L’università italiana sembra tornare a vivere. I ricercatori precari fanno uno sciopero alla rovescia, i docenti si astengono dalle procedure di valutazione della ricerca, una petizione di Giorgio Parisi ne chiede il rifinanziamento.
Una storia politica affascinante e rimossa, che oggi sta riemergendo. Perché questa è un’occasione da non perdere.
Oggi a Torino si terrà il primo di una serie di eventi a livello nazionale legati allo Sciopero alla Rovescia. A partire dalle 11, nel cortile del rettorato, ricercatori e ricercatrici terranno delle lezioni aperte al pubblico per rendere visibile la rilevanza della ricerca precaria. La campagna di mobilitazione promossa dal Coordinamento Nazionale Ricercatrici e Ricercatori non Strutturat* per il riconoscimento della ricerca come lavoro è in corso da alcune settimane in molti dipartimenti degli Atenei italiani. L’orizzonte della protesta, naturalmente, è più ampio di questa prima iniziativa volta al riconoscimento dell’indennità di disoccupazione: il Coordinamento chiede, tra l’altro, un aumento delle risorse pubbliche per l’Università, un piano di reclutamento straordinario e nuove pratiche valutative in grado di valorizzare l’impatto sociale della ricerca.
Studenti a vita
La disoccupazione nella ricerca è un bel mestiere. Se la pagano i signori. Il governo e il Pd hanno bocciato l’emendamento che estendeva nella legge di stabilità il sussidio di disoccupazione “DIS-COLL” a dottorandi, assegnisti o borsisti. La stessa misura è stata rifinanziata con 54 milioni sul 2016 e 24 milioni sul 2017 dalla legge di stabilità per i collaboratori continuativi. Anche quelli iscritti alla gestione separata dell’Inps, la stessa cassa previdenziale alla quale i ricercatori precari versano i contributi senza tuttavia ricevere un sussidio di disoccupazione. Nella stessa condizione si trovano le partite Iva, iscritte alla medesima cassa, e tutti i liberi professionisti-lavoratori autonomi iscritti alle 21 casse previdenziali.
Sessantamila ricercatori precari sono studenti a vita. Poco prima del natale 2015 lo ha confermato il ministero del Lavoro che, con cinque mesi di ritardo, ha risposto all’interpello inviatogli dalla campagna #perchèiono? composta dalla Flc-Cgil, i dottorandi dell’Adi, gli studenti di Link, i precari del Coordinamento Nazionale Ricercatrici e Ricercatori non strutturat* e i ricercatori della Rete29Aprile.
Il ministero ha aggiunto un dettaglio rivelatorio della mentalità dominante nell’accademia italiana e, in generale, della politica ai tempi del Jobs Act. Chi fa ricerca, questo si pensa, esercita un’attività separata, non un lavoro della conoscenza. Per sua natura, si distingue dagli altri collaboratori a progetto, anche se i precari della ricerca firmano un contratto dello stesso tipo e, come tutti i collaboratori, sono iscritti alla gestione separata dell’Inps. Per il ministero questo non basta a giustificare la richiesta di un sussidio di disoccupazione erogato a chi versa i contributi all’Inps.
Gli esperti del ministero del lavoro sostengono inoltre che i dottorandi con borsa non versano 1300 euro di contributi all’anno alla gestione separata dell’Inps, come fa più di un milione e mezzo di partite Iva e collaboratori. Al ministero non si sono nemmeno posti il problema di aprire la pagina dedicata dall’Inps che dimostra l’opposto.
Il sistema vive grazie ai precari
Dove finiscono i 1300 euro all’anno da moltiplicare per 60 mila, all’incirca? Nel buco nero della gestione separata Inps, una delle poche in attivo che serve a ripianare i debiti delle altre casse. E in quelle analoghe private, pronte all’uso di speculazioni come quella “Sopaf”: Andrea Camporese, ex presidente dell’Inpgi – l’istituto di categoria dei giornalisti – ha usato 30 milioni di euro provenienti dai contributi versati dai freelance per una speculazione immobiliare andata male. Camporese è stato rinviato a giudizio con le accuse di truffa e corruzione.
Per tutti vale la stessa regola: i soldi dei precari finanziano la sostenibilità del sistema, pubblico o privato. Gli interessati non riceveranno una pensione. E se la riceveranno, sarà da fame. Per raggiungerla, faranno una vita di stenti, senza tutele. Questa è la violenza quotidiana in cui si vive in Italia: i precari e i freelance sostengono il welfare senza contropartita.
