Selfie. Forme e pratiche riflessive

Il selfie è uno scatto riflessivo, una fotografia che una persona fa a se stessa – in alcuni casi con altri e fra altri – realizzato con un dispositivo mobile come uno smartphone o un tablet, oppure tramite una webcam, talvolta mediante l’ausilio di specchi, oggetto di condivisione sui social network.

Il termine ha acquistato una certa popolarità attraverso gli stessi – ci basti pensare all’introduzione dell’hashtag “#selfie” su Flickr nel 2004 – ma l’uso è diventato comune nel 2012, anno a partire dal quale si è diffuso trasversalmente sui principali media. Il termine “selfie” nel 2013 è stato nominato parola dell’anno dagli Oxford Dictionaries. Nel 2015 è quindi entrato nel dizionario Zingarelli.

Esso, oltre a risultare estremamente diffuso, presenta molteplici varianti, alcune focalizzate su determinate parti del corpo – basti pensare a neologismi come belfie (foto del proprio lato b) o helfie (foto dei propri capelli), o ancora su particolari inquadrature su parti del corpo – come il side boob (il selfie che immortala il seno, visto di fianco) o l’underboob (scatto che lascia intravedere il seno, da sotto alle magliette o canotte). Ricordiamo inoltre selfie centrati su particolari attività – come il welfie (per l’allenamento) – o stati – come il drelfie (per l’ubriachezza). Due delle varianti servono a indicare scatti dei propri scaffali o in particolare librerie – shelfie e bookshelfie. Infine l’ussie è una fotografia di gruppo in cui uno dei membri effettua lo scatto comprendendosi in esso e lo youie è un selfie di un’altra persona.

L’articolo intende interrogarsi su come il selfie si possa considerare un autoritratto che l’enunciatore fa di se stesso, e intende inoltre proporre una riflessione su come l’enunciatario si inscriva al suo interno, su come questa forma di rappresentazione possa considerarsi nell’ambito delle nuove forme narrative e in particolare di quello del visual storytelling e su come attraverso questa prassi vengano ridefiniti ruoli e competenze dei dispositivi utilizzati per la sua realizzazione. Il fenomeno del selfie ci aiuta inoltre a riconsiderare in particolare la relazione riflessiva tra l’utente e il medium – di cui si occupano Bolter e Grusin nella terza parte del loro Remediation scrivendo di sé rimediato, sé virtuale, sé interconnesso– attraverso l’ottica della teoria dell’enunciazione e in termini metalinguistici.

Iniziamo ripercorrendo brevemente alcune riflessioni condotte da Eco e Fabbri sugli specchi per rileggerle in relazione al fenomeno dei selfie.

Quanto a Eco in primo luogo ci occupiamo del saggio intitolato Sugli specchi, scritto nel 1985 e di Kant e l’ornitorinco, volume pubblicato nel 1997. Di questo secondo testo in particolare il riferimento è al capitolo sei, intitolato Iconismo ed ipoicone, paragrafi dieci e undici, rispettivamente dedicati alle protesi e agli specchi.

Eco si preoccupa di contestare una delle caratteristiche che viene ascritta all’immagine speculare da una tradizione consolidata. Egli ritiene che lo specchio non produca un’immagine ribaltata, o a simmetria inversa, che dir si voglia; a suo avviso lo specchio non inverte la destra con la sinistra. Per Eco gli studi condotti dalla catottrica non autorizzano la diffusa opinione che lo specchio sia in grado di determinare tale inversione. Infatti i raggi di luce che colpiscono la superficie riflettente non si incrociano l’un l’altro. A suo avviso l’illusione del ribaltamento dell’immagine è suscitata da un’identificazione del soggetto con l’immagine speculare. L’autore critica quella che definisce come antropomorfizzazione dell’oggetto. Egli osserva inoltre che, nella nostra quotidianità, non incontriamo alcuna difficoltà a utilizzare lo specchio. Ritiene quindi che, nella valutazione del fenomeno speculare, esista un divario fra percezione e giudizio.

Per Eco inizialmente lo specchio è un canale-protesi. Esso è in grado di estendere il raggio di azione dell’occhio, «consente di cogliere lo stimolo visivo dove l’occhio non potrebbe pervenire» (1985, p.16). Lo specchio in quanto protesi è un canale, «un medium materiale che consente il passaggio di informazione» (1985, p.16).

Eco sostiene che l’immagine riflessa nello specchio non è un segno perché, semplicando, non sta per il corpo che la causa. Essa esiste soltanto in presenza dell’oggetto (o soggetto, riflesso).

In Kant e l’ornitorinco l’autore sviluppa il concetto di specchio in quanto protesi, già introdotto nel saggio Sugli specchi, tralasciando il concetto di specchio in quanto canale, e lo utilizza per introdurre la concezione della televisione a circuito chiuso come sistema para-speculare.

Per l’autore, costruendo in modo opportuno una catena di specchi, è possibile trasmettere un’immagine, seppur a distanza limitata. A suo avviso «la televisione ci appare come uno specchio elettronico che ci mostra a distanza quello che avviene in un punto che il nostro occhio non potrebbe altrimenti raggiungere» (1997, p.326).

Paolo Fabbri, in un convegno del 1999 consacrato all’opera di Umberto Eco, dedica il suo intervento, intitolato Jeux de miroirs: un rétroviseur sur la sémiotique, agli scritti dell’autore sul tema dello specchio.

