Un’incursione in quattro movimenti tra le due guerre mondiali, il fascismo e il colonialismo italiano. Da “L’invisibile ovunque” del collettivo Wu Ming a “Adua” di Igiaba Scego fino a “Al palo della morte” di Giuliano Santoro. Più uno spin-off.
Uno
Che grande macchina decervellante è la guerra, la Grande Guerra, ogni guerra. Da quella concentrata, come le due guerre mondiali, a quella diffusa dei nostri giorni. Contro quella macchina i Wu Ming ordiscono un congegno testuale che non è un romanzo in quattro tempi né una raccolta di racconti: L’invisibile ovunque (Einaudi Stile Libero, 2015). Forse è un assemblaggio alla maniera di Kurt Schwitters, costruito con oggetti trovati che si incastrano sull’asse del come più che del dunque/perché per smontare quella fatale macchina decervellante. Anzi: per parodiarla, ora mettendola in ridicolo, ora esibendone la fatale tragicità. Un’irruzione nel campo (del disonore) surrealista, un’evasione dal romanzo storico già annunciata da tempo dai membri del collettivo, interessati a prendere la via della montagna, a esplorare le strade impervie degli ibridi narrativi. Guerra, fascismo, colonialismo e razzismo. E poi ancora guerra e quindi neocolonialismo e nuovo razzismo e nuovi fascismi. È un ciclo che lega la Prima guerra mondiale con i nostri giorni. Un secolo. Non celebrano i Wu Ming né la guerra né il centenario ma legano fili e dipanano matasse che arrivano fino a oggi.
Primo racconta la storia di un ardito di guerra. Risuonano letture di Cassola, di Lussu e di Fenoglio e si percepisce il legame, oltre la soglia del testo, con l’arditismo, con lo squadrismo nero, il culto del reduce, il mito della vittoria mutilata e il vittimismo aggressivo di D’Annunzio. Siamo alle origini del fascismo, radicate nella guerra, perché la guerra, con buona pace di ogni interventismo democratico, è il brodo di coltura delle costruzioni autoritarie. Dentro a Secondo si simula la follia per non fare la guerra, perché in guerra si diventa folli. Ma anche nel manicomio si perde la ragione e allora non si sa più chi ci è e chi ci fa, chi è sano e chi alienato. La guerra è follia ma se la società fa della guerra un sistema di governo, essa diviene razionale mentre la psichiatria si costituisce come arma di controllo sociale che produce disagio psichico. Terzo è una dérive letteraria ai bordi del conflitto bellico che esplora margini poco frequentati dalle nostre parti, ovvero quel lussureggiante tesoro di radicalità politica che è il surrealismo, ricevuto spesso nella sua eco artistica mentre se ne tradivano le conseguenze politiche. Da queste righe emerge (evocata quasi medianicamente) la figura di Jacques Vaché: personaggio di culto dello spirito Dada, trova nel dandismo e nello humour una via di diserzione immaginaria. Ma d’un tratto Vaché scompare e, nel corso di un dialogo tra Breton e la sorella di Vaché, nell’interstizio di silenzi e simboli, tra i due fuoriesce e straborda la figura di Nadja, protagonista di uno strepitoso oggetto narrativo di Breton. Bella come uno strizzacervelli in fuga, Nadja, costretta anche lei all’ospedale psichiatrico da una scienza che doveva assoggettare i corpi e le energie della mente nelle serrate camicie di forza della medicina. Quarto è una bizzarra e pregevole trappola bellica che nella forma del saggio di storia artistico-militare costruisce una pièce antimilitarista, camuffando verità e finzione. Io stavo quasi per caderci, in quella trappola, dove il mimetismo del congegno è perfetto.
Due
Provo a imbastire un breve spin-off, un racconto di guerra che improvvisa liberamente sulle note già suonate dai Wu Ming, in continuità con la serie di ricorrenze “guerra-fascismo-colonialismo-razzismo-guerra”.
Dal diario dell’uomo che vide Italo Balbo schiantarsi sul suolo di Tobruk
In che anno siamo? Con chi è in guerra l’Italia?
_3 febbraio 1940. Richiamato agli obblighi di leva. Partenza da San Leo Bastia all’età di anni 19, mesi 4 e giorni 11 in un freddo inverno. Neve, c’è molta neve. A Trestina mi infilo sul treno della Ferrovia Appennino Centrale verso Perugia. Poi Rimini, Napoli, la nave, il mare (mai visto prima, il mare). Grande emozione per il mare. Mal di mare, orrore del mare. Arrivo a Tripoli, più morto che vivo e con lo stomaco rovesciato. La Libia, colonia italiana, sede del mio servizio militare. Destinato a ovest verso la Tunisia a Sabrata. Incontro in un campo due umbri di Corciano, classe 1918. Riportano la pelle a casa, loro, hanno terminato il servizio militare.
