Curare, a curarsi e a essere curati

Dalla ricerca alla competenza.

Alcuni esempi di ricerca empirica in psicoterapia, e la loro applicazione concreta nel campo della cura della sofferenza mentale, questione cruciale per la costruzione di ciò che mi piace ancora definire “bene comune”.

Lo scopo di questo articolo è quello di illustrare i passaggi (e le relative difficoltà di carattere epistemologico, concettuale e contestuale) attraverso i quali la ricerca empirica in psicoanalisi, e più in generale in psicoterapia, si può tradurre in applicazioni concrete nel campo della clinica e dell’organizzazione dei servizi di salute mentale. Mi riferisco alle interazioni tra chi costruisce e produce metodi e quindi dati di ricerca, affrontando i relativi problemi, e chi gestisce la loro applicazione nella pratica, intendendo questo passaggio come sviluppo di competenze.

Spesso conoscenza e competenza sembrano essere implicitamente considerate come sinonimi, ma in realtà il sapere, il saper fare e il poter fare rappresentano dimensioni certamente interconnesse ma non sovrapponibili. Come tutte le parole chiave il termine “competenza” è ambiguo. Essa implica da un lato la conoscenza, ma dall’altro anche l’abilità cioè «la capacità di impiegare le conoscenze in modo da giungere ad una soluzione accettabile» (Friedson 2001). Una ulteriore definizione di competenza è quella di Polanj (1965): «il sapere e l’agire competenti si manifestano subordinando un insieme di singoli elementi, come indizi e strumenti, al raggiungimento di un risultato di efficienza». Da un punto di vista più specifico potremmo ancora definire la competenza come la capacità di «ricevere e produrre messaggi comunicativi che implichino sviluppo e trasformazione» Giaconia (2000). Un altro aspetto che vorrei mettere in evidenza è il problema della interconnessione dei dati originati dalla ricerca: un aforisma di Goethe afferma che «tutte le cose intelligenti sono già state ». il problema è tenerle a mente, connetterle e saperle usare. Intendo quindi la ricerca come una pratica che non solo produca nuove conoscenze ma anche nuove connessioni. Dovremo, da un lato, affrontare il problema della sostenibilità, sul piano scientifico della ricerca in psicoterapia, dei suoi fondamenti metodologici e quindi dei suoi risultati e, dall’altro, dovremo affrontare i problemi che si pongono nell’interazione con i vari soggetti che producono altri saperi e conoscenze in questo stesso ambito e infine con chi ha la responsabilità di applicare queste conoscenze nella clinica (i terapeuti) e sul piano dell’organizzazione dei Servizi e della Politica Sanitaria.

Veniamo al primo punto: “ricerca empirica in psicoterapia” significa sottoporre delle ipotesi che nascono da intuizioni cliniche, organizzate in modelli teorici, a forme di verifica empirica secondo criteri assimilabili, ma non identici, a quelli delle scienze naturali. Ogni procedura scientifica si deve infatti necessariamente accomodare ai suoi oggetti e quindi dobbiamo partire dal presupposto che la maggior parte degli eventi psichici non siano appunto né osservabili direttamente, né direttamente accessibili alla coscienza, come per altro molti altri accadimenti in altri campi. Tuttavia anche i fenomeni psichici possono dar traccia di sé ad un livello osservabile. Uno dei fondamenti su cui si basa la ricerca empirica in psicologia clinica è il concetto di operazionalizzazione dei costrutti teorici. Operazionalizzare un costrutto teorico significa definire degli indicatori fenomenici che corrispondano al costrutto stesso.  Anche il concetto stesso di efficacia come obiettivo della cura implica la definizione di cosa intendiamo per benessere psichico e salute mentale e di come possiamo valutarli.  La definizione di efficacia implica anche l’evidenziazione degli obiettivi impliciti del trattamento. Se l’obiettivo è “meno sintomi” o “meno disordine sociale” il trattamento sarà orientato a produrre meno sintomi o meno disordine sociale. Se l’obiettivo è il “benessere soggettivo” o “la qualità delle relazioni interpersonali” il trattamento dovrà presumibilmente assumere un’altra configurazione.

I risultati della ricerca sull’efficacia

Possiamo ora affermare con sicurezza che, sulla base dei risultati della ricerca empirica, le psicoterapie sono efficaci. Esse tendono a ridurre i costi delle spese sanitarie nel loro complesso. Tendono inoltre a produrre risultati stabili con possibili ulteriori miglioramenti nel tempo. Se in generale è stata definitivamente dimostrata una consistente efficacia di alcuni tipi di terapia per molti tipi di disturbo psichico e di pazienti questo non vuol automaticamente dire che qualsiasi attività terapeutica che si autodefinisca psicoterapia o psicoanalisi sia di per sé efficace, né che lo sia per tutti. L’elenco delle terapie dimostratesi efficaci per determinati tipi di disturbo mentale riguarda in particolare le terapie cognitivo-comportamentali, le terapie ad orientamento psicoanalitico e interpersonale, la psicoanalisi e alcuni approcci di coppia, familiari e gruppali. Gli studi sul processo terapeutico mostrano che le terapie funzionano se sono soddisfatti alcuni specifici criteri che non tutti i terapeuti e terapie sono in grado di soddisfare.