C’è poi lo scandalo dei dottorati senza borsa. Un’altra “innovazione” italiana. Loro il sussidio non l’avranno mai. Se il lavoro è il presente anche nell’università, i dottorandi senza borsa rappresentano un’altra aberrazione: per fare ricerca, questi precari invisibili devono pagare.
Guerra al lavoro gratuito
Il contrasto al lavoro gratuito, e la richiesta di tutele, sono elementi fondamentali delle rivendicazioni dei movimenti del lavoro indipendente. Per non restare ostaggi di una “specialità” in realtà inesistente e subìta, è giunto il momento che anche gli universitari comprendano la loro condizione e si uniscano a coloro che materialmente la condividono come i freelance e i lavoratori indipendenti che hanno formulato una prima bozza di carta dei propri diritti.
Lo “sciopero alla rovescia” che in questi giorni sta prendendo piede nelle aule universitarie, è un nuovo esempio di questa sensibilità. I precari fanno lezione, lavorano a casa o nei laboratori, indossando magliette rosse con due strikers – un uomo e una donna – che incrociano le braccia sopra l’hashtag #ricercaprecaria. È una soluzione ingegnosa che rende forte la vulnerabilità e la ricattabilità di soggetti che non possono scioperare come i lavoratori subordinati.
I ricercatori precari non hanno contratto, vivono in una realtà dominata dalle regole dall’affiliazione personale e non del contratto di lavoro moderno. La loro autonomia è solo teorica. In realtà questi ricercatori precari condividono la condizione materiale del quinto stato: di coloro che vivono e lavorano nel multiverso del lavoro indipendente. Sono la forza lavoro del futuro, ma non hanno una cittadinanza sociale.
Riconoscere questa condizione è fondamentale per sottrarsi alla mentalità dominante dell’accademia e dei governanti. La ricerca è un lavoro, non un hobby o una formazione permanente. Tutti, i lavoratori e i non lavoratori, hanno diritto a esigere il rispetto di alcune regole della sicurezza sociale: libertà, giustizia sociale, diritto, lavoro, capacità. Questa è stata la lotta dei movimenti dei ricercatori precari negli ultimi 15 anni. La protesta #ricercaprecaria è un altro esempio di questa vicenda. Una breve storia può essere utile per spiegare il motivo per cui questa protesta non può restare confinata nelle aule universitarie. Si rischia una nuova sconfitta.
2010: la rivolta NoGelmini
La generalizzazione delle lotte universitarie è avvenuta, tra molti limiti, tra il 2008 e il 2010 con il movimento dell’Onda e poi con quello – molto diverso – in occasione dell’approvazione della sciagurata legge di riforma universitaria intestata alla ministra berlusconiana Maria Stella Gelmini. Complice la fine del berlusconismo al potere, quel movimento arrivò davvero vicino a una vittoria insperata. Fu solo l’intervento dell’allora presidente della Repubblica Napolitano, e le trame parlamentari, a impedire questo esito, preannunciato dalla sconvolgente giornata del 14 dicembre 2010 : i duri scontri in piazza del Popolo a Roma.
L’università, e la scuola, hanno rappresentato in maniera rapsodica e troppo debole l’unico movimento di massa contro l’austerità, sul modello di quanto si sarebbe visto pochi mesi dopo in Grecia o in Spagna. Esprimeva la stessa composizione sociale, i temi, le culture che portarono a vincere il referendum sull’acqua pubblica nel 2011 o all’occupazione del teatro Valle a Roma. Chi ha avuto modo di osservare questo teatro durante i primi mesi dell’occupazione ricorda, ancora commosso, la potenza politica e l’energia di una composizione mai vista in Italia. E, in anni più recenti, ancora sconfitta.
Il movimento universitario esplose perché era dentro questo contesto. Il motivo scatenante della protesta fu la denuncia del lavoro gratuito al quale le corporazioni accademiche hanno costretto i ricercatori dal 1981, quando una legge istituì questa terza figura della docenza mediante una ope legis. Per 30 anni i ricercatori hanno accettato di supplire gratuitamente alla crescita dell’offerta dei corsi di studio in mancanza di un allargamento del reclutamento di nuovi docenti. La lotta contro i tagli ai fondi per gli atenei, il blocco del turn-over, fece emerge la realtà materiale che permette all’università di esistere.