_10 giugno 1940. Con l’entrata in guerra dell’Italia siamo dislocati sul fronte libico-egiziano. A Tobruk saluto Nello, compaesano di San Leo. [Annotazione: non lo rivedrò più, morirà a Derna, 170 Km di distanza]. Molti spostamenti. Con una lunga colonna di automezzi passiamo nuovamente a Tripoli. Ordine di percorrere per 1818 Km la via litoranea fatta costruire per il traffico delle truppe da Italo Balbo, allora governatore della Libia, inaugurata da Mussolini nel ’37. Sosta a Sirte e Bengasi senza aver visto mai un albero. Barce, la perla del Gebel cirenaico, così dicono, poi Derna e quindi a metà giugno ancora a Tobruk in zona di guerra. Subito con grande preoccupazione scatta l’ordine di tenere pronto il fucile con il quale noi coscritti di leva abbiamo fatto solo qualche prova durante il percorso.
_Tobruk. Paura, sudore salato della paura. Continui bombardamenti e colpi di mitraglia degli inglesi sulla zona del porto e dell’aeroporto. Il battaglione fa campo sulle alture della baia proprio davanti ai moli. Addetto a una batteria della contraerea con quattro cannoni. Di giorno al porto a scaricare le navi. Continue incursioni aeree inglesi. La sirena dell’allarme risuona spesso. Correre, portare la pelle nei rifugi. Ma dove sono i rifugi? Non ci sono, non li hanno mai costruiti. Solo ripari di fortuna. E ogni volta restano sul terreno morti e feriti.
_Tobruk, 28 giugno 1940. Dalla mattina ogni quarto d’ora continue incursioni aeree. Nel pomeriggio, appena cessata un’incursione, con il porto ancora crepitante degli incendi provocati dalle bombe, ecco l’allarme suonare nuovamente. Da ovest, da Derna, dal mare vedo arrivare due aerei verso i quali scarichiamo i colpi dalle batterie costiere della contraerea, comprese le mie. Spariamo dall’incrociatore San Giorgio ancorato nel porto e da un sommergibile. Un aereo gira e riesce a tornare indietro, mentre l’altro si avvicina all’aeroporto. Qualcuno dirà poi che l’aereo cercava di ondeggiare per far vedere, inutilmente, i segni di riconoscimento posti sotto le ali. Viene colpito da uno dei tanti proiettili esplosi, ma non so da chi. Non sappiamo da chi. L’aereo si schianta in fiamme vicino all’aeroporto e brucia tutta la notte. Prima un mormorio, poi una voce. Infine, un fatto: a bordo c’era Italo Balbo, ucciso dal fuoco amico. Paura, imbarazzo, voci, caduto in combattimento, la contraerea, voci, mormorio, timore, un sabotaggio, voci, un complotto di Mussolini, voci. Un solo fatto: ucciso dal fuoco amico, schiantato contro il suolo di Tobruk.
_Tobruk, 21 gennaio 1941. Prigioniero degli australiani. Internato nel campo di prigionia. Prima bombardamenti, morti, feriti, fame, ora fame, sete, molta sete, freddo, freddo di notte, pulci, malattie. Perdere la testa. Diventare matto. Diventare nero. Diventare un libico, un somalo, un eritreo. Sentire sulla propria pelle i tormenti, la fame, il sole, la prigionia. Tobruk poi Bardia, Sollum, Alessandria, Suez. Alla fine, il trasferimento nel sud dell’Inghilterra. Heating, calore, riscaldamento, cibo, adesso fair-play e cordialità. In gamba questi inglesi. Cominciare a sognare la notte, sognare in inglese. Dimenticare la guerra. Svegliarsi con le verdi colline piene d’erba e soffocare il ricordo della sabbia, del deserto. Dimenticare fame e sete, esplosioni e pianti dei prigionieri libici. La vergogna delle donne, le teste segate dei ribelli. Filo spinato. Pozzi minati. Corpi sventrati. Recinti. Gas mostarda. Tornare in Italia, a San Leo, a casa, sei anni dopo la partenza su un treno della linea Appenninica, nel giugno 1946, subito dopo il referendum che la fece finita coi Savoia. Quel treno che mi ha strappato per gli obblighi di leva a San Leo Bastia, il mio paese, non c’è più. Quella linea ferroviaria non c’è più. Quell’Italia, non c’è, più. Forse non c’è più. (Forse quell’Italia è ancora là. Sta per tornare là).
Tre
Forse. Fuori dallo spin-off, torniamo al tema “guerra-fascismo-colonialismo” e segnaliamo dei percorsi narrativi che possono aiutare l’esplorazione di questi ambiti.
