All’interno di questo articolo troverete, pubblicato in anteprima, una parte del reportage effettuato da Samuele Mancini e Angelo Polvanesi dell’associazione Caleidoscopio [*]
Poco meno di un anno fa a Siena il Collettivo di Antropologia della Facoltà di Lettere e Filosofia inaugurava una tre giorni di dibattiti, mostre fotografiche e spettacoli attorno al tema della Salute Mentale. La spinta che aveva portato un gruppo di universitari ad occuparsi di una questione così apparentemente distante era la presenza di un edificio – affianco alle nuove aule in cui si trovavano a seguire i loro corsi – completamente abbandonato a se stesso. Si trattava di uno spazio dalla struttura inusuale, dall’architettura incomprensibile. Si presentava come uno strumento di carneficina ma al tempo stesso non se ne coglieva a fondo il corpo, l’identità. Abbandonato e sventrato dal tempo nascondeva, dietro alle transenne che allontanavano occhi indiscreti, la memoria della sua funzione.
Da qualche anno la parte più consistente della Facoltà di Lettere e Filosofia e quella di Ingegneria sono state spostate all’interno del S. Niccolò, il vecchio manicomio della città.
All’alba del XXI secolo l’ospedale psichiatrico senese dimetteva i suoi ultimi “ospiti” e nel tempo di una manciata d’anni dimenticava la cultura coattiva che l’aveva fondato e cresciuto ristrutturando la maggior parte dei suoi edifici e ridefinendone gli usi.
Oggi, quando si supera l’arco che segna il confine tra la città e lo spazio un tempo destinato ai folli, si respira il clima di una rivoluzione avvenuta. Sono i volti che attraversano aule, stanze, marciapiedi, selciati a dichiarare il superamento dell’istituzione della negazione e l’affermazione della cultura della relazione. Per il S. Niccolò del 2012 passeggiano studenti, docenti, migranti che seguono corsi di lingua, insegnanti di danza, operatori sociali, medici e utenti dei servizi ospedalieri. Se però si cammina un po’ di più, se ci si inoltra un po’ più giù, dietro i volti della conquista si incontra anche il padiglione Conolly e ci si mette poco a capire che ci si è imbattuti nell’altra faccia della medaglia.
Questa struttura, conosciuta come l’ex reparto agitati del manicomio senese, incarna vincolo, peso e contraddizioni di una memoria ingombrante con cui si è deciso, in fase di smantellamento, di non fare i conti completamente. L’ex reparto agitati infatti costringe cittadinanza e istituzioni competenti a non poter essere completamente superato perché si dà il caso che sia uno degli unici esempi di panopticon [1] in Italia e che la sua storia – tutt’uno con la sua architettura – sia vincolata per legge e non possa essere tradita, rimossa o cancellata con una qualsiasi operazione di ristrutturazione.
Chiunque si ponga il problema della sua messa in sicurezza, della sua patrimonializzazione, della sua ristrutturazione alla luce di una lettura degli spazi che faccia dell’architettura dei diritti di cittadinanza il suo vettore qualitativo, si trova nel bel mezzo di una zona grigia in cui è pressoché impossibile comprendere quali possano essere i suoi interlocutori di riferimento.
Ed è stato proprio attorno a questa zona grigia che un anno fa si è organizzato “sPAZZI: dalla distruzione del manicomio alla costruzione dei diritti”: una tre giorni di incontri e confronti per cercare di capire dove si radichino il bisogno di rimozione e l’incapacità di superamento completo dei residui della cultura coattiva che ha caratterizzato per secoli il rapporto con la malattia mentale e che, sempre più spesso, sta tornando a riproporsi all’interno dei servizi psichiatrici dei nostri Comuni.
Il tempo mastica mattoni e deglutisce memoria ed è per questo che abbiamo deciso di aprire questo focus dedicato ai volti, le pratiche e i luoghi della Salute Mentale in Italia con la pubblicazione di parte del materiale inedito dell’incontro tenutosi a Siena quasi un anno fa.
Note
[*] Caleidoscopio ha collaborato alla realizzazione di sPAZZI gestendo tutta la sezione dedicata alle esposizioni fotografiche.
[1] La struttura a panopticon, sviluppata sul progetto del carcere ideale suggerito nel 1791 da Jeremy Bentham, consentiva di avere il completo controllo su chiunque fosse rinchiuso in quello spazio. Grazie alla disposizione radiocentrica delle celle rispetto al punto centrale di osservazione si garantiva la possibilità di controllare in ogni momento ogni punto della struttura da un unico punto costringendo i prigionieri a sentirsi costantemente sorvegliati.