Pubblichiamo un articolo di Will Davies della Goldsmiths, University of London, Department of Politics and International Relations, tradotto da Niccolò Tempini, University of Exeter, Department of Sociology, Philosophy and Anthropology.
1) La geografia della Brexit riflette la crisi economica del 1970 e non del 2010
È stato presto chiaro, nella notte dopo il voto, che il Leave ha ottenuto livelli straordinari di supporto nel Nord Est, con il 70% dei voti in Hartlepool e il 61% in Sunderland. È emerso successivamente che anche il Galles, complessivamente, ha votato per il Leave, con particolare forza nel Sud, in aree come Newport. Nell’analizzare questo risultato, è facile concentrarsi sulla storia recente, quella dell’austerità Tory. Come se la rabbia contro élites e immigrati fosse semplicemente un effetto dei tagli alla spesa pubblica degli ultimi sei anni (quelli dei governi Cameron) o, più strutturalmente, il collasso del modello di crescita britannico pre–2007, basato sul debito.
Consideriamo ora una retrospettiva più lunga, a proposito di queste regioni. Sono storicamente riconosciute come il cuore del Labour, centrate sui bacini carboniferi e sui cantieri navali. Infatti, al di fuori di Londra e la Scozia, queste regioni sono state tra le poche macchie di rosso Labour sulla mappa elettorale del 2015. Non c’è motivo di pensare che, se ci fosse una elezione in autunno, non rimarrebbero rosse. Ma sin dalla crisi di stagflazione dei 1970 non c’è stata, nel linguaggio dei geografi Marxisti, una “riconfigurazione spaziale” che abbia tenuto. Il Thatcherismo le ha lacerate con la chiusura delle miniere e il monetarismo, ma non ha generato lavori nel privato con cui colmare quel vuoto. Quell’investimento imprenditoriale che i neoliberali credono sia sempre appena dietro l’angolo non si è mai materializzato.
La soluzione Labour è stata di destinar loro della ricchezza attraverso politiche fiscali: parte della pubblica amministrazione è stata strategicamente trasferita nel Sud del Galles e nel Nord Est (d’Inghilterra) per alleviare la deindustrializzazione, mentre le detrazioni fiscali sono state usate per rendere più sostenibile il lavoro nei servizi a bassa produttività. Tutto questo effettivamente ha creato uno stato sociale d’ombra mai pubblicamente riconosciuto, e coesistente con una cultura politica che coltivava il disprezzo per le forme di dipendenza economica. Il commento famoso e scellerato di Peter Mandelson, secondo cui si poteva contare sul voto delle terre Labour in qualsiasi evenienza “perché non hanno nessun altro posto dove andare”, era la testimonianza di un atteggiamento dominante. Per riprendere le parole di Nancy Fraser, il New Labour ha offerto redistribuzione ma nessun riconoscimento.
Questa contraddizione culturale non era sostenibile, e non lo era quella geografica. Non solo la “riconfigurazione spaziale” ha avuto un effetto relativamente breve, dipendendo dalla crescita degli introiti fiscali nel Sud Est e da un governo di centro-sinistra disposto a una spesa piuttosto generosa, ma è stata anche incapace di garantire ciò a cui molti elettori della Brexit forse aspirano di più: la dignità dell’autosufficienza, non necessariamente in un senso neoliberista, ma certamente in un senso di comunità, familiare e fraterno.
2) I sussidi non producono gratitudine
Per lo stesso motivo, sembra improbabile che oggi gli abitanti di quelle regioni (o della Cornovaglia, o di altri territori periferici) si possano sentire “grati” alla UE per i suoi sussidi. Sapere che la tua impresa, fattoria, famiglia o regione dipende dalla beneficenza di liberisti benestanti è una improbabile ricetta per l’appagamento personale (si veda per esempio il saggio di James Meek nella «London Review of Books» sugli agricoltori Eurofobici che ricevono ingenti sussidi dall’unione). Cosa ancora più bizzarra, era noto da tempo che sono le regioni con le relazioni economiche con la UE più strette ad essere le più orientate verso il Leave.
