Razzismo in Italia: oltre l’emergenza

I comportamenti razzisti diffusi in Italia negli ultimi anni sono fenomeni strutturali, non emergenziali, e sono spesso inquadrati attraverso categorie che rendono impossibile decifrarne i significati e le implicazioni profonde.

Razzismo in Italia
Rino Bianchi, Safia Omar Mamoud, Ponte Principe Amedeo di Savoia Aosta, in Rino Bianchi, Igiaba Scego, Roma Negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, Roma 2014 .

Negli ultimi mesi diversi episodi di aggressioni razziste contro adulti e bambini neri hanno avuto un certo rilievo sui mezzi di comunicazione. Per quanto riguarda la violenza razzista non soltanto le aggressioni, ma anche gli omicidi e i tentati omicidi, come la tentata strage razzista di Luca Traini a Macerata nel 2018, non sono fenomeni eccezionali né recenti, ma risalgono indietro nel tempo. Ricordiamo, tra i tanti casi, l’assassinio di Jerry E. Masslo nel 1989, l’assalto con pietre molotov al campo rom di Ponticelli e il rogo di quello di via Argine a Napoli nel 2008, sulla base di una falsa accusa, un motivo classico dell’antiziganismo, il rapimento di bambini, la  strage di Luca Casseri a Firenze nel 2011, in cui sono stati uccisi Samb Modou e Mor Diop mentre Mor Sogou, Cheik Mbenghe e Moustapha Diene sono stati gravemente feriti.1.

I modi del racconto, della comunicazione e dell’informazione su questi episodi sono sintomatici di come la questione del razzismo è percepita e affrontata nel nostro Paese. In molti casi i fatti sono presentati sotto l’etichetta “Intolleranza”, a indicare la cornice entro la quale intendere le aggressioni e producendo uno spostamento di significato per cui aggredire una persona nera è un comportamento causato dall’intolleranza a una certa “diversità”. Il problema starebbe nella diversità di altri: l’attenzione è indirizzata sull’oggetto dell’aggressione che, per il fatto di essere “diverso”, provoca intolleranza. Questo spostamento dell’attenzione sull’oggetto dell’aggressione, che da vittima diventa così indiretto responsabile di un reato, sottolinea quanto la percezione, o la mancata percezione del razzismo siano parte non indifferente del problema, perché trasformano il razzismo in un comportamento sociale comprensibile. Di più, accettabile. In altri casi, meno frequenti, ma comunque significativi, il razzismo è presentato come frutto di ignoranza, così cancellando il fatto che la razza è stata una categoria dotata di “verità scientifica” e una categoria giuridica nel secolo scorso, fondamento del razzismo di stato italiano, antisemita in patria e antinero in colonia. Quando presente, il termine razzismo è spesso impiegato per indicare esclusivamente gli atti violenti, presentati come casi isolati, che suscitano allarme perché in aumento. A volte seguono dibattiti strutturati sulla falsa alternativa gli italiani sono/non sono razzisti.

Ci sembra invece necessario compiere uno sforzo per decostruire questa narrazione, contribuire a disinnescarne gli effetti, e comprendere come quelli che appaiono come casi isolati di razzismo, siano invece inseriti in un contesto di lunga durata in cui siamo tutti/e immersi/e e a cui partecipiamo costantemente. Oggi, la consapevolezza (quanto diffusa?) che la razza non abbia fondamento scientifico, che sia una categoria simbolica, costruita,  considerata una categoria naturale, non impedisce che la costruzione storico-culturale della razza, così come l’idea di cultura quale differenza irriducibile, assoluta ed estranea ai rapporti di potere, produca nella realtà effetti concreti, che operi quotidianamente come categoria sociale e strumento di esclusione e privilegio, costruzione simbolica e istanza identitaria. La ricerca condotta da Paola Tabet (La pelle giusta, 1996) tra bambini e bambine delle scuole elementari italiane ha sottolineato come, anche in assenza di memoria diretta del colonialismo, nell’immaginario (infantile) della Prima Repubblica fossero sedimentati stereotipi tipici del razzismo coloniale.

Lo slogan “Non esistono negri italiani” rivolto a Mario Balotelli nel 2009 ha riportato negli stadi l’eco delle politiche anti-meticciato del colonialismo fascista. Subito archiviato come fenomeno marginale, razzismo da tifoseria calcistica, o giustificato sulla base dei comportamenti di Balotelli in campo, l’episodio e la sua percezione hanno invece sottolineato come il razzismo non sia un fenomeno marginale, eccezionale, né il risultato di ignoranza. L’episodio può essere più facilmente compreso se, per esempio, visto in relazione con la mutua esclusività tra nerezza e italianità, e con il legame implicito tra italianità e bianchezza sanciti per legge nel 1933 quando, nel contesto delle precedenti politiche liberali contro il “meticciato”, il fascismo interviene per cancellare i diritti delle persone nate da padre cittadino e donne suddite dell’Africa orientale italiana (AOI). Attraverso la “prova della razza” si negava con quella legge la cittadinanza italiana alle persone nate in AOI i cui caratteri somatici e il colore della pelle non dimostrassero che uno dei genitori fosse di “razza bianca” (De Napoli 2009).2

Razzismo in Italia
Rino Bianchi, Ruth Gebresu, Cinema Impero, in Rino Bianchi, Igiaba Scego, Roma Negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, Roma 2014.

