Il terremoto, le coincidenze del calendario e la politica del male minore.
1. Pasqua
Il 6 aprile 2009, alle ore 3 e 32 della notte, la città e la provincia de L’Aquila sono state scosse da un terremoto che ha provocato la morte di trecentootto persone, circa milleseicento feriti e sessantacinquemila sfollati. Una catastrofe naturale di certo aggravata, nelle proporzioni assunte dalla tragedia, dal mancato rispetto delle norme riguardanti l’edilizia antisismica.
Si era entrati nella settimana che conduce alla prima domenica di luna nuova di Primavera. La Settimana Santa durante la quale, secondo la religione cristiana, si segue la Passione di Gesù, se ne accompagna la morte e si testimonia la Resurrezione. Una coincidenza – un eufemismo in relazione alla portata catastrofica dell’evento – ampiamente sfruttata dai giornali e dalle televisioni nella costruzione dell’impianto retorico e valoriale attraverso il quale veicolare il racconto dei fatti.
Era Venerdì Santo quando sono stati celebrati i funerali di duecentocinque vittime. A riguardare le immagini di quel giorno di cordoglio e disperazione, sembra possibile comprendere come non mai, attraverso la coincidenza del calendario, l’efficacia del rito religioso: capace di interpretare la storia dell’uomo secondo le tappe della vita di Cristo. Nella diretta televisiva, una serie di testimoni racconta dei momenti in cui è avvenuto il crollo delle abitazioni, ma soprattutto esibisce il proprio smarrimento, il pianto, la commozione nel ricordo delle vittime. Una signora rilascia una dichiarazione alle telecamere: “Forse Dio ci ha punito perché non siamo mai contenti”. Inconsapevolmente, in una risposta mediata dal montaggio televisivo, il vescovo de L’Aquila che celebra i funerali risponde: “Il silenzio, quando viene dall’Alto, non è mai un abbandono”. Anche i giornalisti riprendono le Sacre Scritture e riassumono, citano a memoria dai tempi lontani del catechismo, interpretano ed esemplificano alcuni passi: “il dolore ha un valore redentivo” e, ancora, “la morte ci porta all’essenzialità della vita”. Le telecamere infieriscono sui crocifissi metallici saldati alle bare, mentre il montaggio alterna con le immagini delle alte cariche presenti alla cerimonia: lo Stato, i suoi apparati di governo e amministrazione sembrano appoggiarsi al Crocifisso. Nelle trasmissioni della sera si propone con insistenza ancora maggiore tale analogia e l’articolazione dei piani operata dal montaggio televisivo non fa che esplicitare una relazione, un ponte, tra l’iconografia della Passione e della Crocifissione di Cristo e la sofferenza dei cittadini abruzzesi.
2. Persistenza di un tema iconografico
Se è vero, come ha sostenuto Susan Sontag in uno dei suoi più celebri scritti, che “lo spettacolare è parte integrante delle narrazioni religiose attraverso cui si è dato un senso alla sofferenza per gran parte della storia occidentale”, e che “percepire la vitalità dell’iconografia cristiana in alcune fotografie che documentano guerre o disastri non è una proiezione sentimentale”,1 tornare a guardare oggi le immagini di quei giorni – esaurita l’efficacia della coincidenza, la sua capacità di naturalizzare quanto è mediaticamente costruito – significa riflettere sull’attualità implicita e implicata nei modi del vivere comunitario del racconto della Passione e della Crocifissione di Cristo. Sulla persistenza del sistema di valori che esprime, ma anche sul portato politico e ideologico di tale modo di figurazione del dolore e di gestione di un lutto individuale e collettivo.
Scansando i facili attacchi e le polemiche – al di là dei percorsi adottati dai singoli superstiti per superare il lutto e riprendere la vita – si tratta di riflettere sulle immagini dell’evento e sul loro riconfigurarsi in relazione a una iconografia ben precisa. Raccogliendo l’invito di Sontag a indagare la stratificazione delle rappresentazioni, che cosa si vede nei servizi televisivi che provengono dai luoghi del terremoto nel giorno della Via Crucis? Si vedono le forme del discorso e i codici compositivi mirati a veicolare in tutte le case una lettura dei fatti attraverso il sentimento della compassione della vicinanza emozionale: dall’utilizzo delle musiche con effetto patemizzante, all’infierire delle telecamere sui dettagli somatici dei testimoni, fino alla trasfigurazione epica dell’operato delle forze di polizia, dei Vigili del Fuoco, dei volontari che prestano con serietà e generosità il loro servizio. Al di là delle storie individuali, raccontate in nome della loro esemplarità, si assiste a una riduzione dei soggetti ai “ruoli tematici” della vittima e del benefattore, poiché quello che conta è garantire l’efficacia del dispositivo retorico attraverso il quale la tragedia viene gestita e veicolata.2 Gli schermi chiedono vittime, chiedono figure compassionevoli che tentino di alleviare la disperazione e il dolore; sembra di vedere, di nuovo, in filigrana, un dipinto riguardante la Crocifissione di Cristo, uno dei tanti capolavori: il martire al centro e ai piedi le figure dei devoti che istruiscono l’atteggiamento passionale e la reazione pragmatica allo spettatore esterno all’icona.
