Con il suo ultimo libro, “Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere” (Donzelli 2014), Franco Lo Piparo, che insegna Filosofia del Linguaggio all’Università di Palermo, conclude la trilogia dedicata alla figura di Antonio Gramsci, iniziata con I due carceri di Gramsci (2012) e proseguita con L’enigma del quaderno (2013), volumi anch’essi usciti per i tipi dell’editore Donzelli.
Franco Lo Piparo è uno dei più autorevoli filosofi del linguaggio italiani, abituato a tenere insieme il lavoro ermeneutico sugli autori con la formulazione di tesi forti e originali: la monografia laterziana del 2004 su Aristotele e il linguaggio ne è un esempio.
L’ultima fatica di Lo Piparo studioso di Gramsci (e pensatore gramsciano) porta al massimo livello di complessità l’intreccio tra l’istanza storiografica e quella più squisitamente filosofica. L’autore fa, infatti, entrare in scena un secondo attore dell’azione e con lui anche un terzo attore. Il secondo attore chiamato in causa è il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, riconosciuto dallo stesso Lo Piparo come il maggiore filosofo del linguaggio del XX secolo. Il terzo è Piero Sraffa, uno dei più importanti economisti del XX secolo, docente a Cambridge, dove diviene amico di Wittgenstein. Ed è proprio Sraffa a costituire, nella tesi proposta da Lo Piparo, il trait d’union tra Gramsci e Wittgenstein.
Lo Piparo riprende un’ipotesi originariamente formulata dal Premio Nobel Amartya Sen. Sen ipotizza che ci sia un debito indiretto del secondo Wittgenstein – il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche – nei confronti di Gramsci. È noto che Gramsci studiò linguistica all’Università di Torino e che maturò alcune convinzioni sul linguaggio, che troveranno nel “Quaderno 29” dei Quaderni del carcere l’espressione più compiuta. Gramsci stigmatizza qualsiasi visione normativa della lingua: le regole del linguaggio non possono essere calate dall’alto e imposte alla sua pratica effettiva, si tratterebbe di un’operazione elitaria, intellettualistica e verticistica. Alla visione normativa del linguaggio Gramsci ne contrappone una in cui le regole del linguaggio emergono dall’uso concreto.
Sen ritrova nella concezione gramsciana del linguaggio una profonda risonanza con la svolta operata da Wittgenstein a partire dal ripensamento delle tesi del Tractatus logico-philosophicus. Nel Tractatus Wittgenstein identifica ancora la grammatica del linguaggio con una struttura logica, definibile a priori e vincolata alla veridizione degli enunciati. Ne segue una concezione del riferimento degli enunciati linguistici piuttosto rigida, poco adatta a descrivere tutte quelle situazioni in cui la validità di un enunciato non appare riducibile al criterio del vero o del falso: è il caso, ad esempio, degli enunciati performativi.
Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein abbandona questa concezione a favore di un’altra, in cui la grammatica del linguaggio è definita a partire dalle regole d’uso degli enunciati linguistici. Non importa più sapere se un enunciato è vero o falso, ovvero se è logicamente valido, bensì stabilire quale “gioco linguistico” si sta giocando e a quale “forma di vita” del linguaggio si assegnano gli enunciati linguistici prodotti. Il gioco linguistico giocato dal sindaco che sposa una coppia con la formula di rito è diverso dal gioco linguistico che permette a due operai di comunicare mentre lavorano per passarsi gli strumenti.
Sen ipotizza che Wittgenstein possa essere giunto a questa nuova visione della grammatica attraverso l’influenza implicita, mediata da Sraffa, del pensiero linguistico gramsciano. Prima di approdare a Cambridge, Sraffa a Torino aveva conosciuto Gramsci, di cui era divenuto buon amico, collaborando anche al periodico “Ordine nuovo”, diretto da quest’ultimo. Sraffa era vicino all’ideologia comunista, pur non essendo esposto come lui nelle attività e nella direzione del partito.
Lo Piparo restituisce alla felice ipotesi di Sen il necessario quadro indiziario. Non solo Sraffa conobbe Gramsci e ne condivise gli ideali politici, ma sostenne anche economicamente il filosofo e politico sardo durante la detenzione, restando in costante comunicazione con lui. È molto probabile che Sraffa sia stato il custode fiduciario dei Quaderni gramsciani; trasferitosi, nel frattempo, a Cambridge, conobbe conosce Wittgenstein.
L’economista non ha, dunque, ispirato la svolta di Wittgenstein solo perché, come vuole un ben noto aneddoto, passeggiando e discutendo con il filosofo austriaco sullo statuto di validità del linguaggio, chiese provocatoriamente al filosofo come avrebbe potuto giustificare in termini logici l’efficacia di un ben noto gesto colloquiale italiano (per la precisione napoletano). Sraffa avrebbe, in realtà, messo a parte Wittgenstein dell’avanzata teoria del linguaggio elaborata da Gramsci nel “Quaderno 29”. Sarebbe questo il fondamentale contributo, riconosciuto implicitamente dallo stesso Wittgenstein, dato da Sraffa alla svolta del pensiero wittgensteiniano.
Lo Piparo trae anche una conclusione di ordine filosofico, dopo averne fatto una puntuale ricognizione storica e indiziaria, dalla vicenda che lega a distanza Gramsci e Wittgenstein. Una volta rimessa in contatto con la sua fonte gramsciana, il “Quaderno 29”, la filosofia del linguaggio del secondo Wittgenstein – quella incentrata sui concetti di “gioco linguistico” e di “forma di vita”, come sul primato delle regole d’uso quanto alla definizione della grammatica di una lingua – rivela un aspetto politico profondo.
Possiamo ora concepire i giochi linguistici, con cui i soggetti producono enunciati e comunicano tra loro, come relazioni di potere che hanno la capacità di plasmare i rapporti sociali e culturali tra le classi. Il linguaggio è, in altre parole, strumento privilegiato dei rapporti di egemonia che attraversano la società, costituendo il politico come tale. Il saggio di Lo Piparo apre perciò a un inaspettato ripensamento della teoria linguistica nei termini di una filosofia politica del linguaggio, tutta orientata nei termini di un originale pensiero critico della prassi.