Alla vigilia dell’ottavo anniversario del terremoto dell’Aquila, pubblichiamo una riflessione di Giovanni Gugg sul ruolo dei riti di emergenza e di commemorazione prima, durante e dopo i disastri, a partire dall’analisi del caso Vesuviano e dei recenti terremoti che hanno colpito alcune aree del Centro Italia.
Alla fine di gennaio 2017, in Umbria, il presidente della Conferenza episcopale regionale e arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, cardinale Gualtiero Bassetti, ha inviato un messaggio alle 600 parrocchie della regione perché domenica 29 gennaio ci si organizzasse per una preghiera corale, così da invocare
il cessare dei terremoti e un tempo di serenità per tanti fratelli e sorelle provati dalle forze della natura. […] Il protrarsi del sisma che tormenta da mesi la nostra regione, specialmente la Valnerina, sollecita la nostra solidarietà e richiede la nostra preghiera (Ansa Umbria del 26 gennaio 2017 ).
Questo genere di orazione collettiva può essere considerata come una particolare modalità di “riti in emergenza”, ovvero dei dispositivi folklorici utili a riassorbire lo shock causato da un disastro e, allo stesso tempo, a tentare di tenere insieme una collettività dopo un trauma. Il termine “dispositivo” va inteso nel significato che gli attribuisce Giorgio Agamben, ovvero come ciò che ha «la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi» (Agamben 2006, p. 21). Non solo, dunque, le strutture che hanno una connessione evidente con il potere, bensì tutti gli strumenti – compreso il linguaggio – che mettono in relazione gli esseri umani tra loro. In questo senso, l’esperienza di un medesimo modo di sentire, durante una crisi profonda, permette ai membri di una specifica comunità di pensare alla loro identità collettiva e di esprimerla secondo procedure che sono, appunto, culturali. I “riti in emergenza” vengono effettuati nel periodo che, localmente, è ritenuto di crisi: essi hanno luogo non solo durante la fase acuta del disastro, ma anche dopo, perché, com’è noto, il disastro non è il semplice scatenarsi di un evento fisico, bensì un processo sociale che dura nel tempo (Guidoboni 1984). Entro l’ampia categoria dei “riti in emergenza” vi sono molteplici tipologie rituali, spesso molto differenti tra loro: da quelle penitenziali e simboliche a quelle formali e propiziatorie, prendendo spesso la forma della processione, delle preghiere collettive o dei digiuni.
Come ho scritto altrove, i “riti in emergenza”
sono, al contempo, cerimonia liturgica e manifestazione di socialità volte al contenere l’angoscia: un tentativo di dominare ciò che è indomabile, ma anche una modalità per esprimere il senso di shock, la rabbia, l’incredulità e il dolore. In altre parole, i riti in emergenza sono il modo in cui i sopravvissuti cercano conforto stringendosi gli uni agli altri al fine di restare uniti e vincere la disperazione e la disgregazione (Gugg 2017, in corso di stampa).
Ne ho studiati vari casi per quanto riguarda il Vesuvio (Gugg 2014), specie in occasione dell’eruzione del 1631, ma particolarmente noto, tra le esplosioni recenti, è il rito riportato da Norman Lewis in “Napoli ’44”, in cui descrive una singolare processione volta a fermare la colata lavica (di cui, tuttavia, nelle modalità esposte, non si hanno altre testimonianze):
Su tutto dominava, un po’ per le dimensioni stesse e un po’ per la quantità di persone che ne sorreggevano il basamento fronteggiando l’eruzione, l’effigie di san Sebastiano. Imboccando una stradina laterale, tuttavia, ho scoperto un’altra statua, anch’essa circondata da molti devoti e coperta da un lenzuolo bianco. Uno dei carabinieri che perlustravano i dintorni a caccia di sciacalli mi ha detto che si trattava della statua di san Gennaro, fatta arrivare di nascosto da Napoli come ultima risorsa qualora tutto il resto fosse fallito. L’avevano coperta con un lenzuolo per evitare di offendere la confraternita di san Sebastiano e il santo stesso, che avrebbe potuto risentirsi per quell’intrusione nel suo territorio. Solo come estremo rimedio avrebbero portato allo scoperto san Gennaro, implorandolo di fare il miracolo. Il carabiniere non credeva che sarebbe stato necessario, perché secondo lui era evidente che la colata stava rallentando (Lewis 2012, p. 14).