In questa rilettura di una “vecchia storia” – la Passione di Cristo – attraverso i tragici accidenti di una “storia nuova” – il terremoto in Abruzzo –, in questo racconto di una “storia nuova” attraverso l’architettura sempre efficace di una “vecchia storia”, emerge come in poche altre occasioni la capacità e il potere del discorso mediatico di orientare la narrazione di un evento di cronaca in modo tale da selezionare i valori, le chiavi di interpretazione e accettazione da parte dell’opinione pubblica. Le vittime ci sono state, i superstiti disperati pure. Ma a definire la condizione degli uomini in quanto vittime o superstiti è stata la tragedia stessa e l’impossibilità da parte della società di sventarla. E questo può essere raccontato e testimoniato in molti modi.
Occorre dunque chiedersi che cosa effettivamente abbia celato e, soprattutto, quale paradigma di gestione politica dell’emergenza ambisse a preparare il ricorso a tale repertorio iconografico nel racconto dei fatti.
3. Strumentalizzazione delle immagini e politica del “male minore”
A distanza di anni, tornando a guardare i resoconti provenienti dalla disastro, si riconoscere con facilità l’impianto retorico utilizzato – le sue origini nella storia delle arti – ai fini di una specifica idea di messa in condivisione dell’evento traumatico. Si è anche in grado di ipotizzare come dietro una retorica della compassione o a lato di qualsiasi colpevolizzazione strumentale rischi di nascondersi quel lassismo dell’agire politico che finisce per sposare la filosofia del “male minore”.3
Qui la politica non è più il luogo in cui si cerca di risolvere problemi comuni secondo il vincolo reciproco della responsabilità etica, ma uno spazio astratto in cui si pianifica la gestione economicamente e statisticamente più produttiva del territorio e della popolazione, per tamponare poi gli scarti di tale strategia – quelli in cui il “male”, la tragedia, il crollo, inevitabilmente si produce – attraverso la retorica del compatimento e la pratica dell’umanitarismo.4
Del resto, è nello stato di emergenza correlato a disastri naturali o conflitti bellici, e per tramite delle sue rappresentazioni mediatiche, che si rintracciano le prove tecniche, o le affermazioni occasionali, di un potere costituito capace di impedire ai soggetti di concorrere al bene della comunità, interrompendo la continuità tra uomo e cittadino. Anziché espressione di sintesi della pubblica opinione, anziché luogo di discussione e progettazione attraversato dalla spinta dell’etica, la politica si trasforma qui in mero agire economico, capace di asfaltare ogni inquietudine che attraversa il corpo sociale, previo avere appaltato il dominio della morale ad apposite organizzazioni che dispensano servizi di carità:
“Il male minore è stato sempre più spesso invocato in relazione al dilemma prodottosi all’intersezione tra due sfere di azione: quella militare e quella umanitaria […]. Al centro dei paradossi del male minore vi è il compromesso tattico che spesso degenera in un’impossibilità strutturale – un’impossibilità che intrappola lo Stato e la sua opposizione in una accettazione reciproca, rendendo de facto le organizzazioni non statali partecipi di un sistema diffuso di governo in cui lo Stato esternalizza la propria autocoscienza etica a un’agenzia non governativa etica, e questa agenzia delega allo Stato la sua pretesa di efficienza”.5
4. Etica delle immagini e politica dei “beni comuni”
È all’interno di questo scenario che l’idea di un’“etica delle immagini” opera in favore di una reintroduzione della sfera dell’etica nel campo dell’agire politico e contro l’intenzione di servirsi delle immagini stesse per sollecitare un attivismo umanitario esternalizzato ad ONG o compagnie caritatevoli.6 Certo, parlare di etica delle immagini non significa stabilire un codice o fissare dei limiti aprioristici, interdizioni. L’etica delle immagini coincide piuttosto con una pratica, che mira a coinvolgere gli operatori culturali come gli artisti e i giornalisti stessi, tesa a favorire l’acquisizione di consapevolezza del funzionamento delle rappresentazioni e della loro efficacia nel profilare le coordinate cognitive e passionali dello spettatore e, così, il suo spazio di azione politica. Come ha scritto Judith Butler, riprendendo e in qualche modo criticando la prospettiva di Sontag, non si può riflettere sull’etica e sulla politica delle rappresentazioni mediatiche, e dunque sulla politica dei governi occidentali contemporanei, senza coltivare una analitica delle immagini, poiché “imparare a vedere il frame che ci impedisce di vedere ciò che vediamo non è cosa facile”.7
Anziché lasciarsi anestetizzare dalle retoriche mediatiche ed esautorare dall’agire politico a vantaggio di interessi speculativi (pubblici o privati), lo spettatore che sapesse riconoscere nel montaggio dei fatti di un evento traumatico le strategie retoriche adottate potrebbe tentare di emanciparsi e rivendicare il diritto a concorrere alla costruzione e ricostruzione dello spazio comune, nonché alle forme della sua salvaguardia.
