Il 9 ottobre è trascorso il cinquantesimo anniversario dalla morte di Raniero Panzieri, ricordato a Siena, presso la Biblioteca Umanistica dell’Università, con la mostra documentaria e bibliografica Raniero Panzieri, un marxista militante, organizzata grazie ai volontari del Servizio civile regionale nell’ambito del progetto A carte scoperte del Sistema Bibliotecario di Ateneo, visitabile fino al 18 ottobre 2014.
Panzieri rappresenta uno degli esempi più coerenti di intellettuale che scelse di fare della politica e del fare politica il centro della propria esistenza, rinunciando alle proprie aspirazioni personali. E proprio oggi che la professione della politica è quanto mai screditata, è importante ricordare che c’è stato chi ha saputo esercitarla con onestà e impegno totali.
Quando nel 1944 si iscrisse al Partito socialista, Panzieri era uno studioso di filosofia che avrebbe potuto scegliere un destino da “compagno di strada”, esercitando una professione intellettuale e militando con strumenti di carattere prevalentemente culturale. E fu effettivamente in questo ambito che mosse i primi passi nel del Psi, lavorando inizialmente al Centro di Studi Sociali di Giuseppe Romita e poi, dal 1946, all’Istituto di Studi Socialisti fondato da Rodolfo Morandi, di cui divenne segretario nel 1947. Dopo lo choc della sconfitta elettorale del Fronte popolare nelle elezioni del ’48, nel 1949 Galvano Della Volpe lo chiamò all’Università di Messina, dove ricoprì per tre anni l’incarico di filosofia del diritto. Proprio in Sicilia cominciò a farsi le ossa con quello che allora si chiamava «il lavoro politico di base», assumendosi impegnativi incarichi organizzativi, fino a diventare, nel 1951, segretario regionale. Partecipò in prima persona ai sommovimenti in corso nell’isola, a cominciare dall’occupazione contadina delle terre, in cui si spese senza riserve.
In breve finì dunque per abbandonare la carriera universitaria dedicandosi totalmente al lavoro politico. Ciò non lo allontanò dall’attività intellettuale, che acquisì per lui in quegli stessi anni un valore di maggiore comprensione teorica e pratica della realtà. Se infatti Panzieri fu sempre convinto che la verifica della teoria è nell’azione, d’altra parte fu anche consapevole di come dietro a ogni sconfitta politica, a ogni ritardo del partito o del sindacato, risiedesse una cattiva analisi della situazione reale. Un’armonia di teoria e prassi, di politica e cultura, che rappresenta il filo rosso di tutta la sua attività di intellettuale e di militante.
Panzieri fu, fin dagli anni siciliani, un «infaticabile tessitore di ragnatele», come ci ricorda Cesare Cases: «Che parlasse con due amici o a una pubblica riunione, si sentiva che stava tessendo una tela. Quel che gli rendeva estraneo un uomo, peraltro ricco di grandi qualità, come Lelio Basso, è che entrambi erano infaticabili tessitori di ragnatele, ma a Basso interessavano le mosche da acchiappare per rafforzare le sue posizioni, a Panzieri le ragnatele come organi di collegamento nel mondo degli insetti». Ed è proprio attraverso questa straordinaria opera di tessitura che riuscì, negli anni Cinquanta, a risollevare le sorti della politica culturale del Psi, che dalla fine della guerra si trovava in una posizione subalterna rispetto al più organizzato Pci, che era stato in grado di attirare tra le sue fila un gran numero di intellettuali, dotandosi di una Commissione cultura fin dal 1948. La Sezione Cultura e Studi del Psi nascerà invece solo nel 1955, e nascerà tagliata su misura proprio intorno a Panzieri e alla sua stupefacente capacità di attirare nell’orbita del Partito un variegato mondo di intellettuali non solo di sinistra ma anche «genericamente democratici», attraverso la creazione di momenti di incontro, istituzioni e riviste in cui le diverse posizioni potessero entrare costruttivamente in dialogo.
Il suo tentativo di superare il vecchio schema del dirigismo della politica nei confronti della cultura, inaugurando un nuovo modello di rapporto partito/intellettuali fondato sulla formula – che si rivelerà nei fatti di difficile realizzazione – dell’autonomia nell’organizzazione, fece di Panzieri un importante punto di riferimento per quanti videro nella crisi del ’56 una concreta possibilità di rinnovamento della sinistra italiana. Una crisi dalla quale Panzieri scelse di uscire a sinistra, prendendo le distanze tanto dallo stalinismo quanto dal riformismo e ribadendo con forza la validità della “politica unitaria” di classe.
L’ultimo tentativo di perseguire questo progetto dall’interno del Psi fu il suo “capolavoro”: i due anni (1957-1958) di condirezione della rivista «Mondo operaio». Abbandonati gli incarichi ufficiali in cambio della possibilità di mettere mano a quella che giudicava una vera e propria rifondazione della cultura socialista, Panzieri sacrificò ancora una volta la propria personale carriera di dirigente per perseguire fino in fondo obiettivi di rinnovamento. Di fronte alla volontà della maggioranza del Psi di proseguire in direzione di un avvicinamento alla «stanza dei bottoni» e alla resistenza sterile e priva di fantasia della sinistra di corrente, egli tentò di preservare al Psi la possibilità di essere un laboratorio di «nuove idee», in grado di cogliere e interpretare i profondi mutamenti sociali ed economici che investivano il Paese e che venivano allora ricompresi sotto il termine di neocapitalismo.
Ed è forse questa la più grande eredità che ci ha lasciato Panzieri: la sua eccezionale capacità di immaginare e sperimentare nuovi strumenti di analisi della società e nuovi mezzi di intervento politico di fronte allo stallo delle organizzazioni storiche del movimento operaio (partiti e sindacati). Con la pubblicazione delle Sette tesi sul controllo operaio e, più in generale, con tutta l’esperienza di «Mondo operaio» (e dello straordinario «Supplemento scientifico-letterario» a esso allegato) Panzieri fu infatti tra i primi a riportare al centro del dibattito «la fabbrica», in un momento in cui la conflittualità operaia sembrava compromessa dalla capacità di repressione del padronato e dai primi successi del boom economico.
E proprio il metodo dell’inchiesta operaia lo traghettò alla fine degli anni Cinquanta a Torino, dove l’amico Giovanni Pirelli gli aveva procurato una consulenza presso l’editore Einaudi, e fuori dal Psi, nel cuore di una nuova rete di relazioni e all’apice della consapevolezza dell’«esigenza di una azione – politico teorica – su un piano diverso». Da questa nuova temperie e dall’incontro con un nutrito gruppo di giovani militanti (tra cui i “torinesi” Pino Ferraris, Dario e Liliana Lanzardo, Mario Miegge, Giovanni Mottura, Vittorio Rieser, Emilio Soave e i “romani” Alberto Asor Rosa, Rita Di Leo, Mario Tronti) sarebbero nati i «Quaderni rossi», di cui Panzieri fu una delle anime – ma non l’unica – con un importante ruolo di mediazione tra due diverse “generazioni di sovversivi”, a cavallo tra anni Cinquanta e anni Sessanta, e una straordinaria capacità di proiettarsi nel futuro senza dimenticarsi di guardare al passato.
Raniero Panzieri presenta il primo numero dei «Quaderni rossi» (Siena, marzo 1962)