Un secondo risultato degli studi di efficacia appare a prima vista paradossale: terapie teoricamente molto differenti sembrano avere risultati paragonabili. È il cosiddetto “Dodo Verdict: tutti hanno, tutti meritano il premio”. Se le psicoterapie hanno mostrato di essere efficaci non è stato possibile dimostrare con certezza la superiorità di un tipo di trattamento sull’altro. Ciò può essere dovuto, in termini teorici, a quattro motivi principali: 1) L’equivalenza dei risultati tra tipi di terapie differenti è dovuta errori metodologici nella ricerca, in buona o cattiva fede. 2) Si possono ottenere risultati comparabili percorrendo “diverse vie”. Processi diversi possono produrre risultati simili. 3) Gli esiti dipendono in modo significativo da fattori comuni o aspecifici. In tutte le terapie agiscono fattori comuni che producono risultati paragonabili. 4) Le terapie reali possono essere meno differenti nella pratica di quanto gli orientamenti teorici potrebbero far pensare: questo riguarda non solo i fattori aspecifici, ma anche parte delle “tecniche”. In particolare il concetto di fattori comuni ha acquisito nel campo della ricerca un particolare rilievo. Il valore attribuito ai “fattori comuni” ha prodotto la diffusione del punto di vista secondo il quale nelle diverse scuole e indirizzi «opererebbero gli stessi fattori che agiscono sulla sfera cognitiva-affettiva e comportamentale» (Fossi, 2003). Inoltre negli ultimi anni vi è stata una intensa osmosi di pratiche e concetti che hanno reso i trattamenti meno differenti di quanto non fossero all’origine. È oggetto di studio quanto le terapie reali siano attualmente differenti tra di loro e quali interventi siano effettivamente messi in atto da terapeuti di diverso orientamento (Ablon e Jones 2006). In controtendenza va sottolineato invece il fatto che pazienti con la medesima diagnosi descrittivo-categoriale (DSMV), possono essere molto differenti tra loro per molte caratteristiche e rispondere in modo differente a diverse tecniche specifiche, compresi gli interventi farmacologici. Non è emersa alcuna superiorità dell’uso dei farmaci se non per alcune specifiche patologie gravi e stati di acuzie. Molti dati suggeriscono l’utilità di un trattamento sequenziale farmacologico nella fase acuta e psicologico nelle fasi successive.

I risultati della ricerca di processo

Gli studi di processo analizzano invece le variabili che si correlano in senso positivo o negativo con i risultati. Mostrano come i trattamenti funzionano, cosa che gli studi di efficacia non possono fare, anche se danno l’impressione di convalidare ciò che i terapeuti ritengono efficace (Wampold 1997). Possiamo comunque individuare quattro raggruppamenti principali dei fattori aspecifici o comuni di esito: 1) Area dell’alleanza di lavoro. 2) Area della relazione reale. 3) Area dell’accuratezza degli interventi. 4) Area della personalizzazione dei trattamenti. L’alleanza di lavoro si riferisce

Alla qualità e alla forza della relazione collaborativa tra cliente e terapeuta: questo concetto include i legami affettivi positivi come fiducia reciproca, simpatia, rispetto e prendersi cura. Essa comprende anche gli aspetti più cognitivi della relazione terapeutica, quali il consenso e l’impegno per gli obiettivi della terapia e i mezzi per raggiungerli (Norcross 2002).

L’alleanza implica un senso di partnership tra terapeuta e cliente in base al quale ogni partecipante è impegnato attivamente nelle proprie specifiche e appropriate responsabilità” (Horvath, 2001). La ricerca sull’alleanza terapeutica si è spostata sempre più sull’esigenza di chiarire i fattori che contribuiscono al suo sviluppo inclusi i processi coinvolti nel risolvere le rotture dell’alleanza, nel corso del trattamento.

Gelso (Gelso e Hayes 1998) ha proposto di definire con il termine “relazione reale” quella parte della relazione terapeutica non distorta da elementi transferali (che comportano una selettività distorsiva della percezione basata sulle esperienze precedenti) ma basata sulle percezioni realistiche del paziente rispetto al comportamento relazionale del terapeuta. Il contrasto tra gli schemi relazionali appresi precedentemente e l’esperienza reale con il terapeuta è uno dei fattori alla base dei processi di cambiamento. Accuratezza delle interpretazioni relazionali: il termine “interpretazioni relazionali” si riferisce al rendere esplicite le modalità e le aspettative che caratterizzano le relazioni in atto, in generale e quella con il terapeuta. Un sottoinsieme di queste, quando le interpretazioni si riferiscono alla relazione con il terapeuta, si definiscono interpretazioni di transfert. La personalizzazione dei trattamenti riguarda quella parte della ricerca che indaga su quali specifiche caratteristiche dei pazienti possano determinare la scelta di determinati tipi di terapia o intervento terapeutico. Il concetto di personalizzazione dei trattamenti è collegato all’idea che pazienti con la stessa diagnosi nosografico-descrittiva, ma differenti per altre variabili, possano usufruire in modo differente di diversi tipi di trattamento. Un altro aspetto del problema è stato quello di considerare l’efficacia degli interventi terapeutici in rapporto alle fasi della terapia nel senso di adeguare gli interventi terapeutici a fasi differenti del processo terapeutico. Gli studi sulla personalizzazione degli interventi ripropongono in modo innovativo la questione delle tecniche accanto a quella dei fattori comuni: cioè la definizione di quale intervento per quale problema. Questo suggerisce la necessità di individuare tecniche specifiche o approcci specifici in funzione delle caratteristiche del singolo (o singolo gruppo). La ricerca empirica suggerisce quindi il passaggio da quale tipo di terapia per quale categoria diagnostica a quale tipo di intervento per quale tipo di problema. 

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