L’idea genericamente diffusa di “catastrofe naturale”, in quanto fenomeno imponderabile, tende a sollevare ogni responsabilità e legittima il ricorso sistematico a “misure eccezionali”. Al contrario, la consapevolezza che la catastrofe è anche l’esito di una politica improntata all’arricchimento, basata sulla mancata tutela dell’ambiente, chiama chiunque, nessuno escluso, a un’assunzione di responsabilità. È dunque all’interno di una politica dei “beni comuni” che l’etica può tornare ad essere valorizzata come una spinta immanente alla comunità stessa, anziché essere delegata a professionisti, oppure trasformata mediaticamente in una “sofferenza a distanza” che diventa compassione e beneficenza. È anche a un livello estetico che si gioca la partita per lo sviluppo di una politica dei beni comuni.8 Imparare a guardare significa comprendere che le cose ci ri-guardano e che della loro cura ne va di tutti noi.
A partire dal complesso rapporto che si instaura tra il sistema mediatico e quello di governo in relazione a catastrofi naturali come quella dell’aprile 2009, coltivare i saperi della visione significherebbe, dunque, poter riconoscere e scongiurare l’affermazione di paradigmi politici che assumessero i tratti paradossali di una tecnocrazia umanitaria, dove ogni partecipazione democratica e ogni collegialità decisionale fossero impedite, mentre l’assistenza, i servizi e più in generale tutte le condizioni di vita civile venissero sospese per essere erogate, all’occorrenza, nelle forme della beneficenza e della concessione, in un’inquietante militarizzazione del territorio mascherata da filantropia. Come dire, da uomo a uomo.
Note
- S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2006, p. 78.
- Per una riflessione sulle diverse strategie (“topiche”) di rappresentazione mediatica della sofferenza, considerate nei loro correlati politici, Vedi L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina, Milano 2000.
- Per una breve genealogia del concetto di “male minore” a partire dalla filosofia morale classica e dalla prima teologia cristiana fino alle riflessioni di Hannah Arendt sui totalitarismi del XX secolo: E. Weizman, Il male minore, a cura di N. Perugini, Nottetempo, Roma 2009, pp. 7-33.
- Per una riflessione sulle ipocrisie politiche insite in una trasformazione della funzione umanitaria in umanitarismo, vedi S. Žižek, La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007, pp. 7-14. Tra welfare e filantropia, in un approfondito dibattito, vedi la presa di posizione di Wu Ming – una ripresa della critica di Žižek all’umanitarismo – pubblicata su “Giap!” il 27/11/2011.
- E. Weizman, Il male minore, cit., pp. 28, 39.
- Il tema dell’etica è centrale nel dibattito dei visual studies. Su tutti vedi i volumi collettivi G. Careri, B. Rudiger, a cura di, Face au réel. Etique de la forme dans l’art contemporain, Archibooks + Sautereau, Paris 2008; D. Guastini, D. Cecchi, A. Campo, Alla fine delle cose. Contributi a una storia critica delle immagini, VoLo Publisher, Firenze 2011.
- J. Butler, Frames of War. When Is Life Grievable?, Verso, London 2010, p. 100.
- Il tema etico ed estetico è affrontato da Ugo Mattei in uno degli ultimi contributi allo sviluppo di una consapevolezza dei “beni comuni”: Il buon governo del comune. Prime riflessioni, 15/11/2011, pubblicato online sul blog UniNomadE, p. 5.