Mentre l’affermazione “si beneficia dalla UE” può ben essere compresa per esempio da un finanziere (in termini di regolamenti), è tutta un’altra cosa incoraggiare i poveri e gli emarginati culturali a sentirsi grati verso le élite che li sostengono con assegni mese dopo mese. Il risentimento si sviluppa non di fronte a tale generosità, ma proprio in ragione di questa. Questo non significa screditare ciò che fa la UE in termini di redistribuzione, ma riferirsi agli assegni della UE è una base psicologicamente e politicamente ingenua per giustificare la permanenza nella UE.
In questo contesto, lo slogan “take back control” (riprendere il controllo) è stato un colpo di genio politico. Ha funzionato su tutti i livelli tra il macroeconomico e lo psicoanalitico. Essere una persona senza il controllo di sé (per esempio soffrendo d’incontinenza o di un tic del viso) vuol dire essere alla mercé di battute crudeli e vittima di pubblico imbarazzo. È qualcosa che può ridurre l’indipendenza individuale. A essere stata particolarmente intelligente nel linguaggio della campagna Leave è stata la scelta di parlare direttamente a questa emozione di inadeguatezza e imbarazzo, promettendone lo sradicamento. La promessa non ha avuto nulla a che fare con l’economia o le politiche. Ha riguardato invece solo l’allure psicologica dell’autonomia e del rispetto di sé. La strategia politica di Farrage è stata di prendere sul serio comunità altrimenti date per scontate per gran parte degli ultimi cinquant’anni.
Questo non si deve necessariamente tradurre in orgoglio nazionalista o in razzismo (nonostante possa farlo). Ma vuol dire, almeno, non venire più derisi. Coloro che mai hanno riso dei “chavs” (cafoni) (come le star milionarie di Little Britain) hanno ora qualcosa su cui riflettere, come ha sostenuto Rhian E. Jones in Clampdown. La volontà di Nigel Farrage di sopportare il riso sprezzante dei liberali metropolitani (per esempio attraverso le sue apparizioni periodiche alla trasmissione “Have I Got News For You”) può averlo fatto sembrare coraggioso agli occhi di molti potenziali elettori del Leave. Non posso fare a meno di pensare che ognuna delle frecciate compiaciute, liberali, snob che gli ha tirato Ian Hislop nel suo programma sempre più odioso, non ha fatto altro che assicurare che la vendetta sarebbe stata sempre più grande, una volta giunto il momento. Le risatine, di cui anche Boris Johnson ha ampiamente goduto, devono essere fermate.
3) La Brexit non era alimentata da una visione del futuro
Una delle cose più significative che ho osservato in prossimità del referendum è stato un video prodotto da Adam Ramsey e Anthony Barnett, di OpenDemocracy, in cui si discuteva della visita di Doncaster, un altro cuore Labour. Gli autori hanno scelto Doncaster perché sembrava predisposta a sostenere con forza il Leave, e volevano capire che cosa stava succedendo. Vi osservavano che – in forte contrasto con il recente movimento per il Sì scozzese – la Brexit non è alimentata da speranza per un futuro diverso. Al contrario, molti “Leavers” credevano che lasciare la UE non avrebbe cambiato per niente le cose, né in un modo né nell’altro. Eppure erano risoluti. Ho sospettato a lungo che, a un qualche livello inconscio, la logica potrebbe essere ancora più strana: l’autolesionismo inflitto dalla Brexit potrebbe essere potenzialmente parte della sua attrazione. È ormai dimostrato che molti sostenitori del Leave sono inorriditi da ciò che hanno fatto. Come se non avessero veramente voluto dare conseguenza alle loro azioni.
