai dello Stato che non ha saputo essere pienamente moderno, conseguendo un pieno monopolio della coercizione in qualche angolo del suo territorio. La bolla di violenza originaria ha dato prova di una straordinaria capacità anche di modernizzarsi. L’avventura transatlantica ne è la dimostrazione più evidente. C’era la possibilità di sfruttare nuovi mercati, economicamente e politicamente, e la mafia li ha sfruttati. Ha saputo riconvertirsi dal feudo e dai giardini all’edilizia, ai grandi appalti, al contrabbando, ai traffici di droga e sicuramente anche all’alta finanza internazionale. Le storie di Sindona e del Banco Ambrosiano sono punte di un iceberg.

Seconda considerazione. Tra le risorse che la mafia ha messo in campo in questa sua incessante modernizzazione c’è la sua capacità di mediare. La mafia si è largamente infiltrata nella politica e nell’economia. Ma per come è nata e per come è vissuta, da tantissimo tempo ha dato prova di una professionalità straordinaria nelle attività di mediazione, di dirimere o sedare controversie, di facilitare affari, tra mondi e interessi diversi. È una professionalità che ha contribuito alla sua esportazione forse più della violenza: in America, in Tunisia, in Francia, più recentemente nel Centro-Nord.

È una professionalità pregiata, che va tenuta d’occhio. Entro quella che qualcuno chiama la stagnazione secolare, in cui al decadimento delle attività produttive, che è fenomeno senz’altro critico, si supplisce mettendo a reddito altre risorse – i territori urbani, i servizi pubblici, ultimamente perfino l’accoglienza agli immigrati – le attività di mediazione hanno trovato spazio per crescere in maniera esponenziale. Com’è facile intuire, tra mediazione e corruzione la distanza è invece breve. E potrebbe pure schiudere nuovi spazi per l’impiego della violenza. E così, anche lontano dalla Sicilia, come suggeriscono le ricerche di Sciarrone, Brancaccio, Martone, Vesco, Belloni e altri ancora, potrebbero svilupparsi attività che richiamino i vecchi specialisti del ramo, o che ne suscitino di nuovi, in qualche modo riconducibili all’idealtipo mafioso.

Print Friendly, PDF & Email
Close