Presentati spesso come manifestazioni superstiziose, esternazioni dell’irrazionalità o dimostrazioni dell’impreparazione dei sinistrati, in realtà, come osserva Jean Cazeneuve, i riti «quanto meno appaiono ragionevoli, tanto più rivelano la loro necessità» (Cazeneuve 1996, p. 13). In quest’ottica, i “riti in emergenza” sono da considerare sia come una manifestazione del culto, sia come un’elaborazione collettiva volta a dare senso all’accaduto. Attraverso i “riti in emergenza”, cioè, la comunità da un lato convoglia ed esprime le emozioni generate dalla calamità (a seconda delle fasi dell’evento, si passa dalla sorpresa all’incredulità, dall’ansia al terrore, dalla melanconia all’angoscia) e, dall’altro, può riconoscere se stessa tanto in un cammino spaziale, come nelle processioni che cingono l’abitato, quanto in un percorso interiore, come nelle preghiere e litanie che sono una prima forma di «messa in comune del dramma» (Langumier 2008, p. 47). Tornando all’eruzione del Vesuvio del marzo 1944, Lewis ed Emmanuel Roblès forniscono due esempi di come le pratiche rituali effettuate in quei momenti fungessero da strumento di controllo e di sfogo per stati d’animo turbati e afflitti:
Di tanto in tanto un paesano sconvolto afferrava uno stendardo e lo brandiva contro il muro di lava, agitandolo rabbiosamente, come per scacciare gli spiriti maligni dell’eruzione (Lewis 2012, p. 14).
Arrivavano a noi, condotte da una brezza ghiacciata, le urla del centro cittadino, in cui la processione stava probabilmente sfociando nell’isteria collettiva (Roblès 1994, p. 93).
Naturalmente, tali pratiche incorporano ulteriori aspetti, perché spesso rivelano un vero e proprio uso politico del disastro: osservarle significa aprire una finestra critica sulla dialettica che una determinata comunità ha saputo e voluto impostare con se stessa e col proprio ambiente; come nota Fabio Carnelli, cioè, vuol dire disporre di «un punto di vista peculiare per analizzare quelle tattiche dei soggetti volte a ripensare una comunità immaginata, subito dopo il “disastro”» (Carnelli 2015, p. 136). Dai resoconti d’epoca di determinate eruzioni vesuviane, ad esempio, tali riti sono esplicitamente approvati, se non sollecitati e organizzati, dalle gerarchie ecclesiastiche, tuttavia non mancano casi in cui i promotori sono stati gli amministratori e i politici (o, per la precisione, gli aristocratici), con una evidente strategia volta a radicarsi presso il popolo.
Gli ultimi mesi di scosse sismiche nell’Italia Centrale sono stati drammatici e spossanti, per cui le varie forme di religiosità emerse durante questa fase andrebbero considerate sotto diversi punti di vista. Di seguito farò una breve carrellata di casi che mostrano l’ampia gamma di varianti con cui si presenta il fenomeno.
All’indomani del terremoto del 30 ottobre 2016 molti abitanti di Ascoli Piceno si sono raccolti spontaneamente davanti alla cattedrale di sant’Emidio, rimasta chiusa per precauzione, per celebrare comunque la messa davanti al tempio di colui che è considerato il protettore dai terremoti (Piceno Oggi del 30 ottobre 2016). Lo stesso è accaduto a Norcia, davanti le macerie della basilica di san Benedetto (Tempi del 30 ottobre 2016).
Nello stesso periodo, però, il ricorso al sacro non è emerso solo in modo istintivo o impulsivo; anzi, è stato manifestamente sollecitato da figure specifiche, sia laiche che ecclesiastiche. Ad esempio, a Castel del Rio (Bologna) il sindaco Alberto Baldazzi ha inteso recuperare un rito risalente al 1725, anno in cui furono tenute delle preghiere collettive dopo alcuni eventi calamitosi in zona, stabilendo che questo in futuro diverrà un appuntamento fisso (personalmente, li chiamo “riti di commemorazione” e vi farò cenno alla fine del post):
ogni anno, in occasione dell’antivigilia di Ognissanti, ci sarà la Santa Messa nella chiesa di Sant’Ambrogio e la recita del rosario nell’oratorio della Beata Vergine del Sudore («Il Resto del Carlino», 28 ottobre 2016).