Nel settembre 2010 questa battaglia ha ricevuto l’adesione di quasi 10 mila ricercatori (su 27 mila). La loro azione, organizzata dalla Rete 29 aprile, raggiunse almeno un risultato: in molti atenei fu posto, per la prima volta, il problema di retribuire le ore di didattica senza le quali molte facoltà non avrebbero potuto avviare i corsi di laurea. Un movimento simile avvenne nel 2008 tra i maître-à-conference nell’università francese. Sono state le prime manifestazioni, minoritarie ma significative, della critica del ruolo intellettuale assegnato al quinto stato dalla gerarchia accademica e dalla divisione sociale del lavoro della conoscenza in uno dei settori dov’è molto forte l’identificazione dalla cooptazione e dalla filiazione.
Gli studenti chiesero inutilmente ai ricercatori di bloccare l’università astenendosi da tutta la didattica, non solo da quella non obbligatoria. Richiesta legittima, ma difficile da realizzare in un momento in cui sono più rassicuranti le vecchie ricette del sindacalismo corporativo e i nuovi patti stretti dalle corporazioni accademiche con i rappresentati del governo e dell’allora maggioranza.
Contro il corporativismo
Pochi giorni dopo il 14 dicembre, in un forum che organizzai al Manifesto, una dottoranda di storia dell’architettura, attiva nei movimenti studenteschi, individuò con rara lucidità il punto in cui la critica dell’ideologia corporativa diventa lo strumento della sua nuova costituzione politica:
“Dal 2008 – disse Claudia – i ricercatori hanno dimostrato una grande immaturità rispetto alla precarietà dilagante che oggi è arrivata a colpire anche il loro ruolo. La legge Gelmini, e la trasformazione delle università in fondazioni, trasformeranno definitivamente l’università in un’agenzia interinale che esternalizza l’assunzione dei ricercatori e utilizza dispositivi del mondo del lavoro nell’università. I ricercatori pensano ancora di essere volontari ed educatori dei giovani, mantengono cioè una vocazione umanistica che non gli permette di prendere coscienza della loro precarietà in fieri, e della loro attuale povertà. Su questo bisognerà ragionare insieme per creare una ricomposizione e uscire dalla dinamica paternalistica con la quale i ricercatori hanno considerato gli studenti, insieme ai precari della ricerca” .
Frasi che descrivono ancora oggi la realtà degli atenei. Claudia descriveva l’illusione dei docenti – in generale, dei “professionisti” – di svolgere una funzione “umanistica”, cioè di possedere ancora lo status sociale riconosciuto alle professioni liberali dallo Stato dal XIX secolo e la capacità di esercitare una mediazione tra le classi e le professioni (è il ruolo essenziale di chi si occupa della trasmissione del sapere e della formazione come i ricercatori o gli insegnanti), ricorre anche tra i lavoratori autonomi e indipendenti che denunciano il ritorno a forme “neo-corporative” e gerontocratiche a difesa delle professioni o di una condizione lavorativa colpita dalla crisi. Questo è un altro elemento utile per dimostrare la comunanza con i lavoratori indipendenti. Tutti sono in questa situazione.
Ma la critica sollevata da questa ragazza, allora aveva poco più di 25 anni, rispetto all’operato di persone che avevano anche vent’anni in più, non può essere limitata ad una richiesta di liberalizzazione dell’accesso alle professioni o alla restaurazione dell’antica vocazione mediatrice dell’università “pubblica”, rivolta peraltro a persone che, in linea generale, sarebbero anche disponibili ad accettare questa ipotesi. La sua critica metteva in dubbio la sopravvivenza di isole più o meno d’eccellenza nel generale processo di precarizzazione del lavoro intellettuale, dentro e fuori il sistema formativo. Claudia metteva in dubbio l’esistenza di saperi autorevoli e prestigiosi e soprattutto quella di un “capitale reputazionale” fondato sul merito e sull’etica professionale nei quali gli studenti vedono ormai un’illusione truffaldina, se non proprio uno strumento di oppressione.
La crisi dell’umanesimo
Il problema non è nuovo nella storia recente dei movimenti universitari. Tra il 2004 e il 2006 fu affrontato dalla Rete Nazionale dei Ricercatori Precari (RNRP). Anche in quel caso è stato affrontato il dilemma del quinto stato: lottare contro il corporativismo – ad esempio contro le stabilizzazioni o i concorsi telecomandati per i precari della ricerca – oppure chiedere la riforma di un sistema che assicuri forme di autonomia alla ricerca dentro e contro le sue istituzioni?