Questo si connette ad un malessere culturale e politico molto più vasto, lo stesso che appare guidare l’ascesa di Donald Trump negli Stati Uniti. Alle persone che hanno completamente rinunciato al futuro, oggi i movimenti politici non devono promettere nessun cambiamento realistico o desiderabile. Se proprio vogliamo, questi movimenti sono più rassicuranti ed affidabili quando impostati intorno all’idea che il futuro è senza speranza. Rimangono così in sintonia con le stesse esperienze private di questi elettori. Negli Stati Uniti è stato riscontrato un effetto “Case Deaton” (innalzamento inaspettato dei tassi di mortalità tra i bianchi della classe operaia), collegato all’innalzamento nell’abuso di alcol e oppiacei e dei tassi di suicidio. Inoltre, è stata dimostrata la sua maggiore incidenza nelle stesse aree geografiche con il supporto per Trump più ampio. Non sono al corrente di un equivalente di questo fenomeno per il Regno Unito, ma sembra chiaro che – al di là della retorica su “Gran Bretagna” e “democrazia” – la Brexit non è mai stata pensata come una politica sostenibile. È stato invece solamente un impulso distruttivo, di cui alcuni di coloro che vi hanno ceduto ora si sentono colpevoli.
Thatcher e Reagan salirono al potere promettendo un futuro migliore, un futuro che in realtà non si materializzò mai se non per una minoranza con accesso a un’istruzione d’élite e disponibilità di capitali. La promessa populista contemporanea “make Britain or America great again” non è fatta nello stesso modo. Non è una promessa né una piattaforma di governo. Non è da misurare in risultati. Quando fatta da persone come Boris Johnson non è neppure chiaro se sia intesa seriamente. È più che altro l’offerta di un’allucinazione collettiva in tempo reale, in cui poter indulgere come fosse un videogioco.
La campagna per il Remain ha continuato a basarsi su previsioni, avvertimenti e stime, nella speranza che la gente alla fine si sarebbe dissuasa da un voto “di rischio”. Ma per coloro che hanno già rinunciato al futuro, tutto questo è solo altra retorica politica. E comunque, è l’intera pratica di modellare il futuro in termini di rischio ad aver perso credibilità, come risulta evidente dal declino ormai terminale dei sondaggi d’opinione come strumento per il controllo politico.
4) Ora viviamo nell’età dei dati, non dei fatti
Una delle lamentele avanzate più spesso da commentatori, economisti ed opinionisti liberali è stata che la campagna del referendum veniva condotta senza guardare alla “verità”. Questo non è del tutto vero. La campagna veniva condotta senza guardare ai fatti. Con grande frustrazione della campagna per il Remain, i loro “fatti” non hanno mai fatto presa, mentre i “fatti” del Leave (più di tutti il prezzo di £350 milioni a settimana dell’appartenenza alla UE) sono stati largamente accettati.
Ma che cos’è esattamente un “fatto”? Nel suo libro A History of the Modern Fact, Mary Poovey sostiene che un nuovo modo di organizzare e percepire il mondo è apparso alla fine del XV secolo, a partire dall’invenzione della contabilità a partita doppia. Questo nuovo stile di conoscenza è quello dei fatti: rappresentazioni che sembrano indipendenti dal contesto, mentre allo stesso tempo possono magicamente inserirsi in molteplici contesti a seconda del momento. La base per questo incantesimo è che misurazioni e metodologie (come le tecniche di contabilità) devono venire standardizzate e poi trattati come apolitiche. Tutto ciò permette ai numeri di muoversi liberamente nel discorso pubblico senza difficoltà né sfida. Ma affinché questo funzioni, l’infrastruttura che produce i “fatti” dev’essere controllata attentamente, idealmente attraverso la centralizzazione nelle mani di istituti di statistica e università di élite (l’ascesa dei sondaggi commerciali nei 1930 era già stata una sfida all’autorità dei “fatti” a questo riguardo).
Questa partita è finita da un po’. Non appena i media iniziano a far clamore riguardo ai “fatti” di una situazione, per esempio con i bollettini di “Fact check”, è chiaro che i numeri sono già stati politicizzati. I “fatti” (come le statistiche) sono sopravvissuti come autorità per la deliberazione democratica per la maggior parte dei duecento anni successivi alla Rivoluzione Francese. Ma la politicizzazione delle scienze sociali, delle misure e della gestione della politica indicano che i “fatti” prodotti dagli istituti statistici di Stato devono ormai competere con altri “fatti” che li contrastano. La decostruzione dei “fatti” è stata in parte spinta da varie teorie del post-moderno sin dai 1960, ma è anche una conseguenza inevitabile del tentativo (caro al New Labour) di trasformare il governare in un esercizio puramente scientifico.