Alla fine di gennaio 2017, invece, a Spoleto (Perugia) il vescovo Renato Boccardo ha invitato a digiunare durante tutta la giornata di venerdì 27 e poi ha indetto una processione penitenziale per l’indomani, sabato 28, intorno alle mura di Norcia con l’immagine della Madonna Addolorata estratta dai Vigili del Fuoco dalla basilica di san Benedetto, crollata nel centro cittadino due mesi prima:
nella tradizione cristiana il digiuno ha un posto molto importante e particolare: è una privazione che si offre per rendere gradita a Dio la preghiera. Non facciamo digiuno per raccogliere soldi, ma per chiedere al Signore, creatore dell’universo, di intervenire anche sulle forze della natura. Non è Dio che manda il terremoto: ma Lui, che ha dato origine al mondo, regolato poi dalle leggi della natura che fanno il loro corso, può intervenire per il bene del creato. Con questo gesto vogliamo allora chiedere al Signore di avere misericordia di queste popolazioni e di questa terra ferite dal terremoto. Sarà anche un momento che ci aiuta a capire l’essenziale e a renderci conto che non tutto quello che facciamo è necessario. […] Riporteremo l’immagine della Madonna, molto venerata a Norcia e invocata anche come protettrice dai terremoti, per qualche ora nella sua terra per chiederle protezione sulla gente della Valnerina e liberazione dalla persecuzione del sisma (ADN Kronos, 26 gennaio 2017).
Se in futuro la comunità disastrata riconoscerà il “rito in emergenza” come efficace e, dunque, se l’intervento divino verrà ritenuto decisivo per la risoluzione dell’evento drammatico, allora è possibile che nei prossimi anni tale miracolo verrà ricordato attraverso un rito simile, ma di natura piuttosto diversa: il cosiddetto “rito di commemorazione”. Questo va considerato innanzitutto come una forma di memoria collettiva di quanto accaduto, una vera e propria macchina per risalire il tempo, cioè un modo per selezionare il passato e ripresentificare solo ciò che è ritenuto esemplare. La commemorazione, in altre parole, in quanto complesso di azioni, parole e gesti codificati, rappresenta una messa in ordine dei ricordi atta a favorirne la memoria o, per meglio dire, a tramandarne una memoria. Il “rito di commemorazione” agisce “come se” l’intervento divino di allora si compisse ancora, così da confermare e rigenerare periodicamente la comunità. Il rito garantisce che gli effetti di quel “mito” siano resi ancora attuali: rievoca quel che avvenne a beneficio di chi non era presente, così da realizzare ciò che Daniel Fabre definisce «fabbrica sociale del senso» (Fabre 2002, p. 118).
Al momento non possiamo sapere se i “riti in emergenza” brevemente illustrati in questo contributo daranno effettivamente luogo a specifici “riti di commemorazione”; ciò verrà chiarito solo da una costante e puntuale osservazione etnografica. Tuttavia, se ciò accadrà, ci troveremo di fronte a una pratica sociale che, svolgendosi ripetutamente, creerà un insieme di convenzioni e routine che, per questioni di convenienza ed efficienza, daranno l’illusione di una sua perennità ed immutabilità. In una parola: identità.
[Qui il podcast di Radio MPA con l’intervista a Giovanni Gugg sui “riti di emergenza” e i “riti di commemorazione” delle comunità scosse da terremoti o altri eventi disastrosi].
Bibliografia
Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006
Fabio Carnelli, “La festa di San Giovanni a Paganica. Riti e Santi fra le macerie del post-sisma aquilano”, in Pietro Saitta (a cura di) Fukushima, concordia e altre macerie. Vita quotidiana, resistenza e gestione del disastro, Editpress, Firenze 2015.
Jean Cazeneuve, La sociologia del rito, il Saggiatore, Milano 1996 (ed. or. 1971).
Daniel Fabre, Il rito e le sue ragioni, in Pietro Clemente e Fabio Mugnaini (a cura di), Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, Carocci, Roma 2002.
Giovanni Gugg, “Mettici la mano Tu!». Emergenza e commemorazione: vecchi e nuovi riti vesuviani”, in Gianfranca Ranisio e Domenica Borriello (a cura di), Linguaggi della devozione. Forme espressive del patrimonio sacro, Edizioni Di Pagina, Bari 2014.
Giovanni Gugg, The missing ex-voto. Anthropology and politics of the devotional practices in the eruption of Vesuvius in 1631, in Domenico Cerere, Chiara De Caprio, Lorenza Gianfrancesco, Pasquale Palmieri (a cura di) Disaster Narratives in Early Modern Naples. Politics, Communication and Culture, Viella, Roma (2017, in corso di stampa).
Emanuela Guidoboni, Riti di calamità. Terremoti a Ferrara nel 1570-74, Calamità paure risposte, numero monografico di “Quaderni storici”, vol. 19, n. 55 (1), il Mulino, Bologna 2984
Julien Langumier J., 2008: Survivre à l’inondation. Pour une ethnologie de la catastrophe, ENS éditions, Lione.
Norman Lewis, Napoli ’44, Adelphi, Milano 2012 (ed. or. 1978).
Emmanuel Roblès, Vesuvio, Tullio Pironti Editore, Napoli, 1994 (ed. or. 1994).