L’idea della diversità della storia italiana rispetto al passato di schiavitù, colonialismi, segregazione, imperialismo e conflitti razziali di altre nazioni, il mito degli “italiani brava gente” è una delle cause del silenziamento pubblico della storia coloniale italiana e del razzismo fascista che ha reso possibile costruire il razzismo odierno come fenomeno estemporaneo, recente, e reazione esasperata, ma comprensibile, causata dall’“emergenza” immigrazione.  Il paragone tra immigrazione e invasione di massa non poggia su alcun dato reale del presente, ma riprende la premessa paranoica dell’antisemitismo fascista e nazista (Bidussa 2007). Il discorso sull’immigrazione prende così forma attraverso la contrapposizione tra Noi e Loro, dove la vittima non è l’immigrato/a oggetto di razzismo, ma l’italiano/a impaurito, “minacciato/a” dall’invasione, e dunque da difendere (Van Dijk 2004), o legittimata/o a difendersi.

Un primo passo utile da compiere, allora, è riconoscere e comprendere che noi viviamo in una società razzista identificandone alcuni nodi, di cui proviamo a dare qualche esempio. Siamo un Paese che non ha voluto fare i conti con il suo passato razzista e coloniale, con il suo antimeridionalismo e antiziganismo e che, soltanto in maniera parziale e spesso del tutto formale, ha fatto i conti con l’antisemitismo di Stato. Siamo un Paese in cui non si vuole riconoscere, innanzitutto istituzionalmente, che esistono italiani non-bianchi, e italiani di origine straniera, un Paese che valorizza le politiche basate su “prima gli italiani” e che è parte attiva di un’Europa che sempre di più avalla, attraverso le sue norme, forme e pratiche di razzismo istituzionale. Se non vivessimo in una società razzista, non sarebbe comprensibile come sia possibile, sia legittima l’attuale politica di “respingimento” nel Mediterraneo, basata sull’idea che alcune vite umane non valgono.

Lasciare morire persone in mare, perseguitare chi cerca di trarle in salvo, diventa accettabile, tollerabile poiché si tratta di persone provenienti da una regione del mondo le cui risorse sono state appropriate dall’Europa e dall’Italia, e le cui vite sono state “inferiorizzate” nel corso della storia. Se non vivessimo in una società razzista non sarebbe comprensibile che la cittadinanza, la cui concessione è a oggi regolata secondo criteri di discendenza, di sangue, che assegna l’italianità a chiunque possa dimostrare di avere un “avo italiano”, ma esclude le persone nate e/o cresciute in Italia, non sia un diritto, ma un’elargizione concessa sulla base di un presunto merito o grazie ad azioni eccezionali. A questo proposito è emblematico il caso di Ramy Shehata, studente nato a Milano da genitori egiziani, che ha chiamato i Carabinieri durante il dirottamento di un autobus pieno di studenti nel marzo scorso. A lui la cittadinanza è stata concessa, dopo diversi tentennamenti, in base al principio del merito, dell’atto eroico per proteggere altri.     

Quindi non si tratta tanto di ragionare nei termini “gli italiani sono o non sono razzisti”, ma di comprendere che siamo costantemente esposte/i al razzismo, poiché il razzismo non è solo rappresentato dagli episodi di aggressione, dalle pratiche istituzionali, ma è una struttura di significati e di rapporti potere che continuamente opera nelle nostre azioni, nelle aspettative che abbiamo, nella preconoscenza che ci guida nelle relazioni sociali, nell’idea stessa di cittadinanza e di cosa significhi essere italiani/e. Ma soprattutto, per chi come noi si considera bianca, ci sembra necessario un esercizio sociale che renda visibile e porti a osservare cosa vuol dire essere classificate come bianche nella società in cui viviamo, a comprendere come non vedere e non riconoscere la bianchezza produca degli effetti nelle relazioni sociali. La bianchezza è il prerequisito per essere considerati “normali”, per non subire ispezioni sui mezzi di trasporto o in stazioni, per essere considerati italiani, anche se non sempre gli italiani sono stati o sono considerati tali.