Ed ancora: se l’autorità di coloro che giudicano sull’accesso alla professione non è credibile, i movimenti di base nella ricerca e nella formazione devono lottare contro di loro oppure contro i criteri scientifici e politici che sovrintendono alle politiche della scienza e a quelle sociali? Entrambe le cose, evidentemente, ma è difficile condurre questa battaglia all’esterno dell’istituzione che si vorrebbe riformare. Una volta, però, cooptati dal sistema è difficile riprendere le armi della critica. Quel movimento non riuscì a trovare una soluzione al dilemma.
Il residuo “umanistico” delle convinzioni di un “ceto dirigente” al quale non viene riconosciuto l’antico prestigio, e il disincanto che ne è derivato negli ultimi vent’anni, hanno oggettivamente inibito la partecipazione politica e la presa di parola collettiva da parte dei docenti universitari nelle passate mobilitazioni.
Questo potrà ancora accadere in un futuro quando la carriera dei ricercatori, come quella degli insegnanti, sarà liquidata dal blocco del turn-over, da quello degli stipendi e dalla fine dei concorsi. È quello che è accaduto negli ultimi cinque anni nelle università. La “buona scuola” di Renzi ha modificato radicalmente la carriera degli insegnanti cancellando forse il loro bene più prezioso: la titolarità della cattedra. Da oggi i neo-assunti nella scuola saranno considerati come “docenti tappabuchi”: saranno a disposizione del preside-manager e serviranno alle loro esigenze organizzative. Come in un’azienda diretta da un manager.
I rischi dell’unanimismo
Si assiste in questi giorni a una curiosa convergenza tra i rettori della Crui, i precari, i sindacati e tutti i docenti, sostenuti anche da giuste petizioni di successo in rete: l’università massacrata dai tagli va rifinanziata. Una tesi, ragionevole e scontata come monsieur di Lapalisse, che alimenta un fronte apparentemente unico.
In realtà, in questa vicenda ci sono gravi responsabilità da chiarire. Non tutti sono uguali. È bene avere un finanziamento decente, modificare la folle distribuzione delle risorse determinata in base alla valutazione della ricerca (VqR) che privilegia gli atenei del Nord ai danni di quelli del Sud, ma non bisogna dimenticare il vero problema: la gestione delle risorse in un sistema opaco basato sulla cooptazione e l’assoluta discrezionalità individuale o di gruppo. Un problema che non può essere risolto con l’utopia neoliberale della valutazione “meritocratica”. Questo criterio, com’è stato dimostrato ampiamente, è anzi alla base di nuove discriminazioni individuali, territoriali, disciplinari. L’annunciata astensione contro la VqR da parte dei docenti è una presa di posizione contro questo risultato.
All’origine c’è il patto tra i rettori e il governo Berlusconi. Emerse in un dibattito al Senato: i rettori avrebbero appoggiato la legge Gelmini e il governo avrebbe restituito i fondi tagliati all’università. La legge è stata approvata, ma i fondi non sono mai stati ripristinati. Un patto che impedì la diffusione della protesta e la fece rientrare nei ranghi grazie alla promessa della Gelmini di celebrare i concorsi per il passaggio di ruolo dei ricercatori, in seguito realizzata con la vergognosa gestione dell’abilitazione nazionale.
Insieme alla denuncia degli effetti dei tagli, al ripristino di un livello di finanziamento decente, bisogna sottrarre ai “meritocrati” l’egemonia sul sistema istituzionale della ricerca. Un tema di ampia portata che potrebbe trasformare un movimento a difesa delle prerogative della ricerca in un altro a sostegno dell’uguaglianza, della libertà di accesso alle risorse, all’autonomia della ricerca e del lavoro culturale. Questo passaggio non è stato (ancora) fatto.
La vicenda dell’approvazione della legge Gelmini, e i suoi primi cinque anni di vita, ha dimostrato che il problema è la difesa corporativa della vocazione “umanistica” del lavoro della conoscenza da parte delle corporazioni accademiche che si sposa con il progetto di riforma del ciclo della formazione e della ricerca. Questo è un esito coerente con le premesse della cultura umanistica che storicamente ha consegnato le chiavi della conoscenza dell’universo a pochi ed eccellenti chierici e vescovi.