Egli, pur riconoscendo alcuni importanti meriti alla teorizzazione di Eco, ne critica alcune posizioni. Fabbri concorda con l’affermazione di Eco secondo la quale noi vediamo nello specchio un’immagine a simmetria inversa perché ci identifichiamo con l’immagine riflessa. Allo stesso tempo, a differenza di Eco, non nega il fenomeno dell’enantiomorfismo, ovvero del destrismo-sinistrismo.

Egli, associando le due concezioni, riesce a teorizzare lo specchio in relazione alla teoria dell’enunciazione. A suo avviso, identificandoci con l’immagine allo specchio riusciamo non soltanto a vedere un io, ma anche un tu e un egli.

Fabbri si pronuncia anche sulla concezione della tv a circuito chiuso espressa da Eco. Ritiene che vi si possa trovare un’esplicazione del fatto che guardando la televisione sia possibile allo stesso tempo considerarla come qualcosa di totalmente staccato da noi oppure qualcosa da cui non riusciamo a prendere le distanze.

Fabbri, nel suo saggio, concepisce lo specchio come uno strumento di fronte al quale siamo costretti a costruire immagini e con cui, quindi, non ci relazioniamo passivamente. Per l’autore le problematiche legate allo specchio risiedono più in noi stessi che in esso. A suo avviso lo specchio può essere considerato come pronome o meglio come prototipo del meccanismo d’enunciazione.

L’autore inoltre immagina lo specchio come luogo di metamorfosi delle immagini e delle sostanze e si chiede se sia possibile trasferire la questione dell’enunciazione in quella di protesi attraverso la teorizzazione dello specchio come istanza della sostanza.

Non ci risulta difficile pensare a delle analogie fra il selfie, la televisione a circuito chiuso concepita da Eco come sistema para-speculare e lo specchio di Fabbri come prototipo del meccanismo dell’enunciazione.

Concentrandoci ora su una riflessione specifica sui dispositivi, la macchina fotografica è tradizionalmente caratterizzata da una direzionalità per cui in essa da una parte c’è un mirino, o comunque un elemento come un display che facilita la determinazione della ripresa, e dall’altra l’obiettivo, collocato di fronte al ripreso. Alcuni dei moderni dispositivi fanno sì che il soggetto che realizza il selfie, disponga invece di una fotocamera frontale rispetto a uno schermo su cui vedere quello che sta fotografando. Un selfie può essere realizzato anche attraverso un dispositivo con fotocamera posteriore. In questo caso entra in gioco l’abilità di tenerlo in mano rivoltato, orientarlo per inquadrare alla meglio o al limite cercare anche una buona illuminazione, e toccare il pulsante giusto per scattare.

Inoltre i dispositivi preposti a fare fotografie, se non vengono utilizzati per realizzare degli autoscatti — che consentono a chi li attiva di far parte del soggetto profotografico, attraverso l’innesco di un ritardo — e se vengono usati senza l’utilizzo di alcun supporto, come ad esempio il cavalletto o un’asta, rientrano nella sfera d’azione di una dimensione corporea direttamente in contatto con l’oggetto. Un braccio che si allunga, una mano che stringe uno smartphone, uno schermo immediatamente prossimo, entrano a far parte di una dimensione estetica e soprattutto estesica.

Per quanto riguarda invece l’utilizzo di estensioni del corpo, l’asta per i selfie, in genere telescopica – è comune vederla in vendita e in uso per le strade – viene utilizzata posizionando uno smartphone o una fotocamera su un supporto presente su una delle estremità, in modo tale che questi dispositivi possano essere utilizzati oltre il normale spettro di movimento del braccio, che mediante essa assume differenti possibilità. Parafrasando le riflessioni di Paolo Fabbri sul bastone (2006), l’asta per i selfie si può considerare transitivamente come un operatore di relazione tra il corpo, i dispositivi sorretti a distanza, il mondo naturale, come lo intende Greimas, e gli altri corpi sociali. Riflessivamente si può considerare come prolungamento. In termini enunciazionali l’asta valorizza nell’impugnatura l’enunciatore che la tiene in mano e nel supporto il dispositivo. La sua configurazione ha delle varianti. Alcune aste sono dotate di telecomandi per scattare direttamente le foto, altre più elementari vengono utilizzate mediante l’impostazione sul dispositivo utilizzato dell’autoscatto, altre ancora hanno incorporato uno specchietto retrovisore per scattare con la fotocamera posteriore.

Dalle immagini diffuse dalla stampa in cui vengono figurativizzati soggetti intenti nella realizzazione di selfie secondo differenti inquadrature, ai giochi di specchi impiegati anche metaforicamente per realizzare gli scatti in cui tali apparati possono essere ripresi, dalle relazioni messe in atto fra enunciatori ed enunciatari alle strategie enunciazionali impiegate, dai rapporti fra guardante/guardato ai discorsi riflessivi e metariflessivi, gli strumenti elaborati dalla semiotica del visivo e dalla teoria dell’enunciazione ci offrono notevoli possibilità di analisi dei selfie, nel ridefinirsi delle forme di significazione e narratività multimodale.

Il selfie può così considerarsi nell’ambito di differenti fenomeni legati alla protesizzazione tecnica, in relazione alle pratiche, alle forme dell’autoritratto socialmente percorse attraverso il mobile, in rapporto al concetto di testo sincretico, ai racconti condivisi attraverso differenti linguaggi, al rapporto con il medium, che diventa sempre più dereferenzializzato e semioticamente rielaborato.

 

Riferimenti bibliografici

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