L’atto stesso di nominare il razzismo come elemento strutturale e sistemico della società italiana può essere inteso come un atto antirazzista, poiché il razzismo funziona anche attraverso il meccanismo della negazione: non è razzismo, è solo una battuta, uno scherzo, una ragazzata, un errore, frutto di ignoranza e così via. In questo modo chi denuncia è delegittimato/a, il suo vissuto non riconosciuto, e così si possono continuare a riprodurre comportamenti razzisti, senza che siano qualificati come tali. Di nuovo il problema è spostato verso chi non sa stare al gioco o chi vede razzismo laddove non c’è, chi è esagerata/o. Il razzismo è un rapporto di potere, e come tutti i rapporti di potere si basa sul potere esclusivo di alcuni di nominare, descrivere la realtà e congiuntamente delegittimare altri a produrre un’altra descrizione della realtà. Il razzismo non incide soltanto sulla vita, sui diritti, le opportunità e sulla morte delle persone razzializzate come non bianche, ma produce anche i privilegi delle persone considerate “normali”, al di fuori della razza, e ne determina la naturalizzazione.

Razzismo in Italia
Rino Bianchi, Amin Nour, Piazza dei Cinquecento, in Rino Bianchi, Igiaba Scego, Roma Negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, Roma 2014.

È del tutto urgente aprire spazi di riflessione e discussione in cui comprendere come l’esperienza del razzismo non è riducibile a quella vissuta da chi è oggetto di forme di aggressione, ma è rappresentata anche da chi produce una normalizzazione dell’esclusione dei neri, dei soggetti considerati non-bianchi. Il razzismo è anche la pratica di un soggetto bianco che enuncia un discorso sul razzismo, o sulla sua assenza, senza considerare la propria posizione all’interno di un sistema che proprio sul razzismo è fondato: essere classificati come bianchi non significa avere una visione oggettiva e neutrale della realtà. Il razzismo non è un apparato esterno a noi, e l’antirazzismo è un lavoro mai concluso. Per questo è fondamentale un impegno per rompere il silenzio che protegge e legittima episodi e rapporti razzisti, anche se rompere questo silenzio può produrre una situazione poco confortevole per i soggetti bianchi. Sono necessarie pratiche per dare autorevolezza a chi descrive il razzismo ordinario vissuto quotidianamente, anche senza aggressioni fisiche.

Denunciare che viviamo in una società razzista non equivale ad accusare gli italiani di essere razzisti, ma vuol dire aprire uno spazio per un lavoro collettivo, capillare e diversificato che porti a riconoscere come il razzismo sia una struttura di lunga durata, ma costantemente riprodotta, e come esso si materializzi nella vita delle persone insieme ad altre forme di oppressione sociale, quali le diseguaglianze di classe, il sessismo, l’islamofobia. Le esperienze di razzismo delle donne, per esempio, passano spesso attraverso l’ipersessualizzazione della loro persona, o attraverso specifici processi di dequalificazione professionale. Le donne di origine straniera sono spesso confrontate ad un immaginario che attribuisce loro una sessualità esuberante o “facile” (che si manifesta in battute e pregiudizi, ma non solo), e ad un inserimento nel mercato del lavoro fortemente limitato, in cui si prescinde da titoli di studio e interessi e capacità individuali: il settore dei servizi domestici o di cura alle persone è spesso l’unica possibilità di lavoro, anche se malpagato e irregolare, e in cui si riproducono altre forme di razzismo e sessismo. Riconoscere come le diseguaglianze di classe operino insieme al razzismo è fondamentale per comprendere come essere classificato come nero/a, o provenire da un Paese ex colonia europea da una parte implichi il non riconoscimento delle proprie qualifiche di studio e professionali (e quindi depauperamento e perdita di status sociale), e dall’altra condizioni l’inserimento nel mercato del lavoro o le scelte di studio e formazione professionale. Se non riconosciamo questo intreccio di rapporti di oppressione e le forme di resistenza ad essi, se non riconosciamo il ruolo che i soggetti bianchi hanno nella riproduzione dell’ordinario razzismo, non sarà possibile tessere alleanze trasversali necessarie per combatterlo.

 

Bibliografia

David Bidussa, La doppia costruzione paranoica dell’antisemitismo, in S. Forti e N. Revelli (a cura di), Paranoia e politica, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 107-130

Olindo De Napoli, La prova della razza. Cultura giuridica e razzismo in Italia negli anni Trenta, Le Monnier-Mondadori, Milano 2009

Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1996

Teun Van Dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Carocci, Roma 2004.

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Note

  1. Si veda, tra i vari casi, quello del bambino di origine nigeriana di Foligno, definito “brutto” e messo in un angolo della classe dal maestro (21/02/2019), o il caso della donna rom aggredita e picchiata nella metro di Roma per un presunto furto (6/12/2018). Per un’analisi critica della discussione in termini di emergenza, si veda anche qui.
  2. Legge 999 del 6 luglio 1933. La legge 882 del 13 maggio 1940 all’art. 3 stabilisce invece che “il meticcio” non può essere riconosciuto dal “padre cittadino”. La 882 viene abrogata nel 1947, e l’abrogazione ratificata nel 1953.
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