Partiamo da Adua di Igiaba Scego (Giunti, 2015). La scrittrice romana racconta una storia sullo sfondo del colonialismo italiano, del ventennio fascista e del neocolonialismo degli anni Settanta, tra Roma e il Corno d’Africa. È un importante esempio di narrativa sociale che sgonfia tanti luoghi comuni sul colonialismo degli italiani brava gente. È una storia di subalternità dei corpi e delle lingue, ma raccontarla è già un atto di rovesciamento, di decolonizzazione. Perché l’immaginario italiano va decolonizzato, perché è supino ancora a un immaginario di italiani-brava-gente-che-costruiscono-strade-in-Africa o parlano-tutti-italiano-in-Slovenia-ma-poi-li-buttano-per-caso-nelle-foibe, e di storie come quella di Adua (il nome vi dice nulla?) ne andrebbero raccontate una per ogni titolo di «Libero». Adua peraltro mi ha subito fatto venire in mente un altro libro che ho amato, Timira di Wu Ming 2 e Antar Mohamed. Ma Adua rimanda, attraverso un luogo focale denso di storia e di corpi migranti, a un altro volume appena uscito: Al palo della morte (Alegre 2015). Quale luogo? Piazza dei Cinquecento a Roma.
Quattro
Sono opere molto diverse, il romanzo di Scego e Al palo della morte, l’oggetto narrativo di Giuliano Santoro, ma si sovrappongono in un luogo geografico. Piazza dei Cinquecento, quella che sta davanti alla stazione Termini, è stata intestata in ricordo degli invasori italiani caduti nella battaglia di Dogali nel tentativo di soggiogare i resistenti eritrei nel 1887. Il Risorgimento si è concluso da poco e già l’Italia si trasforma da “nazione oppressa” in stato oppressore. E si getta sul piatto colonialista. Ma stavolta gli oppressori muoiono e chiedono di essere ricordati come vittime. Adua. Dogali. Teniamo presente il vittimismo aggressivo italiano. Un dispositivo che ci ricorda la vittoria mutilata e le foibe e i marò. È una costante delle retoriche patrie. Ma ora ripartiamo da Piazza dei Cinquecento. Curioso che oggi quella piazza sia un luogo di incontro per chi scappa dai disastri del colonialismo, per chi dall’Africa, profugo, si rimette in cammino dal Sud verso il Nord. Si può imbellettare la memoria e la toponomastica, ma il rimosso ritorna. È in questo luogo che (quasi) termina il libro di Scego e (quasi) inizia quello di Santoro. Santoro poi si sposta dal centro di Roma verso le periferie, verso le torri e le borgate, perché forse per le periferie delle città vale quello che Bianciardi diceva delle province: che è là che certi fenomeni si leggono meglio. E Santoro legge, con verve narrativa, anni e anni di retoriche neofasciste e neorazziste, di emergenze securitarie e di propaganda di chi va in periferia a parlare di degrado e malessere, per poi speculare su quel degrado, per farne un atto di imprenditoria politica, per scalare i ranghi dai circoli locali ai vertici della politica di palazzo. Una strategia volta da un lato alle scalate politiche e dall’altro alla creazione di una forza lavoro priva di diritti, terrorizzata, ricattata, posta fuori dal limes della “cittadinanza”. Dietro il quale si insedia, come un fortino, il piccolo ceto medio che si nasconde nell’ultimo bene rifugio, la casa, e da lì spaventato attende l’apocalisse, come gliela raccontano in tv: la disoccupazione e i migranti, la guerra e la povertà. E la casa diventa il Fort Alamo della disperazione, in casa ci si sente accerchiati, perché fuori ci stanno gli zombi, che poi sono gli schiavi africani condotti ad Haiti in maniera coatta. Fuori c’è il pericolo. E quelli fuori ridono, chiacchierano, pregano, parlano. Come fanno nei loro Paesi, come facevano in Somalia, o in Eritrea, o in Pakistan. Come facevamo noi tanti anni fa, quando vivevamo le strade senza rinchiuderci in casa. Santoro lavora con le cifre, coi racconti, con la memoria. Cammina per le strade, ascolta testimoni e avvocati. Fa quello che un giornalista d’inchiesta deve fare e lo fa meravigliosamente bene, con una penna degna di Rodolfo Walsh. Segue la morte di un ragazzo pakistano e attorno costruisce un contesto che ci porta fino alla morte della signora Reggiani, anni fa; agli assalti dei neofascisti contro i centri dei profughi; alle incursioni della destra pariolina nel mondo delle borgate. Un libro che è anche un resoconto narrativo su Roma e che rimanda in certo modo a un altro importante libro sulla Capitale, L’aspra stagione di Mauro Favale e Tommaso De Lorenzis. Solo che gli anni Settanta sono lontani. Eppure gli anni che seguono non sono meno aspri. La violenza non è diffusa ma aleggiano le passioni tristi e la guerra incombe. Chi non la vede, guarda solo la punta dei propri piedi. Oppure è caduto nell’inganno del mimetismo dei signori della guerra. Di una guerra che con un colpo di illusionismo depista e usa in senso reazionario il lamento dei poveri, la rabbia dei deboli, la fame. Di una guerra che è invisibile, ovunque.