Fra gli studenti del corso di Mendelsohn sull’Odissea ce n’era fu uno speciale: suo padre.
«L’Odissea dunque non è solo una storia di mariti e mogli, è anche, forse ancor più, una storia di padri e figli»: è questo l’assunto su cui si poggia il bel libro di Daniel Mendelsohn Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea, tradotto per Einaudi da Norman Gobetti, nella collana “Frontiere”, che si conferma una delle più interessanti del panorama editoriale italiano.
Daniel Mendelsohn è – oltre a un pregiato scrittore, critico e traduttore – un classicista che insegna al Bard College, non lontano da New York. Ed è proprio in occasione di un suo corso sull’Odissea che avviene il fatto scatenante del libro: suo padre, l’ottantunenne Jay Mendelsohn, gli chiede di poter partecipare al corso, e il figlio acconsente. Eccolo quindi sedersi con i giovanissimi studenti a partecipare a un seminario sul poema in questione. Del resto, l’autore ci dice che i poemi omerici sono sempre stati per lui uno strumento di comprensione del proprio rapporto fra figlio e padre: «È questo il motivo per cui sento di non aver mai davvero conosciuto mio padre finché non ho cominciato a leggere seriamente i classici».
Il libro si compone di più livelli: le sedute del seminario, le ore che le precedevano, la ricostruzione della storia del padre e della famiglia dell’autore, il rapporto fra padre e autore e scorci biografici di quest’ultimo, e il racconto di una crociera a tema che Jay e Daniel Mendelsohn fecero insieme nei supposti luoghi dell’Odissea. Impariamo molto sul poema, e il seminario è ricostruito con grande abilità narrativa, rendendoci frenetici di scoprire o ricordare tanto cosa avverrà nel prossimo capitolo (“Libro”) del poema quanto cosa si diranno studenti e insegnante su quel capitolo.
A dover proprio scegliere, la parte che in un primo momento sembra meno interessante è proprio quella sulla vita del padre e sul suo rapporto con l’autore, al punto che si arriva a chiedersi se tutte le storie familiari meritano d’essere raccontante (o lette), e se ci sia una qualche soglia al di là della quale possiamo considerare una storia familiare realmente diversa da quelle di tutti noi, e che quindi vale la pena raccontare. Potremmo però risponderci che non è tanto la particolarità di una storia familiare a renderla degna di essere scritta o meno, quanto la capacità di scriverla. È così? In attesa di capirlo, accontentiamoci di godere della capacità che Mendelsohn ha di rendere i livelli del suo libro organici fra loro, e spesso inseparabili. In questa prospettiva, l’episodio della visita alla presunta grotta di Calipso, fra i molti esempi possibili, è uno dei momenti in cui tutto ciò sembra distillarsi in un singolo e commovente episodio.
Il padre dell’autore non mantiene fede alla sua promessa di ascoltare solamente e non si trattiene mai da commenti come questi, per il sollazzo – ma anche l’ammirazione e la tenerezza – degli altri studenti: «Non capisco perché dovremmo considerarlo un grande eroe. Tradisce la moglie, va a letto con Calipso. Perde tutti i suoi uomini, quindi come comandante fa schifo. È depresso, piagnucola. Se ne sta con le mani in mano a dire che vuole morire». Al di là del divertimento all’idea di un anziano brontolone che si esprime in questi termini, è interessante vedere come i commenti al poema riflettano cosiddetti “valori” e visioni del mondo locali, in questo caso americani. Sarebbe di per sé un dato banale, se non fosse che leggiamo nel libro passaggi quali qui, per esempio, sull’amarezza che Telemaco esprime per l’inconoscibilità del padre: «I nostri genitori sono misteriosi ai nostri occhi in modi in cui noi non potremo mai esserlo per loro». Ovvero passaggi in cui constatazioni di questo tipo si fanno assertive, se non normative, e universalistiche, mentre quel che di prezioso possiamo trarre dai poemi omerici è anche la “controintuitività” di queste dinamiche umane, che sono paradossalmente tanto strutturali quanto sempre diverse fra loro e mai così generalizzabili.
Ma, del resto, a essere diverso è proprio il livello e i modi di espressione dell’emotività implicata in una situazione come quella descritta da Mendelsohn. Pensiamo per esempio alla mail che una studentessa ha inviato all’autore alla fine del corso che terminava con frasi a cui lui attribuisce «stringatezza e mancanza di sentimentalismo»: «È un uomo incredibile, e ogni volta è stato meraviglioso averlo fra noi. Parlare con lui era un piacere. Ogni volta che leggerò l’Odissea penserò a lui». Forse qualche traccia di sentimentalismo c’è.