Il tentativo di ridurre la politica a una scienza utilitarista (e, più spesso, all’economia neoclassica) finisce per ritorcersi su se stesso, una volta che la scienza in questione inizia a diventare politicizzata. L’idea della “evidence-based policy” è ormai vecchia e una ricezione passiva dal basso non è più possibile. Invece il pubblico comprende, tacitamente, che spesso si tratta al contrario di “policy-based evidence”. Quando il fronte del Remain si riferiva ai suoi “fatti”, previsioni e modelli, sperava che questi sarebbero stati giudicati come esterni alla mischia della politica. Più assurdamente, costoro sembravano immaginare che le opinioni di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale potessero essere viste come “indipendenti”. Sfortunatamente, negli ultimi trentacinque anni, la scienza economica è stata una tale stampella per l’autorità politica che ora si può dire tutto tranne che sia fuori dalla mischia della politica.
Invece che in un mondo di fatti, ora viviamo in un mondo di dati. Invece di produrre numeri usando misure e metodologie fidate, una gamma frastornante di numeri viene ora prodotta automaticamente, per essere scavata, visualizzata, analizzata e interpretata in qualsiasi modo si voglia. Mentre la modellizzazione del rischio (attraverso concetti di normale statistica) è stata la tecnica di ricerca definitiva del IXX e XX secolo, la “sentiment analysis” è la tecnica definitiva dell’età emergente del digitale. Non abbiamo più rappresentazioni del mondo stabili e “fattuali”. Abbiamo invece capacità senza precedenti di percepire e osservare cosa sta emergendo e dove, chi si sente in un certo modo, qual è la sensazione generale.
I mercati finanziari sono di per sé molto più strumenti di sentiment analysis (rappresentando l’umore degli investitori) che produttori di “fatti”. Questo è il motivo per cui è stato così assurdo rivolgersi, in diversi momenti, ai mercati valutari e gli speculatori dello spread per sapere la verità su ciò che sarebbe successo nel referendum. Data l’assenza di qualsiasi fatto affidabile (nella forma di sondaggi), essi hanno potuto solamente comunicare una sensazione di cosa gli investitori percepivano dell’umore nazionale: una sensazione di una sensazione. Nel passaggio tra il 23 e il 24 giugno, è diventato palesemente chiaro che i mercati di previsioni sono poco più che una rappresentazione aggregata degli stessi sentimenti e umori che già si possono osservare attraverso Twitter. La loro ragion d’essere non è svelare la verità, ma di tracciare l’umore.
5) Il paese meno schiavizzato dell’unione si è appena sbarazato dei suoi ceppi
Se la UE ha funzionato bene per un Paese in Europa, questa è la Gran Bretagna. Grazie allo scetticismo e alla paranoia di Gordon Brown, la Gran Bretagna ha infatti schivato l’errore catastrofico della moneta unica. Di conseguenza, è stata relativamente libera di perseguire le politiche fiscali che ha ritenuto socialmente e politicamente desiderabili. Il fatto che abbia compiuto ripetutamente scelte neoliberiste non è in realtà colpa della UE, nonostante il patto di stabilità e sviluppo. Al contrario dei paesi dell’Europa meridionale, la Gran Bretagna è rimasta quasi senza vincoli. Ha beneficiato della stabilità economica, di una struttura di regolamenti internazionali chiara e di un senso di fratellanza culturale con gli altri Stati membri. Si potrebbe sostenere che, rimanendo nella UE ma fuori dall’Eurozona, nel XXI secolo la Gran Bretagna abbia fatto un affare migliore di qualsiasi altro Stato membro.
Tutto questo è stato abbandonato. Nel frattempo, i Paesi che si potrebbero genuinamente ritenere “incatenati”, che hanno sofferto attacchi alla propria democrazia, per esempio con primi ministri imposti dalla troika e con l’obliterazione forzata del proprio futuro, potrebbero guardare alla Brexit e farsi delle domande.