Ma non pare una questione di cultura locale dell’espressione delle emozioni, per così dire; è forse invece qualcosa che riguarda le abitudini rispetto al rapporto fra insegnanti e studentesse. Quanto ci racconta Mendelsohn è a volte ai limiti dell’impensabile, in un contesto universitario italiano: «A quel punto Jack sbottò, Mi scusi, professore, non vorrei offenderla, assolutamente, ma a volte, ora ad esempio, mi sembra che lei abbia in testa un’interpretazione che ritiene giusta e voglia per forza portarci a vedere le cose a modo suo, liquidando tutto quel che non combacia con la sua interpretazione. A me questa idea sembra una figata».
Nel leggere di Jay Mendelsohn che decide di frequentare il corso tenuto dal figlio Daniel sull’Odissea, torna in mente un altro libro che ha a che fare con un adulto che decide di tornare all’università a studiare letteratura. Si tratta di Grandi libri. Le mie avventure con Omero, Rousseau, Woolf e gli altri immortali del canone occidentale, di David Denby (traduzione di Lucia Olivieri, Fazi, 1999).
Denby, giornalista e critico cinematografico del «New York Times» e del «New Yorker», nel 1991 decise di tornare alla Columbia University, trent’anni dopo aver studiato lì. I motivi per cui decise di farlo erano principalmente due. In primo luogo, una sua questione personale, in una fase della vita in cui sentiva che quello che aveva studiato e il suo «patrimonio culturale» fossero ormai un ricordo troppo sbiadito: «Leggere i classici può sembrare una strana soluzione all’ansia della mezz’età o una crisi d’identità, o qualunque cosa fosse. Perché non viaggiare o andare a caccia di elefanti? O inseguire le adolescenti o rinchiudersi in un monastero? Così, forse, gli uomini tendono di solito a risolvere simili problemi. Ma io ero in cerca di avventura, e doveva essere qualcosa in grado di esercitare un fascino su di me». E, sempre riguardo la sua sfera personale e la vorticosità della sua vita, una vorticosità che da decenni gli impediva di prendersi il tempo di un’attività lenta e profonda quale la semplice lettura di un libro: «Allora perché non mi mettevo semplicemente a leggere? Perché tornare all’università? Perché volevo vedere come leggono gli altri, o come evitavano di farlo».
La seconda ragione era invece di tipo politico-culturale, e si trattava della tendenza a mettere in discussione i grandi classici della letteratura secondo parametri contemporanei di “correttezza politica”, un fenomeno riguardante soprattutto i campus statunitensi: «Nessuno avrebbe immaginato che quei corsi nei decenni successivi sarebbero stati accusati di essere iniqui strumenti di oppressione delle minoranze, o viceversa, considerati sacri bastioni dell’Occidente».
I libri studiati nel corso – da Omero a Platone, da Sofocle ad Agostino, fino a Virginia Woolf – erano all’epoca al centro di un dibattito sull’istruzione negli Stati Uniti e sul suo essere troppo legata ad autori uomini, occidentali e bianchi. Con un certo sarcasmo, Denby si chiede: «Quale ruolo dovrebbero svolgere i classici dell’Occidente e un curriculum di studi eurocentrico in un Paese in cui i cittadini – tra i quali ci sono discendenti degli schiavi africani e degli indiani d’America – non provengono unicamente dall’Europa? Come si può pretendere che le donne e le minoranze etniche, che hanno sempre subito l’oppressione del Maschio Bianco Europeo, possano ancora oggi formarsi sulle opere di quegli stessi Dead White European Males? Non erano domande del tutto irragionevoli, anche se oggi sembra impossibile che qualcuno sopra i sedici anni possa avere utilizzato seriamente una simile definizione». E da questo ordine di dubbi non era esclusa neanche l’Odissea: «Mi resi conto che l’Odissea mi avrebbe creato dei problemi. Si profilavano all’orizzonte le nuvole nere del politically correct che mi avrebbero trascinato verso un’analisi ideologica dell’opera. Ogni verso è espressione di quell’ordine patriarcale, delicata miscela di ferocia e dolcezza, che costituisce il sostrato del testo». Una miscela di ferocia e dolcezza: come, direbbe forse Mendelsohn (e fatte le debite proporzioni), il rapporto con un padre?
Al di là di questo dibattito e dei suoi tranelli, interessante qui è il capitolo dedicato al momento in cui nel corso frequentato da Denby è ora di concentrarsi sull’Odissea: «“Siete tutti come Telemaco, no?”, disse il professor Tayler. Telemaco? Il figlio di Odisseo? Arruffati e sonnolenti, oppure agitati e confusi, gli studenti fissarono categoricamente i loro fogli. Uno strano sguardo vuoto si dipinse sul viso delle ragazze e la solita espressione ottusa di difesa comparve su quello dei ragazzi con il berretto con la visiera all’indietro. A me sembrava che di Telemaco avessero soltanto l’incertezza».
Denby definisce l’Odissea una «black comedy», con gli eroi che vorrebbero solo vivere in santa pace e spassarsela, e che invece si trovano costretti ad affrontare nuove prove, nuove angosce e nuove schiavitù. Ma la sua lettura si concentra soprattutto sullo sfondo ideologico in cui vengono collocati i classici negli anni in cui si è iscritto per la seconda volta all’università.
«Si possono ripudiare le ingiustizie del passato senza respingere i capolavori che ne sono scaturiti: un concetto piuttosto ovvio, tra l’altro, per quanto sempre più impopolare all’interno delle università americane in questi tempi in cui la storia viene analizzata con sospetto e l’arte del passato giudicata complice delle atrocità commesse dagli uomini. I poemi omerici dovevano essere eliminati dai corsi universitari, allora?» Il solo fatto che Denby, e molti con lui, abbia potuto porsi questa domanda e spendere un intero libro per articolare il suo parere negativo lascia molto perplessi, se non spaventati.
In ogni caso, l’accostamento fra le opere di Denby e Mendelsohn fa emergere un rischio della lettura della seconda, che è quella che qui ci interessa di più: che si finisca per leggere dell’Odissea pensando più al sistema d’istruzione statunitense e alle questioni familiari dell’autore che a quello che il poema ha effettivamente da offrire a tutti. Sembrerebbe una constatazione piuttosto esagerata e fuori luogo, se solo non si considerassero due fattori: il primo è che lo sguardo portato sul poema da Mendelsohn è direttamente plasmato dalle necessità pedagogiche del contesto universitario della vicenda del libro; il secondo è invece che, se da una parte uno degli elementi di grandiosità dei poemi omerici (e non solo) è proprio quello di offrire un paradigma attraverso cui leggere anche la propria storia familiare, dall’altra è il caso di tenere sempre presente che l’Odissea non merita che se ne faccia solo un uso strumentale di, per così dire, autoanalisi e gestione dei propri ricordi e delle proprie relazioni familiari: il rischio di tale uso strumentale è che il potere euristico dei poemi venga esposto alle mutazioni delle metodologie, dei paradigmi e insomma dei tempi, come se un poema omerico, allontanato troppo da una lettura dell’opera in sé, possa semplicemente passare di moda, così come appunto passano di moda gli “strumenti”. È un rischio che Un’Odissea di Mendelsohn corre per sé e fa in qualche modo correre al poema? Non proprio, perché a metterlo al riparo è l’organicità che, in gran parte del libro, Mendelsohn riesce a conferire al suo testo, in una posizione di umiltà che, in qualche modo, ci fa pensare che sì suo padre è morto e le generazioni passano, che sì il corso universitario è finito e avanti con i prossimi studenti, e che sì che insomma “la vita va avanti” com’è normale che sia (e non ci sono divinità immortali o esseri semimortali che tengano), ma in fondo l’Odissea rimane lì, ed è prima di tutto il meraviglioso sfondo su cui tutto questo accade e scorre.
Peraltro, i libri di Denby e Mendelsohn trovano un piccolo punto di contatto quando Denby, in corrispondenza delle lezioni su Shakespeare e Re Lear, ci racconta qualcosa che accade alla sua famiglia: «Mia madre morì in maniera perfettamente coerente al suo carattere: decisa e veloce». E in entrambi i casi c’è di mezzo una telefonata: quella di Denby che chiama sua madre, che non le risponde («Quando non rispose, capii subito che era successo qualcosa e una parte di me pensò: È morta»), e quella che Daniel Mendelsohn riceve da sua sorella: «Pronto?, dissi arrocchito. Ginny disse, Daniel. Ero mezzo addormentato. Guardai l’orologio. Le 7,14. Ciao, tossicchiai. Cosa c’è? Con la sua voce cristallina lei disse, Tuo padre».
Alla fine della lettura del libro di Daniel Mendelsohn mi è venuta voglia di fare una delle molte cose preziose che l’opera ha il merito di, in qualche modo, suggerire: rileggere almeno qualche passaggio dell’Odissea.
Per farlo, ho afferrato dalla mia libreria di casa la copia che ho a disposizione, e che ho colpevolmente sempre un po’ trascurato. La scruto: si tratta di un’edizione – piuttosto malmessa (reca chiari segni di maltrattamento…) – del 1951, dell’editore torinese SEI (Società editrice internazionale), traduzione di Ippolito Pindemonte, a cura di Onorato Castellino e Vincenzo Peloso. Ho fatto mente locale sul come quel libro fosse finito in casa mia, finché non ho guardato con più attenzione la grafia delle scritte in copertina e degli appunti all’interno e, insomma, finché non me lo sono ricordato: era di mio padre.